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Come una molla

Di tanto in tanto torno a giocherellare con i numeri delle iscrizioni anagrafiche resi disponibili dall’Istat. In due precedenti occasioni avevo esaminato i periodi 2012-2016 e 2016-2020.

Nulla di nuovo nelle tendenze; il calo demografico, già previsto da circa mezzo secolo, negli ultimi anni ha iniziato davvero a manifestarsi e a interessare quasi tutti i comuni italiani e in particolare quelli delle cosiddette aree interne. I flussi migratori degli ultimi decenni hanno compensato solo parzialmente la flessione già prevista da tempo degli italiani, e negli ultimi anni anche i residenti stranieri iniziano a registrare flessioni.  

Nulla di nuovo nemmeno nei dati del nostro comune di Jesi; le “curve” dei grafici per classi di età si “limitano” a spostarsi in avanti, riproducendosi uguali, e la popolazione totale continua a diminuire. La soglia psicologica dei 40 mila residenti era stata già superata (in discesa) nel 2018; ora, al 1° gennaio 2023 i residenti totali sono 39.137 (556 in meno, il 2,21%, rispetto al 1° gennaio 2019, nel confronto qui esaminato ora; una flessione un po’ più accentuata di quella dell’intera provincia, pari all’1,53%).

Anche le iscrizioni dei cittadini stranieri risultano in calo nel periodo ora esaminato, di 178 unità (una flessione del 4,1%, scendendo da 4.344 a 4.166 unità). (Attenzione, può anche darsi che ci siano, dentro questi numeri, anche aggiustamenti amministrativi, io qui mi sto limitando a “giocare” con i numeri che trovo, non sto facendo verifiche e controlli).

In ogni caso, per nostra curiosità, risultano presenti in città (al 31 dicembre 2019, gli ultimi dati di questo tipo che ho trovato) cittadini di 96 diverse nazionalità, comprese quelle UE; tuttavia solo 12 comunità sono presenti con almeno cento persone, mentre le prime quattro (nell’ordine: Romania, Bangladesh, Albania e Nigeria) da sole registrano già la metà dei residenti.

serie 1: anno 2019 -serie 2 anno 2023 – serie 3 variazioni

Torniamo ai valori totali. Nulla cambia nella “curva” dei grafici, dicevo; guardiamo però qualcosa di più nel dettaglio. Le flessioni maggiori riguardano due gruppi di classi di età; innanzitutto le classi cosiddette Alfa, cioè gli ultimi nati, negli anni dieci del nuovo secolo, e questo è un dato importante per l’immediato futuro: sono flessioni che in termini % balzano con forza all’occhio: – 8,9% la classe 5-9 anni e addirittura – 19,3% la classe 0-4 anni. In valore assoluto, queste due classi di età registrano un calo di 444 unità in soli cinque anni.

Le altre classi di età che registrano flessioni significative sono quelle comprese tra i 35 e i 49 anni, ed è proprio qui l’effetto di cui parlavo, della curva che si riproduce spostandosi in avanti; infatti, nella prima delle due analisi precedenti (anni 2012-2016) risultavano in flessione le classi tra i 26-40 anni, e nel periodo 2016-2020 le classi di età 30-45), mentre alle loro “spalle” la classi più giovani non registrano le stesse flessioni significative, semplicemente perché sono già attestate su livelli più bassi.

Ho accennato alle “generazioni”. Un’analisi per generazioni dovrebbe introdurci anche a considerazioni qualitative, o di tipo antropologico o storico; qui avendo a disposizione soltanto i “numeri” possiamo intanto dare uno sguardo al “peso” che queste generazioni più o meno hanno. La generazione più “pesante” è quella dei cosiddetti Boomers, i nati durante il boom demografico e che ora hanno un’età all’incirca tra i 55 e i 75 anni: al 1° gennaio 2023 sono pari al 27% del totale. Sono seguiti subito dalla generazione X, cosiddetta di Transizione, i nati all’incirca tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli ’80: sono pari al 22,13%.

Le classi via via più giovani hanno un peso via via più basso: la generazione Y o Millenial pari al 15,39%, la generazione Z o “delle reti” pari al 13,75% e l’ultima, la generazione Alfa appena il 7,16%. Insomma, è più che evidente che le nuove generazioni non potranno compensare le “uscite” future (“oggi a te domani a lui”, specificava il principe De Curtis) dei Boomers e della generazione X.

Sul lato opposto, le generazioni over 75 hanno un peso minore dei Boomers ma comunque ancora elevato, pari al 14,58%.

A questo punto sarebbe interessante consultare delle previsioni per i prossimi anni; siamo fortunati, l’Istat ha messo a disposizione le previsioni per il ventennio 2022-2042. Anche questi numeri mi limito a guardarli, per curiosità, sempre soltanto in riferimento alla nostra città di Jesi.

serie 1 anno 2022 – serie 2 anno 2032 – serie 3 anno 2042

La prima cosa più evidente, osservando i grafici, è la conferma, anche per i prossimi anni, dello “slittamento” in avanti della curva. Però, notiamo anche il suo “inclinarsi” e “schiacciarsi” sempre più con l’avanzare delle classi d’età, e questo cambia di molto le valutazioni da fare, nel senso che gli over 60, che nel 2022 sono pari al 33,18% del totale, saliranno al 37,78 nel 2032 e al valore quasi impossibile del 41,42% del 2042. All’opposto, gli under 25, che nel 2022 sono il 21,06, scenderanno al 19,66 nel 2032 e al 17,85 del 2042. Cioè, nel 2042 saranno meno della metà degli over 60. Cercando una metafora, potremmo dire che la crisi demografica somiglia ad una molla che spinge in avanti e si carica sempre di più.

Per completare, le classi tra i 25-39 anni manterranno all’incirca lo stesso peso, comunque non significativo, pari a circa il 15% del totale, mentre anche le classi 40-59 anni, che sono più o meno le classi centrali del mercato del lavoro, diminuiranno il loro peso sul totale dal 30,43% del 2022 fino al 23,89% del 2042.

Dicevo sopra che nulla cambia nella curva, ma in realtà, a guardare meglio, mi pare che qui sta iniziando a stravolgersi un po’ tutto quanto. E questi sono solo dei numeri “generici”, ed è soltanto un primo sguardo superficiale.

Dimenticavo il totale: secondo l’ipotesi mediana delle previsioni, i residenti del comune di Jesi sono stimati per il 2042 pari a 37.971 unità, il 3,18% in meno. Un valore che superficialmente potrebbe anche non destare preoccupazione, ma come abbiamo appena visto, occorre tenere conto anche delle modifiche interne a questo totale.

Prima di chiudere, però, voglio dare uno sguardo ai “numeri delle previsioni” anche dal punto di vista delle generazioni. Cioè, i Boomers non avranno sempre tra i 58 e i 76 anni ma invecchieranno e nel 2042 avranno altri venti anni di più, e così anche per le altre generazioni, e compariranno anche, dopo la nostra più giovane generazione Alfa, nuove generazioni, come la Beta (quelli che nasceranno dal 2025, e la Gamma (quelli che nasceranno a partire più o meno dal 2040).

Nuove generazioni che alla stessa età non seguiranno gli stessi comportamenti e non avranno gli stessi bisogni delle generazioni che li hanno già preceduti in quella specifica età.

Ripartiamo dalla generazione più numerosa, i Boomers. Continuerà a restare la generazione più numerosa anche nel 2032, con il 24,52%; però nel 2042 scenderà (non basta più citare nemmeno il principe De Curtis) al 17,61%; la generazione maggiore sarà diventata allora la X o di Transizione (il 23,26%) seguita dalla Y o Millenial (anche loro invecchieranno) con un peso sul totale del 18,1%. I Boomer (oramai in terza posizione) saranno quasi raggiunti (come peso %) dalla generazione Z o delle Reti (il 17,45%). Insomma, queste tre generazioni (Transizione, Millenial e “delle reti”) aumenteranno ciascuna di un po’ il loro peso tra venti anni, cioè quando inizieranno a diminuire i Boomers e loro gradualmente potranno sostituirli nelle classi di età comunque maggiormente elevate.

All’opposto, le ultime generazioni, ALFA, BETA e GAMMA (è curioso il cambio di alfabeto) nel 2042 peseranno rispettivamente appena del 9,17%, 7,00% e 6,88%, cioè con valori via via più bassi.

Forse è ora (scossa) di esaminare questi numeri in modo più approfondito e preciso, correlarli ad altri fenomeni, che sembrano altrettanto seri, e osservare più da vicino anche tutti gli aspetti “qualitativi” dei cambiamenti non banali che ci attendono.

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Mi piacciono i fiori

Mi Piacciono i Fiori, incontri formativi per i 50 anni dell’obiezione di coscienza”, dal 29 settembre all’8 ottobre.

Non ho partecipato all’organizzazione di questi eventi e alla scelta del titolo ma quando l’ho letto mi ha richiamato subito alla mente una storica canzone di Pete Seeger, “Where have all the flowers gone” ( https://bit.ly/3raAH1b ) del 1956; una canzone cantata da molti, anche da Joan Baez e che insieme a “We shall overcame” è stata la più cantata nelle marce pacifiste in america contro la guerra in Vietnam. Sono molte anche le cover in italiano. Nel ‘56 la guerra gli americani però l’avevano portata in Corea e in quegli anni questo tema, così come le iniziative contro “la bomba atomica” (non si voleva dopo gli orrori della guerra che si ripetessero tragedie come Auschwitz e come Hiroscima) erano al centro delle diverse iniziative pacifiste anche da noi.

La storia dell’obiezione di coscienza nasce molti anni prima della legge che dal 1972 la regolamenta, ed è legata direttamente anche alla nostra città, attraverso EDMONDO MARCUCCI, un personaggio quasi dimenticato in città che fu invece uno dei principali protagonisti del pacifismo italiano e non solo. La storia dell’obiezione di coscienza è legata al nome di PIETRO PINNA, considerato il primo obiettore (in realtà, anche senza andare agli obiettori della prima guerra mondiale, volendo limitarci al secondo dopoguerra, ci furono prima di Pinna altri due obiettori, nel ’46 Rodrigo Castello della chiesa dei Pentecostali e nel ’48 Enrico Ceroni, testimone di Geova). Il processo a Pietro Pinna, che iniziò il 30 agosto 1949 dopo diversi mesi di prigione, fu però il primo a suscitare scalpore e attenzione, e anche le motivazioni di Pinna non venivano questa volta da una specifica appartenenza religiosa, bensì erano ispirate al pacifismo di imatrice tolstoiana e gandhiana.

Il caso di Pietro Pinna è legato alla nostra città di Jesi perché Edmondo Marcucci fu uno dei testimoni al processo, per spiegare le motivazione filosofiche e spirituali alla base di quelle scelte; ricorda così marcucci nel suo libro “Sotto il segno della pace”: “Io non avevo avuto rapporti personali con l’imputato e lo dissi al presidente del tribunale. Giustificai la mia testimonianza con l’impressione profonda che il gesto di Pinna aveva prodotta in me, convinto pacifista, e volli comunicare un po’ ai giudici questa mia commozione.” Insieme a lui tra i tstimoni c’era Umberto Calosso, che fu uno dei firmatari della prima proposta di legge sull’obiezzione di coscienza ma si dovette attendere oltre venti anni; c’era poi anche Aldo Capitini, e Pietro Pinna poi si unì attivamente a quei movimenti e fu anche lui insieme a Capitini e Marcucci uno dei partecipanti alla prima marcia della pace ad assisi nel 1961. Marcucci ricorda così nelle sue memorie: “Per i fascisti il nemico da sopprimere non era soltanto) il rivoluzionario comunista armato ed aggressivo ma anche il pacifico teorico che aveva solo il torto di seguire ideologie politiche contrarie.”

Anche Tatiana Tolstoj, che allora viveva a Roma e aveva stretto una profonda amicizia con Marcucci, si interessò al caso di Pinna, e scrisse in una lettera a Marcucci: “Io ho pianto di gioia leggendo ciò che questi coraggiosi giovani fanno. Il solo mezzo di combattere la guerra consiste nel rifiuto di parteciparvi…Io morrò più tranquilla sapendo che esistono persone simili”.

La testimonianza di Marcucci non fu un atto occasionale o casuale ma era direttamente parte del suo impegno filosofico e civile sui temi della pace e della non violenza (Marcucci, che era nato nel 1900, fu anche uno dei pochi a rifiutare la tessera fascista); Marcucci collaborava con la rivista L’Incontro diretta da Bruno Segre, l’avvocato difensone di Pietro Pinna, e su L’Incontro Marcucci pubblicava spesso suoi articoli sui temi del pacifismo e della non violenza, e grazie a questa collaborazione continuativa Segre lo invitò a essere testimone anche in altri processi analoghi. Tra questi ci fu il processo all’anarchico Pietro Ferrua, processato per obiezione di coscienza al tribunale militare di La Spezia nel 1950. Nel caso di Ferrua sono invece maggiormente presenti motivazioni riconducibili all’antimilitarismo anarchico, e vi furono altri anarchici che lo seguirono. E tra gli altri testimoni in questo processo anche degli anarchici che erano stati obiettori durante la prima guerra mondiale.

Era, questo del pacifismo, della non violenza, dell’obiezione di coscienza, dell’antilimilitarismo un movimento aperto, dove si incontravano più movimenti e si confrontavano diverse tradizioni; sarebbe interessante approfondire ma ci vorrebbe uno spazio più adeguato per farlo. Tra i libri da consigliare per una prima introduzione c’è “Fiori nei cannoni” di Amoreno Martellini. E inoltre, occorre ricordare, fu rilevante in quegli anni anche il movimento dei partigiani della pace, più direttamente collegato al movimento comunista internazionale.

Tramite Marcucci la nostra città fu collegata a questi movimenti, non solo per il fatto che Marcucci risiedeva e insegnava qui ma anche perché collaborò lui stesso ad alcune iniziative in città, sia invitando conferenzieri a teatro, o con lezioni all’università popolare o qualche iniziativa con gli anarchici, ospitando amici che venivano a trovarlo (tra cui lo stesso Capitini che nelle sue lettere ricorda alcune passeggiate per Jesi), o collaborando direttamente con la nostra biblioteca.

Il cammino per arrivare ad una legge sull’obiezione di coscienza fu lungo, e della stessa legge potremmo dire che fu soltanto una tappa, in quanto non accoglieva in pieno le richieste, poi anno dopo ci fu la nuova legislazione sul servizio civile. In questi ultimi giorni di contempiraneità risalta fuori qualcuno che vorrebbe reintrodurre la leva obbligatoria, e in altri paesi europei con i venti di guerra ci sono già livelli diversi di mobilitazione in corso. Il tema purtroppo è sempre molto attuale.

(Nelle foto che ho scelto vediamo Pietro Pinna all’epoca e poi una foto di gruppo di testimoni e avvocati davanti al tribunale militare di Torino; Marcucci è quello con i baffetti, il primo sulla destra; la foto l’ho trovata in una testimonianza di Daniele Lugli, che conobbe Marcucci: https://bit.ly/3SzoDSJ ).

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Edmondo Marcucci

13 luglio 1900, all’alba del Novecento, nasceva EDMONDO MARCUCCI, una persona assai importante del pacifismo internazionale, che nel 1961 partecipò insieme ad Aldo Capitini alla prima marcia della pace Perugia Assisi.

Marcucci visse a Jesi, dove si trasferì dopo la laurea nel 1923 per fare l’insegnante e fu qui che sviluppò i suoi studi sul pacifismo e la storia delle religioni e avviò relazioni epistolari di respiro mondiale; tra i suoi studi e saggi critici ci sono le opere di Leone Tolstoj – negli anni Trenta entra in relazione epistolare con Olga Biriukòf, figlia di Paolo Biriukòf, biografo di Tolstoj, e incontra a Roma Tatiana Sukhòtin Tolstoj, la figlia, che gli fa conoscere il vegetarianismo – e le opere di Giulio Verne, a cui anche dedica un libro, pubblicato nel 1930.

La sua avversione al fascismo fu totale e fu tra i pochi che rifiutarono senza tentennamenti di iscriversi al partito; nessun calcolo o compromesso con il partito il cui duce Mussolini nel 1932 aveva scritto che il fascismo “respinge il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta – una viltà – di frotne al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigilllo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla.” Ne abbiamo visto i risultati, in Spagna, in Etiopia e poi nella seconda guerra mondiale.

Marcucci non interruppe mai i suoi studi e la sua attività. Mi capitò anni fa di leggere in una tesi di laurea sull’antifascismo a Jesi (me la trovai sotto gli occhi per caso mentre svolgevo un’altra ricerca, e purtroppo non ricordo nemmeno l’autore della tesi) di riunioni clandestine di piccoli gruppi di insegnanti e altre persone anche di orientamento diverso tra loro (alcune più vicine alle idee socialiste o agli azionisti, tra questi c’era anche il nome di Alberto Borioni), in una saletta di quella che ancora oggi è la Trattoria della Fortuna. Mi colpì questo dettaglio immaginando la differenza di atmosfera tra quelle riunioni, mascherate probabilmente da incontro casuale di amici che bevono qualcosa insieme, con la diversa atmosfera, appena poco più di due decenni dopo, di noi sedicenni dei “favolosi anni Sessanta”, in quella stessa identica saletta a cui si accede scendendo una piccola rampa di scale, che aveva al centro un jukeboxe nuovo fiammante. Ma eravamo contemporanei, però ignari, perché negli stessi anni o poco prima (Marcucci muore il 16 agosto del 1963 in un incidente stradale mentre tornava a casa dopo un convegno sulla non violenza a Perugia) aveva preso il via a Perugia la marcia della pace (1961).

Marcucci aveva iniziato la sua collaborazione con Aldo Capitini nel 1941 e nel 1949, insieme a Umberto Calosso e Aldo Capitini, fu teste alla difesa al processo contro il primo obiettore di coscienza in Italia: Pietro Pinna.

Negli ultimi anni del fascismo e negli anni della guerra aveva iniziato a scrivere “Irene, calendario della pace”, una raccolta di pensieri, riflessioni e citazioni di personaggi importanti per il pacifismo; un pensiero al giorno, uniti tutti insieme in un unico discorso, come tessere una tela, un ordito, con un solo filo che collega tutto e crea un tessuto unico; e certamente dietro le maglie di questo tessuto, tra le sue carte, lettere, appunti e la sua biblioteca, ora presso la Planettiana, c’è ancora molto altro da riscoprire, per noi che non siamo sempre così attenti.

Il calendario impegnò Marcucci per molti anni e alcuni anni fa, nel 2004, il Comune di Jesi ne ha fatto curare la pubblicazione, in mille esemplari, accompagnati da commenti introduttivi e da una preziosa ricerca grafica di Ezio Bartocci di opere dedicate agli stessi temi del pacifismo negli anni, a sottolineare ancora oggi l’attualità e la vitalità delle sue riflessioni, simili a un percorso.

Cito uno di quei pensieri: “Presso i popoli civili la migliore spada è il buon diritto; presso i barbari il miglior diritto è una buona spada.” la grafica che nel Calendario lo accompagna (giorno 15 aprile del calendario) è un manifesto dell’organizzazionepacifista e antimilitarista Amsterdam 1983).

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A Jesi diminuisce la popolazione in età da lavoro

Giocando con i numeri. Ciò che propongo in queste righe non è una vera analisi, articolata e con tutti i confronti necessari per trarre interpretazioni solide; esprimo soltanto alcune impressioni da una veloce lettura, tanto per dare un’occhiata, dei dati anagrafici dei comuni che l’Istat annualmente raccoglie.

Negli ultimi cinque anni (dal 2016 al 2020 compreso) a Jesi sono diminuti quasi mille residenti (959 per l’esattezza), che scendono sotto la soglia dei 40 mila (soglia “psicologica” superata 2018), in linea con il trend generale di flessione che interessa la maggioranza dei comuni italiani.

Restando nella nostra provincia, tanto per guardarci attorno qui nel nostro territorio, nello stesso periodo la flessione totale è di 11.773 unità, cioè con un ritmo di oltre duemila residenti all’anno. Inquietante? Soltanto sei comuni registrano una crescita, significativa in termini percentuali soltanto per il più piccolo di questo gruppo, Offagna, che supera seppur di poco la soglia dei 2 mila residenti. Gli altri 41 comuni, sia grandi che piccoli, risultano tutti in flessione: in valore assoluto la perdita più rilevante riguarda Fabriano, seguita da Ancona (che scende sotto i 100 mila residenti) e Jesi. In termini percentuali, le flessioni maggiori riguardano i comuni delle aree interne montane (Fabriano, Cerreto d’Esi, Arcevia, Genga, Sassoferrato) o collinari in particolare della valle esina (Serra San Quirico, Montecarotto, Cupramontana, Staffolo), ma anche della valle del Misa (Barbara, Ostra, Ostra Vetere). La metà dei comuni (24 su 47) subisce flessioni tra il 3% e l’8%), in soli 5 anni. Eppure, non ci facciamo nemmeno caso. (1)

Tornando alla città di Jesi, tra i fenomeni di cui tener conto, scorrendo questi dati, c’è anche quello dei cittadini stranieri che nel periodo hanno ottenuto la cittadinanza italiana (sono 175 solo nell’ultimo anno mentre erano stati 194 nel primo anno esaminato); sono numeri importanti (che riflettono probabilmente la maturità, del resto raggiunta già da tempo, dei cosiddetti “flussi migratori” in città) e che potrebbero spiegare ampiamente la diminuzione  nell’intero periodo dei cittadini stranieri iscritti nei registri anagrafici, mentre ulteriori afflussi migratori di altri cittadini stranieri sembrano rallentare; fenomeno, quest’ultimo, da approfondire.

Per il momento, appare comunque interessante notare – se non ci siamo già abituati anche a questo – che a differenza degli anni passati, quando la flessione dei residenti era, seppure solo parzialmente, contrastata dall’aumento dei residenti stranieri, in questo ultimo periodo (2016-2020) questo non si verifica più. Al contrario, diminuiscono in città anche i cittadini “stranieri” (meno 291 unità), i quali rafforzano così la diminuzione dei cittadini “italiani” (meno 668).  Jesi non è più un comune attrattivo? Non si può dirlo in modo così immediato, questi numeri di per sé non sono sufficienti, e il discorso andrebbe dunque approfondito con ulteriori analisi, e ovviamente dati, non solo anagrafici. E inoltre è un fenomeno non solo locale.

Inserisco una parentesi “metodologica”. Non sto confrontando le singole variazioni anno su anno, che potrebbero per approssimazione dare un’idea dei flussi annuali, ma sto in modo sbrigativo confrontando solo il primo e l’ultimo anno del periodo.

Resta in ogni caso il dato totale, di tutta la popolazione iscritta all’anagrafe, che risulta per l’intero periodo in significativo calo. Vediamone ora la composizione per classi di età. Una flessione sensibile (meno 458 unità) riguarda i più giovani, sotto i dieci anni di età, mentre restano stabili o crescono ma di poco le classi tra gli undici e i trenta anni. Diminuisce quindi ulteriormente il peso dei più giovani, che dovranno rimpiazzare nei prossimi anni le classi “in uscita”.

Una contrazione ancora più accentuata riguarda però, già da oggi, le classi in età da lavoro tra i trentuno e i cinquanta anni (addirittura meno 1.325 persone, il 3.3% degli iscritti totali cinque anni fa), con una flessione più accentuata nella fascia 36-45 anni di età).

Al contrario, le classi di età superiore crescono, di 660 unità, però quasi interamente nella fascia tra i 51 e i 65 anni, mentre è sostanzialmente stabile la popolazione residente delle classi over 65.

I dati relativi ai cittadini stranieri risultano interessanti anche esaminati per classi di età, registrando una diminuzione in tutte le classi sotto i 50 anni anni (con la sola eccezione dei ragazzi tra gli 11 e 15 anni), mentre aumentano tutte le altre; crescono, seppur di poco, anche gli over 80 stranieri.  Nell’esaminare i dati sui cittadini stranieri occorre tener conto, oltre che del numero di chi ha ottenuto la cittadinanza italiana, come dicevo poco sopra, anche dell’elevato turn over nelle iscrizioni, per il flusso ancora oggi più intenso, rispetto agli italiani, sia delle nuove iscrizioni che delle maggiori cancellazioni, queste a favore sia di altri comuni che di paesi esteri.

L’aspetto che invece, come ho già sottolineato, richiama di più l’attenzione, è il calo della popolazione in età da lavoro. Questo fenomeno era già evidente da una precedente analisi di cinque anni fa; scrivevo allora: “Le classi di età dai 26 ai 40 anni diminuiscono in soli 5 anni di quasi mille unità assolute, di cui 1.030 con cittadinanza italiana, sostituiti solo parzialmente da non italiani, appena 147 in più.”

Oggi, dopo cinque anni, il fenomeno è “scivolato” nelle classi d’età superiore, tra i 30 e 45 anni di età, con numeri però che sembrano accentuare ancora di più questa dinamica. Sarebbe interessante approfondire davvero le tendenze in atto, cercandone conferme o spiegazioni.

A questo punto, ho voluto inserire anche un semplice grafico; la linea in rosso con il quadratino come simbolo rappresenta i residenti per classe di età al 2020; la linea blù con il simbolo del rombo gli stessi residenti nel 2015; più in basso, la linea in verde con il triangolo esprime le variazioni in valore assoluto di ciascuna classe nel periodo esaminato: risulta evidente quanto ho appena commentato; le classi di età centrali, che sono anche le più numerose in valore assoluto, “slittano” in avanti perché non vengono rimpiazzate dalla classe più giovani, creandosi così nell’immediato “un vuoto” significativo nelle classi in età lavorativa, che in prospettiva non verrà colmato dalle classi ora più giovani, mentre per effetto dello “slittamento” avremo un probabile innalzamento nei prossimi anni delle classi di età più elevata.

Appare dunque particolarmente importante approfondire l’analisi di questi fenomeni, con attenzione sia al mondo produttivo e alle politiche (per contrastare almeno parzialmente questa dinamica di “erosione” della struttura sociale, pensando a programmi che possano avere effetto nel lungo periodo), sia all’assetto dei servizi sociali e sanitari e infrastrutturali in genere, per i quali non ci si può certo limitare ad una logica di manutenzione o di ricerca dell’efficienza ordinaria, che sarà sempre più inadeguata. Ho usato più volte l’espressione “in età lavorativa” perché è questa la definizione che si usa correntemente per le classi di in età di lavoro, ma oltre a questo si tratta anche di classi sociali formate da famiglie e individui, con bisogni anche differenti tra loro, ma che nel loro insieme hanno un ruolo centrale, o egemone se vogliamo, e dunque un impatto diretto sugli assetti sociali e sugli indirizzi culturali della città; al momento le classi di età centrali, probabilmente le più importanti nell’esercitare questo ruolo e influenza sulla città dei prossimi anni, risultano quelle che subiscono l’indebolimento maggiore.

Jesi, Residenti per classi di età, confronto dati al 31/12/2015 e al 31/12/2020 (fonte: Istat)

Note: 1. A livello nazionale (censimento Istat 2020) le flessione demografica nel 2020 rispetto all’anno precedente è stata di circa 400 mila unità, in linea con il trend degli anni precedenti si spiega nel commento; cioè, si procede al ritmo di quasi mezzo milione all’anno; secondo stime di istituti internazionali a fine secolo la popolazione italiana potrebbe scendere a circa 40 milioni, cioè un terzo meno di oggi. Naturalmente, il problema non è soltanto il numero che diminuisce, ma anche e soprattutto la composizione che si trasforma.

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La Repubblica di Albona – Labinska Republika (2 marzo-7 aprile 1921)

La Repubblica di Albona – Labinska Republika (2 marzo-7 aprile 1921), il centenario. Fu chiamata anche la “Repubblica parigina istriana”; ebbe inizio il 2 marzo 1921, in un contesto assai particolare: l’inserimento di questa terra nei confini italiani era iniziato alla fine del 1918 con l’occupazione e l’amministrazione militare, in attesa dei trattati di pace, e una grave crisi economica e sociale che aveva spinto molte famiglie ad emigrare; comunque il collegamento con quanto avveniva in Italia era forte, sia sul piano sindacale e delle lotte operaie e contadine – a settembre del 1920 durante “l’occupazione delle fabbriche” qui c’era stato uno sciopero dei minatori durato 18 giorni e a Trieste c’erano state barricate abbattute a colpi di cannone con morti e feriti; nel gennaio del ‘21 sorge anche qui il nuovo partito comunista; a luglio del ‘20 al porto di Pola duecento soldati si erano rifiutati di imbarcarsi per l’Albania, negli stessi giorni dell’analoga rivolta dei bersaglieri di Ancona – ma ancora di più il particolare combinato padronale militare e nazionalista offriva un terreno in cui scorazzavano a loro agio le squadracce fasciste – tra cui, gli incendi dell’Hotel Balkan sloveno a Trieste e la Narodni Dom croata (Casa del popolo, o casa nazionale) a Pola – che tacciavano i movimenti degli operai e dei contadini come “austriacanti” o “slavobolscevichi”, prendendo di mira le comunità croate e i “comunisti italiani” che “le sobillavano”. Una situazione che è davvero difficile riassumere in poche righe, in una terra di pluralità etniche e linguistiche. Scrive la triestina comunista Giuseppina Martinuzzi, molto seguita in Istria: “Il socialismo attira a sé i proletari dell’una e dell’altra stirpe, li affratella ma non li snazionalizza; le due lingue del paese vengono usate, specialmente a Trieste in tutte la adunanze del partito, in tutti i comizi, ogni qualvolta vi partecipa un pubblico di nazionalità mista; il socialismo avversato, calunniato atrocemente, è l’amico leale di entrambe le nazioni… il vero demolitore delle due nazioni conterranee è il nazionalismo morboso”; sono davvero due concezioni del mondo alternative. Il periodo storico è denso di grandi sommovimenti in tutta Europa, dalla nuova repubblica dei soviet in Russia, al tentativo rivoluzionario degli spartachisti in Germania, la repubblica di Baviera, l’insurrezione in Ungheria, gli scioperi in Boemia, Slesia eccetera. Ad Albona ci sono le miniere e insieme anche una radicata tradizione di lotte, già durante gli Asburgo e proseguita dopo l’arrivo dell’Italia e il cambio di proprietà – il controllo lo conquista la famiglia Agnelli; quest’ultima “crisi” nasce per rivendicazioni salariali, a causa dell’inflazione e per ottenere le “otto ore di lavoro”, ma anche contro la violenza fascista, quando le squadracce fasciste aggrediscono il sindacalista Giovanni Pippan che rientrava da Trieste e la tensione cresce, il 2 marzo si proclama lo sciopero e ci sono cortei e scontri con i carabinieri, il 4 i minatori occupano i pozzi ma non è più un “semplice” sciopero, questa volta è l’autogestione della produzione e in paese pattuglie di “guardie rosse” invitano gli abitanti a esporre su case e scuole le bandiere rosse; il 7 viene proclamata la libera repubblica di Albona, con un Comitato centrale e un’assemblea: si tratta di un sistema basato sull’autogestione e fondato sui principi della lotta di classe e del rifiuto della violenza fascista; soprattutto è un movimento multinazionale, dove non esiste distinzione etnica, e inoltre ha una sua estensione territoriale e un forte collegamento col movimento dei contadini della vicina zona del Prostimo, che pattugliavano le strade contro le squadracce. Un fatto del tutto unico, intollerabile per i fascisti, i militari e la classe dominante; la situazione è seguita con apprensione, era stata da poco riassorbita a dicembre l’avvenutura fiumana di D’Annunzio e ora contro i minatori si tentano provocazioni e manovre per cercare di dividerli, approfittando della diversità etnica e linguistica, e anche italiani sono di diverse regioni, c’è ad esempio un gruppo di siciliani. I minatori rispondono: “Kova je naša, la miniera è nostra”. Si discute di formare una cooperativa o un consorzio, la vicenda è seguita in tutta Italia, ci sono incontri a Trieste e contatti con vari esponenti che visitano Albona per discutere con i minatori il passaggio della miniera alla cooperativa, occorre organizzare in loro difesa lungo la strada la sicurezza dalle squadracce fasciste, i cui attacchi si ripetono e mietono vittime; ad Albona invece, sotto il controllo dei minatori, la situazione è tranquilla e senza incidenti, e le miniere non subiscono danni. Lo Stato però inizia a preparare la repressione e convogliare truppe. L’attacco inizia nella prima settimana di aprile. Riporta uno storico croato: “Il 5 aprile1921, alle prime luci del mattino, sentimmo da lontano un’azione di fucileria. Erano i fascisti e i carabinieri su 19 autocarri, che, forse per paura, incominciarono a sparare contro di noi da una distanza di sette otto chilometri….”. Il 7 le truppe circondano i pozzi. La repubblica di Albona viene cancellata; ha vissuto 35 giorni, 18 in meno della Comune. Come dicevo sopra, è impossibile sintetizzare in poche righe; non fu un “normale” sciopero ma qualcosa di più, forse l’ultimo vero tentativo per un diverso corso delle cose in quel periodo in cui l’occupazione delle fabbriche era già un ricordo e le camere del lavoro e le sedi socialiste venivano incendiate a decine dai fascisti in tutta Italia, ovunque coperti e sostenuti. Qui in Istria, dato il recente spostamento dei confini a favore dell’Italia e la presenza storica, secolare, di una popolazione “mista”, tutta la vicenda si carica di ulteriori connotati, che ritroveremo in forme diverse anche in tante vicende dei decenni successivi. (Volevo scrivere alcuni appunti, m’è scappata via la mano; tra le cose che ho riletto in questi giorni, in particolare segnalo questa che ho ritrovato in rete, di Giacomo Scotti, che avevo già conosciuto quando qualche decennio fa mi occupai di “ex-jugoslavia”: https://crsrv.org/wp/wp-content/uploads/2020/02/Giacomo-Scotti-Luciano-Giuricin-La-Repubblica-di-Albona-e-il-movimento-dell-occupazione-delle-fabbriche-in-Italia.pdf

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28 febbraio 1940, la tragedia delle miniere di Arsia

28 febbraio 1940, la tragedia delle miniere di Arsia. LA MEMORIA È UN CAMPO DI BATTAGLIA (citando Remo Bodei). Ci sono tragedie ben presenti nella memoria collettiva, come quella dei minatori di Marcinelle (che giustamente commemoriamo, perché è un pezzo importante della vita della nostra gente, costretta a emigrare e farsi cacciare sotto terra pur di lavorare, e garantire “carbone alla patria”), e altre dimenticate, di cui non abbiamo mai sentito parlare, come la tragedia ancora più grande dei minatori di ARSIA, in Istria, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Erano le 4 del mattino del 28 febbraio 1940 quando un violento scoppio di gas provocò la morte di 186 lavoratori e l’intossicazione e ferimento di  altri centocinquanta, in buona parte locali, ma anche veneti, friulani, lombardi, emiliani, toscani e sardi, e anche croati e sloveni. La miniera era arrivata ad occupare anche diecimila minatori e come avveniva allora in altre situazioni simili, anche il paese di Arsia era stato costruito apposta per ospitarli (progettato da Pulitzer Finali, che negli stessi anni progettò anche Carbonia in Sardegna), all’inizio era  all’interno del comune di Albona, poi divenne comune autonomo. La miniera era stata inaugurata personalmente dal duce, che poi come usava allora per la sua propaganda era sceso sotto con i minatori a far finta di lavorare. Le miniere erano state spinte al massimo; la Germania era già in guerra e a causa dei blocchi navali non poteva più rifornire di carbone l’Italia, che a sua volta aveva già deciso di entrare in guerra (aveva già occupato l’Albania e appena un anno dopo avrebbe attaccato il regno di Jugoslavia, allargando i confini fino a Lubiana) e il carbone serviva, anche a scapito delle norme di sicurezza, così la produzione fu spinta da 300 mila ad 1 milione di tonnellatte annue. Si trattò di una tragedia di regime; i vertici della società mineraria furono subito rimossi ma dell’accaduto si preferì comunque non parlare, perché appariva come il fallimento di una politica; fu conferita una medaglia al valore civile ad Arrigo Grassi, un minatore che soccorse i suoi amici, riuscì a salvarne una decina ma poi cadde dentro la miniera accanto ad un altro compagno che non riuscì più a salvare. Un gesto estremo di solidarietà. Poi però questa tragedia, a parte la conoscenza che ne hanno le comunità locali (anche se soggette in seguito alle “diaspore” di guerra e dopo guerra e nuovi spostamenti di confine: oggi il paese si chiama Raša e fa parte della Croazia), fu pressoché dimenticata.

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“Benvenuti a free Derry”

Domani è il 30 gennaio, anniversario della strage del Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quarantanove anni fa, nella cittadina nord irlandese di Derry (Londonderry, secondo i “lealisti”), tre anni dopo la battaglia di Bogside e all’inizio della troubbles nordirlandese, conclusa poi con l’Accordo del Venerdì Santo nel 1988, a cui seguì il disarmo dei gruppi militari e l’avvio dell’attuale assetto istituzionale, con gli ex dei gruppi militari insieme in un governo di coalizione, in un accordo complesso e particolare, con tratti che definirei originali, che ha consentito la cessazione del conflitto.

Questo anniversario del 2021 sarà il primo nella Brexit.

Le scuse del governo britannico ai familiari delle vittime del Bloody Sunday, quasi tutti ragazzi diciassettenni, arrivò con 38 anni di ritardo, nel 2010, da parte del primo ministro Cameron, a conclusione di una inchiesta durata dodici anni.

Nei primi giorni di gennaio del 2006 io e Giacomo Scattolini facemmo un giro a Belfast e a Derry, una sorta di turismo politico, curiosando, a pochi anni dagli accordi di pace, attirando la curiosità per le strade perché di turisti veri se ne vedevano pochi (alla sede del Sinn Fein incontrammo giusto alcuni ragazzi che venivano da Bilbao, ed era ovvio il loro interesse, scoprimmo pure che c’erano gemellaggi tra scuole dei rispettivi paesi); chi ci incontrava per strada aveva voglia di chiacchierare, o di offrirci un bicchiere di birra in un pub. A Derry, al museo dedicato al Bloody Sunday, incontrammo alcuni familiari delle vittime, anche loro presenti quel giorno di 34 anni prima a quel corteo. Erano miei coetanei, e mi impressionò soprattutto una cosa, che parlando con loro mi ero ricordato dove ero esattamente io in quel momento e cosa facevo, ed era facile ricostruirlo nella mia mente perché in quegli stessi giorni ad Ancona c’era stato il terremoto e proprio quella domenica m’ero avventurato nella città evacuata in cerca di notizie dei miei amici e compagni, di cui ancora non spevamo nulla. La sera stessa, da qualche notiziario, iniziava a circolare anche la notizia della strage a Derry; noi eravamo impegnati nei movimenti politici di quegli anni e a questo tipo di notizie eravamo parecchio sensibili. Poi, perfino il papa la domenica dopo aveva dedicato l’Angelus agli sfollati di Ancona e alle vittime di Derry, insieme nello stesso discorso.

Io e Giacomo al nostro ritorno scrivemmo un articolo, il nostro reportage, giusto in tempo per pubblicarlo in occasione del 34° anniversario; fu pubblicato su uno degli ultimi numeri del glorioso settimanale Avvenimenti, che poi per fortuna, dopo un periodo di chiusura, riaprì con un nuovo progetto e un nuovo nome, Left. Il nostro articolo occupò le quattro pagine centrali di quel numero, con il titolo “Benvenuti a free Derry”, corredato dalle foto di Giacomo. Ricordo che mentre scrivevo, mi giravano nella testa le note della canzone degli U2 Sunday bloody sunday e le immagini, oltre che delle nostre foto, delle foto di Fulvio Grimaldi esposte al museo di Derry e nelle quali si riconoscevano i familiari da noi incontrati, e poi del film Bloody Sunday di Paul Greengrass, che avevo già visto prima del mio viaggio, e che mi permise di riconoscere subito le strade di Bogside, quando vi arrivai.

Benvenuti a free Derry, di Giacomo Scattolini e Tullio Bugari

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Il sortilegio questo sconosciuto

Frammenti random di riflessione dopo la lettura di “La città dei vivi” di Nicola Lagioia.

1. Romanzo sull’esistenza del male?

Di quale “Male” stiamo parlando? Della malvagità presente o possibile nell’individuo, che scaturisce come dal nulla o da un lato nascosto già vicino o prossimo ai nostri occhi ma che per una qualche cecità non vedevamo? E dovremmo magari anche sentirci in colpa di questa cecità? O parliamo (anche) di un male sociale, diffuso nella città, e questi due “mali” si compenetrano tra loro, vivono uno dell’altro? Sembra che l’autore durante la sua scrittura provi di continuo a capire o decifrare qualcosa dell’indicibile emerso nell’omicidio, non chiudendosi sui personaggi ma tentando di seguirli, sia i carnefici che la vittima, nella trama di relazioni sociali in cui sono immersi, e dalla quale emerge di continuo una socialità grottesca, ma insieme anche costellata qua e là di piccoli frammenti quasi illeggibili di tenerezze nascoste, come derive che non sembrano vere, aporie capovolte di un paesaggio devastato, finzione finalizzata a qualcos’altro. La città “eterna” non vive secondo i tempi della cronaca, sembra piuttosto un’eterna cronaca che non ha mai termine o inizio. L’opposto dell’eterno ritorno, qui è l’immobilità che si autoconsuma. Un antico slogan comparso negli anni Settanta affermava che “Il personale è politico e il politico è personale”, ora in questa nuova cronaca avulsa dal “tempo” evaporano sia il personale che il politico. Resta come via di fuga un sesso compulsivo da basso impero e tanti fiumi di coca. Una battuta (forse) degli anni Sessanta diceva spavalda “Sesso, droga e rock and roll”, qui in questo romanzo è assente una colonna sonora. Unica eccezione “Ciao amore ciao” ma come se ogni volta la ripetizione ossessiva dell’ascolto condanni la sua interprete, Dalida, a suicidarsi ancora una volta. Il ritornello, prima ancora che la canzone, diventa la colonna sonora della tragedia, e come le antiche tragedie anche questa esibisce il suo coro, quello dei detenuti di Regina Coeli.

2. Romanzo di formazione?

Sì, la forma del racconto mi sembra decisamente quella del romanzo, ma di che tipo? Anche se, tramite l’indagine con documenti e interviste, è la ricostruzione di un fatto vero, e l’autore non concede nulla all’immaginazione, non cerca mai di immedesimarsi nemmeno in uno dei suoi personaggi per simularne lo stato d’animo o i pensieri, scegliendo piuttosto e quasi ossessivamente di restare rigidamente ancorato alle testimonianze, anche se scarne e contraddittorie ma così come le recupera dalla lettura degli atti o dai colloqui che ha con le tante persone coinvolte, e perfino dallo scambio epistolare con uno dei due carnefici, nonostante questo “metodo” comunque non credo che il lavoro si possa definire un “reportage” o un romanzo “giudiziario”, o al limite di cronaca nera. C’è stato un momento preciso durante la lettura in cui m’è venuto in mente il romanzo di formazione, quando l’autore apre a squarci di vita della propria adolescenza. Nella letteratura di un tempo il romanzo di formazione riguardava e si risolveva in quell’arco di vita che oggi definiamo adolescenza. Nell’epoca attuale sembra invece che l’adolescenza non finisca mai, come la città eterna, e quindi intervenga un’altra mano o tante altre piccole mani del mondo attorno a prendere i fili dei nostri nodi irrisolti. Oppure eravamo soltanto disinteressati o troppo occupati da altro e abbiamo lasciato fare, solo a posteriori ci sorprendiamo per come il caso ha agito, nel senso che potevamo essere noi ora lì al posto degli altri, e le scelte che ci hanno permesso di “formarci” e trovarci altrove in realtà le abbiamo caricate del valore di scelta soltanto dopo. La nostra formazione non sta nell’aver sciolto quei nodi ma il renderci conto che esistono.

3. Romanzo che cerca le domande giuste da porsi di fronte alla palese esistenza del male.

Sì, viviamo in tempi nei quali dobbiamo imparare di nuovo a porci le giuste domande senza farci intrappolare dalle risposte troppo facili. Ma le risposte certe, che ci chiudono lungo una strada, in questa nostra epoca la fanno da padrone, anche nel senso della quantità, perché ne riceviamo e ne creiamo tante ogni giorno, viviamo in una molteplicità di risposte anche opposte tra loro, spesso veloci come corto circuiti, mentre le domande sono poche, e che siano davvero quelle giuste non ce lo può garantire mai nessuno, dobbiamo assumerci noi la responsabilità di metterle alla prova. Colgo questo messaggio dalla lettura del libro e lo condivido.

4. La Possessione esiste? E i Sortilegi?

Interessante. Compare ad un certo punto questo tema della “Possessione”. Qual è la differenza tra l’abisso come metafora e l’abisso reale, metafisico? Tra le altre “dimensioni del reale” come metafora e la loro esistenza reale? L’autore ci riporta questa teoria, della Possessione, direttamente così, con la stessa spiegazione che ha avuto occasione di ascoltare, meravigliandosi lui stesso di come questa teoria in fin dei conti non abbia nulla di assurdo, o di sciocca superstizione. Anzi, tutto sommato sembra un buon “dispositivo”, consente di non arrendersi di fronte all’indicibile che si avvera ma di individuarne la causa in una debolezza dell’individuo di fronte al male che vuole possederlo, e allora un metodo c’è, quello di farsi trovare più forti. La questione dunque può essere posta in questo modo – come personalmente ho sempre razionalizzato nella mia testa leggendo testi di etnopsichiatria o leggicchiando di sciamanesimo: Non è importante che la Possessione esista davvero o no, ciò che conta è che le persone si comportino come se la Possessione esistesse davvero. Dicendo così però, riprendendo la riflessione del punto precedente, non abbiamo trovato una risposta ma semplicemente posto una domanda, che potrebbe anche rivelarsi utile ma sempre in quanto domanda. L’autore più avanti nel suo racconto, ad un certo punto usa la parola “sortilegio”. Mi ha colpito. Lo fa una sola volta in tutto il libro ma lo fa in un passaggio nel quale forse si tenta di individuare dei “dispositivi”.

5. Restano ancora angoli non indagati. Il male che serpeggia già tra gli amici, in alcune tribù di amici. Come è possibile entrare dentro queste tribù e studiarle?

Ho avuto più volte la sensazione, durante la lettura, che certi angoli della realtà descritta restavano in ombra, e avvertivo la frustrazione di non “vederli” indagati di più. Ad esempio, “il gruppo di amici” della vittima. Ma è davvero così?, e come indagarli di più? Lo slogan più rappresentativo del Sessantotto diceva “L’immaginazione al potere”. L’orizzonte semantico dentro cui questo slogan si percepiva a proprio agio – e per chi ci vive dentro il senso un orizzonte appare ovvio – immaginava appunto un mondo in procinto della sua liberazione, per una positiva affermazione di noi stessi, come individui e come gruppo. Un mondo nuovo, che si poteva appunto immaginare. “Un altro mondo è possibile” recitava uno slogan di qualche decennio dopo, in un tentativo estremo di mantenere ancora in vita il vecchio orizzonte semantico, sempre più sopraffatto da nuovi sortilegi. Negli ultimi anni anche questo secondo slogan sembra essere caduto in disuso. Dicevo sopra che l’autore tiene a freno l’immaginazione e non cerca mai di immedesimarsi nei personaggi, per poterli comprendere o immaginare di comprenderli. Forse, paradossalmente, è proprio questa la forma odierma dell’immaginazione, quella di sforzarsi in tutti i modi di mantenere lo sguardo aderente alla realtà, senza immaginare nulla, anche quando la realtà a cui possiamo rivolgerci è carente, frammentaria, ne conosciamo solo dei pezzi, dobbiamo accontentarci di vederla attraverso il punto di vista parziale di altri, di altre narrazioni. Narrazioni che si contraddicono, negano, rafforzano, danno nuove forme deformando ciò che accade o che potrebbe essere un’altra narrazione. C’è uno scontro di narrazioni in atto, al centro di questa vicenda, da quelle “principali” dei due carnefici, in lotta tra loro, tra debolezze esibite e manipolazioni più o meno velate o esplicite, vischiose tra loro. Ma forse, prima ancora delle narrazioni in quanto tali, delle quali al limite, recuperandole, si potrebbe tentare anche un’ermeneutica del testo, mi sembra che sia presente in ciascun personaggio la preoccupazione di quale narrazione dare di sé. A questo punto potrebbe essere perfino sciocco parafrase Pirandello e dire che qui in questa storia ci sono personaggi non in cerca di un autore ma di una narrazione, e l’autore ci si caccia dentro, ne ricerca i fili chiedendosi, immerso in questa molteplicità di narrazioni, quando emergeranno fuori i nodi? Ma forse non si tratta solo dell’autore ma di tutti noi, in questi tempi, alle prese con la ricostruzione continua e gelosa delle nostre molteplici narrazioni. I nodi sono le nostre aporie, i nostri disagi. I nostri stimoli.

6. La legalità, la Legge e le istituzioni!!!!!!

Si tratta di una mia fisima? I carabinieri, la legge, le istituzioni eccetera sono parte del “bene” e devono resistere alla pressione del male, che talvolta li infetta e produce delle mele marce? Qual è nella realtà il senso del contratto primordiale che lega una società, e in quali forme vive? Per contrasto, mi balzano agli occhi le storie di Cucchi, Aldrovandi, e tante altre: riprendendo da sopra una riflessione, si tratta in questi casi di “mele marce” che non hanno resistito alla pressione del male? Oppure, anche questi “paradossi” sono uno dei volti o dei “nodi” che possono emergere? Questione assai complessa e aperta anche a tanti diversi campi di riflessione. Mi torna in mente, in un modo forse banale, una manifestazione a cui ho partecipato poco dopo il 2001 insieme a “Libera”, tanti giovani che camminavano mescolati a tante persone in “alta uniforme” per lo stesso obiettivo dichiarato, e contemporaneamente me li “immaginavo” qualche tempo prima per le strade di Genova. Ma forse, riprendendo ancora una riflessione più sopra, la “parola chiave” è proprio “immaginazione”?

7. Romanzo “metafisico” sul libero arbitrio.

“La scelta” è una delle questioni che da sempre mi ha intrigato di più. Anche sul piano legale ha la sua importanza, e le sue interpretazioni e applicazioni. Nel caso specifico del processo, l’unico svolto che ha riguardato uno dei due carnefici, non viene riconosciuta l’attenuante dell’incapacità di intendere e volere. Questa è la formula, che nella sua applicazione pratica si è tradotta nella condanna a 30 anni di galera. Ma all’autore del libro, e anche a me, interessa “la scelta” in quanto tale, cioè il “libero arbitrio”. Non è nemmeno del tutto chiaro se nella storia dell’umanità nessuno abbia mai risolto questo nodo da sempre al centro di religioni e flosofie, o al tempo stesso se siano stati troppi quelli che di volta in volta lo hanno risolto. Ho sempre detto a me stesso, non senza ironia, che su tali questioni alla fine si deve scegliere come pensarla, da quale parte stare, e non tanto giusto per dire qualcosa come di fronte a un sondaggio qualunque, ma perché dalla questione della scelta dipende anche quella della responsabilità, che a mio avviso non può non essere individuale. La responsabilità è sempre individuale. Può sembrare un paradosso ma non abbiamo altra scelta, non possiamo sfuggire a questo principio. La responsabilità è sempre individuale, perfino nell’Heichmann di La banalità del male, anche se lui mi sembra che faccia di tutto per separare gli “ordini superiori” dalla sua capacità di scelta. La responsabilità resta individuale perfino quando infrangere quella distinzione può comportare grossi rischi, magari anche della vita. Eichmann non avrebbe potuto evitare quei rischi, non era lui il padrone unico degli eventi. Non aveva altra scelta che accettarli. Così come non aveva altra scelta che accettare la sua responsabilità individuale, che comunque restava sua. Sembra un pradosso, anzi lo è davvero e non c’è altra scelta che accettarlo, scegliendo anche di disubbidire all’ordine, o all’autorità sotto qualunque forma si presenti. Mi vengono in mente le antiche tragedie greche, a iniziare da Antigone. Sono tante le persone ancora oggi che non si sottraggono alla tragedia. Ho scelto un esempio estremo, nei più generali casi della vita i bivi di fronte alle scelte spesso non sono altrettanto drastici, spesso più che il timore della vita ciò che ci mette più pressione è il timore dell’ostracismo dei gruppi o delle figure che assumiamo a riferimento. Ammettere la scelta, e quindi la responsabilità individuale, ci offre una via d’uscita, il prezzo può essere quello di porci un’infinità imprevista di domande, di fronte alle quali non vorremmo trovarci ma non abbiamo altra scelta.

8. Tragedia grega.

L’ho già accennato nelle riflessioni precedenti. Mi tornano in mente le tragedie greche ma nell’immagine che ce ne ha dato Pasolini. E così, seguendo anche questa suggestione, a più riprese durante la lettura, mi sono tornate in mente scene di Medea o di Edipo Re – nelle quali tra l’altro lo stesso Pasolini inseriva frammenti della propria biografia – con gli scenari urbani sullo sfondo, la città eterna appunto, con i suoi ruderi desolanti e cieli senza senza compassione, e gli interni così privi di qualsiasi estetica, poveri perfino di kitsch.

9. L’incontro e il perdono.

Altro tema affascinante. L’autore cita un libro che gli ha suggerito Luigi Manconi. Il libro dell’incontro. Sottotitolo: Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. A cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato. Ecco un punto di contatto, Qualche anno fa mi capitò di conoscere Luigi Manconi e conversare con lui una mezz’ora, e trattandosi di lui quella mezz’ora divenne così densa da sembrare assai più ampia. Non ricordo esattamente quali catene di associazioni seguimmo ma ad un certo punto parlammo di questo, un tema che anch’io ho affrontato più volte nei miei scritti, una volta raccontando della guerra di Jugoslavia, un’altra di quanto accadde da noi tra gli anni Settanta e Ottanta, ma anche in altre storie, e Manconi mi suggerì di leggere questo libro che era appena uscito. Il nostro autore quel libro donatogli da Manconi lo aveva dimenticato sotto una pila di altre carte e libri, ma poi ad un certo punto ci pensa quello stesso libro, da solo, a risaltargli fuori, e allora lui lo legge, ritrovando tracce di ciò su cui si stava aggirando. Sarà ora che anch’io me lo procuri questo libro, e colmi così almeno una delle tante lacune che avverto di avere.

10. Come uscire dal sortilegio?

Sortilegio. Probabilmente è questa la vera parola chiave. Schiavi di una nuova stregoneria senza stregoni – mi viene in mente “Sregoneria capitalista” di Philippe Pignarre e Isabelle Stengers – e oramai disabituati a comprendere i meccanismi del sortilegio, ci sentiamo persi, privi di dispositivi che non riusciamo più ad immaginare, nemmeno se li abbiamo sotto gli occhi. Anzi, senza il se, perché sono dentro i nessi della nostra stessa vita. Come scrivevo più sopra, l’autore usa questa parola, sortilegio, una sola volta, e lo fa proprio mentre parla del libro dell’incontro. Potrebbe trovarsi proprio in questi paraggi la possibilità di sciogliere quel sortilegio, alle prese ancora una volta con una realtà, o con un senso della realtà, che temiamo ci sfugga se proviamo a guardarla. Come l’immagine della luna sulla superficie tremula di un pozzo. M’intrigano le metafore che l’autore usa ma in un modo che definerei leggero, ne fa dei titoli, come per non increspare quei riflessi: il buio, il pozzo e il pelo dell’acqua.

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È la somma che fa il totale

Ieri (21 settembre 2020) alle 15 il cielo si è fatto buio e ha iniziato a tuonare, come se volesse ufficializzare lo sconvolgimento istituzionale appena partorito, poi più tardi quasi nulla, tutta scena, anche se la scena di questi tempi è tutto, e si può conquistare anche senza valanghe di voti da uno schieramento all’altro.

Senza valanghe? Guardiamo i numeri. Perché come diceva il Principe de Curtis, è la somma che fa il totale, e se non li sommi il totale è più basso.

Cinque anni fa Ceriscioli  vinse tranquillo con il 41,07%, dando addirittura due cifre (percentuali) di distacco ai suoi avversari, l’ex “governatore” Spacca grazie al quale si spaccò il centro destra, che con gli “alfaniani” e “forza italia” prese un modesto 14,21%, e l’Acquaroli “primo turno” che con i fratelli d’italia e la lega prese qualcosina in più, il 18,98%. Un centro destra unito avrebbe preso il 33,19%.

Ceriscioli aveva imbarcato anche gli Udc, che una volta li trovi col centro sinistra e quella dopo con il centro destra: allora quel 3,41% se fosse stato già piegato verso destra, avrebbe portato i due schieramenti a 37,56% e 36,50%. Insomma, a battersela, come si suol dire.

Sto trascurando l’attore “minore” dello schieramento di sinistra, quello che al tempo di Bertinotti aveva consentito a Prodi di completare la sua alleanza vincente, finché durò. Cinque anni fa la lista unitaria di questa area prese il 3,82%, non molti ma in via teorica, se è la somma che fa il totale, avrebbe ben rimpiazzato l’Udc, e invece fu l’Udc a rimpiazzare loro.

Poi c’è il terzo attore, quello dalla strana teoria che destra e sinistra non esistano, il 5 stelle, che si presentò per fare anche lui scena e prese cinque anni fa il 21,78% (lista del candidato presidente), in voti assoluti furono 133.178, non pochi.

Già, i voti assoluti. Di solito preferisco guardare questi piuttosto che le percentuali, le quali nascondono il peso dell’astensione, il quale però è stato più alto proprio cinque anni fa: allora votarono (per la lista presidente) 611.336 persone, questa volta 677.618 quasi sessantamila in più, non proprio pochi (se a questi sommassimo i giovani che sono andati a votare per la prima volta, avremmo una base nuova di elettori piuttosto ampia, entrata sulla scena per portare qualche differenza: al solito, ci vorrebbe qui una vera analisi dei flussi).

Andiamo comunque a vedere oggi, 2020, quali consistenze e direzioni possa aver preso questa apparente valanga di voti da uno schieramento all’altro.

La destra stavolta non era sparpagliata ma “vincoli” e ha consolidato un bel 49,13% (gli Udc erano dentro stavolta ma a nessuno viene il sospetto che sia opera loro). Anche in numero assoluti la loro lista (presidente) ha avuto oltre 360 mila voti, contro i circa 223 mila di cinque anni fa (se sommassimo anche a quelli di allora gli Udc), con un aumento di circa 140 mila voti. Per niente pochi.

Il terzo attore, né destra né sinistra, ne perde più della metà, da 133 mila a 63 mila, dal 21,78% all’8,62% (e forse è questa l’unica vera valanga, mentre loro festeggiavano per  aver tagliato i parlamentari, gli elettori tagliavano i loro voti).

Ho già detto che questa non è un’analisi di flussi ma la suggestione immediata (o magari è anche un abbaglio) è forte: circa settantamila voti usciti dai 5 stelle, da quella che una tempo era l’antipolitica, e altri 60 mila circa rientrati dall’antipolitica dell’astensione, fanno più o meno i 130 mila, tanti quanti quelli raccolti dalla destra. Buon per loro, che stavolta erano vincoli e non sparpagliati, e pescavano con una rete sola.

E nell’altro schieramento? La lista (presidente) Mangialardi ha avuto il 37,28%, esattamente lo stesso livello di Ceriscioli senza Udc di cinque anni fa: Occhetto a suo tempo l’avrebbe definito lo “zoccolo duro”. I voti assoluti erano stati allora (senza l’Udc) circa 210 mila, oggi sono stati 274 mila, anche loro sessantamila in più (qualcosa hanno pescato, non dovrebbero lamentarsi in questo senso: continuando a scherzare (sic) si potrebbe dire che Mangialardi ha fatto risuolare gli zoccoli, peccato che questi sono tempi in cui ci vogliono gli scarponi e non calzature da spiaggia).

Mi ha sorpreso, aprendo al seggio la scheda elettorale, l’ampio ventaglio di liste collegate al candidato Mangialardi; a prima vista la scena è quella di un ampio e articolato sistema di alleanze, sei liste questa volta contro le due di allora (se togliessimo l’Udc). Ma forse non sempre la scena conta, magari quelle liste non sono venute da “fuori ” ma si sono solo moltiplicate da quelle già esistenti, ecco infatti Italia Viva a distinguersi e così anche per le altre (e non è che magari anche la campagna elettorale l’hanno fatta un po’ ciascuno per conto proprio?).

La differenza tra i due schieramenti, sommando i voti in questi modi, risulta grande: un distacco di circa il 12% a favore della destra (che scenderebbe a circa 7%, un valore ancora alto, se l’Udc fosse restata nell’altro schieramento). In valori assoluti la differenza tra i due è di circa 90 mila voti: 361 mila ai primi e 274 mila ai secondi.

E l’attore “minore” di sinistra, che ogni volta risorge come un’araba fenice in forme  che vorrebbero essere nuove, e che anche questa volta correva da solo? Circa 12 mila voti (lista presidente), sotto il 2%. Era andata meglio cinque anni fa: il doppio dei voti, cioè 24 mila, e appena sotto il 4%. Ma forse anche qui conta l’essere più che sparpagliati? Infatti, c’era pure un’altra lista, questa volta, “Comunista” che ha preso i suoi 8 mila e passa voti, pari all’1,3%: insomma, alla fine anche questo, che gli piaccia o no, è più o meno uno “zoccoletto duro” che oscilla stabile sui suoi livelli.

E se lo schieramento che doveva confrontarsi con la destra unita avesse scelto di presentarsi come nell’attuale coalizione del governo nazionale? Sì lo so che i cinque stelle non lo sanno così bene nemmeno loro con quale schieramento vogliono stare e che Leu non è affatto simile alla lista della sinistra qui in regione, e che poi c’è quell’Italia Viva che… ma lasciamo stare, proviamo a sommarli ugualmente per vedere ciò che accade, e già che ci siamo mettiamoci pure entrambe le liste degli attori minori di sinistra: otteniamo un 49,11%. Ma che bella suggestione questa coincidenza di numeri.

Ma se è vero, come diceva Totò, che è la somma che fa il totale, la maestra a scuola ci tirava le orecchie ogni volta che provavamo a sommare le pere con le famose mele e così via, perché la realtà è sempre più articolata e ricca e mai semplificabile, e in questo caso dipende dalle politiche messe in atto nel tempo per deteminarle quelle omogeneità da sommare.

Però la suggestione dei numeri continua a intrigarmi, e mi fa venire il dubbio, anzi la certezza, che alla fine tutte queste valanghe di voti da uno schieramento all’altro non ci sono, ma sono piuttosto, in buona parte anche se mai in tutto, rimescolamenti al loro interno, e così,  per ciò che riguarda il risultato sugli assetti istituzionali, cioè chi si garantisce il potere di dominare la scena, mi pare che ancora una volta non dipenda tanto dalle scelte di voto dei singoli con la matita e la scheda in mano dentro la cabina (che al di là delle scene, delle schiassate e dei selfie in piazza alla fine sommandoli quei voti non cambiano mai così tanto ma possiamo sempre “battercela”), quanto dipenda invece dalle scelte, dalle alleanze da costruire e in che modi, e di come “vincolarsi” o “sparpagliarsi”, o mobilitare la partecipazione eccetera eccetera, a determinare gli esiti istituzionali. “Vincoli o sparpagliati”, diceva Pappagone.

Probabilmente, più che la scelta del voto che l’elettore si trova davanti, a quel punto quasi obbligata, del tipo o mangi ‘sta minestra o salti dalla finestra (e poi magari scegli anche di mangiarla questa minestra che ti propongono ma dalla finestra ti ci butta qualcun altro) quello  che dovrebbe contare piuttosto è la possibilità di influire sulle scelte a monte che fanno i dirigenti politici di turno, in tutte le  loro forme. Un tempo la chiamavamo Partecipazione, cioè la democrazia che si esercita e si vive quotidianamente nelle lotte (ma non basta svegliarsi un’ora prima alla mattina).

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Un silenzio che ti abbraccia (Percorrere la Memoria)


Percorrere La Memoria. Una serata emozionante e di grande sentimento quella condivisa domenica 26 gennaio al Teatro condominiale La Fortuna di Monte San Vito. Mentre eravamo sul palco con le nostre letture, animazioni e canti, sentivamo salire su dalla platea un silenzio compatto e di grande effetto. Dopo l’applauso alla canzone di apertura, Il falò delle vanità, sembrava che si fossero tacitamente accordati per non interrompere con nulla la narrazione che si stava svolgendo. Anzi, regalando con il silenzio una maggiore profondità, entro cui svolgersi. Un silenzio di tipo particolare, che capita di rado di ascoltare, che ti abbraccia.

Dopo la canzone abbiamo iniziato con una citazione del grottesco comizio di Goebbles del 10 maggio 1933 a Berlino, quello del rogo dei libri – “un atto che dovrebbe informare il mondo intero delle nostre intenzioni” – dopo nemmeno cento giorni che i nazisti erano al governo. E già avevano aperto anche il campo di concentramento di Dachau. Abbiamo scelto questa cornice storica, “gli antefatti”, per inserire alcune storie che abbiamo scelto della nostra terra, quelle delle persone più vicine a noi, dalle quali possiamo respirare in modo ancora più diretto, intrecciato quasi con la nostra esperienza quotidiana, il sentimento che ne sostiene la memoria.

La prima storia che abbiamo percorso, e che ci ha guidato nella costruzione dell’intero evento, è quella di Igino Gobbi, che salutiamo e ringraziamo. Domenica non se l’è sentita di essere fisicamente lì ma ha spedito una rappresentativa delegazione familiare, che ci ha fatto omaggio dei suoi saluti e ha riportato a lui il nostro affetto, insieme alle emozioni che loro stessi hanno condiviso a teatro. Io e Silvano siamo stati a trovare Igino a casa qualche tempo fa. Per l’esattezza il 9 novembre, anniversario dei trent’anni della caduta del muro di Berlino (e ricorrenza non solo di questo evento): che potenza la coincidenza delle date! Una conversazione di un’oretta, carica dell’emozione e del piacere che si prova quando ci sono storie importanti da condividere, la sua in questo caso, di deportato militare italiano in Germania dopo l’8 settembre, all’età di vent’anni. Una conversazione in un’atmosfera serena, di fiera tranquillità familiare, anche allegra, con battute e aneddoti, alcuni assai densi, e ben vivi nella memoria e che noi, poi, ci siamo permessi di riprendere rielaborare e inserire nel racconto a teatro. Alternandoli a brani che abbiamo letto direttamente dal suo libro di memorie “Mi dicevano sempre tanto tu morirai”. Dalla conversazione con Igino a casa sua sono nate anche tre canzoni: Ridere; Le scarpe; Avevo solo vent’anni. Siamo contenti d’essere riusciti, come delle staffette, a catturare un po’ dell’emozione che quella mattina ci ha trasmesso e di essere riusciti poi a ritrasmetterla dal palco a chi ci ascoltava in assorto silenzio.

Il dramma vissuto dai tanti deportati, sia militari che civili, lo abbiamo ripreso anche con altre storie. La prima raccontata in dialetto anconetano – rimontando secondo le nostre esigenze un testo più ampio di Fabio Maria Serpilli pubblicato sui Quaderni del Consiglio Regionale – per ricordare Irma Baldoni e Alda Lausdei, le sarte di Villarey, che si diedero da fare insieme ad altre donne per far fuggire trasvestiti in tutti i modi possibili, da prete, da monaca, da donna, i militari italiani rinchiusi a Villarey, e aiutarli a fuggire prima della deportazione in Germania. Questa seconda parte è stata chiusa con la canzone La memoria.

La storia di Igino, monsavitese ma originario di Filottrano, per l’esattezza le campagne di Cantalupo, ci ha stimolato a inserire anche una storia a noi molto cara, accaduta non lontano da lì nella primavera del 1944, quella dei “Martiri di via Cannuccia”. Il merito della ricostruzione storica è dell’amico Adelmo Calamante, io mi sono limitato a tradurla in un breve testo da leggere in pubblico (che nel frattempo è stato anche premiato nel 2019 al Concorso Letterario Nazionale “Inchiostro e Memoria” dell’Anpi di Rescaldina) e insieme a Silvano a farne una canzone, Fiore di Latte.  Anche i familiari delle famiglie Carbonari e Nicoletti, tra i quali ci furono 5 delle 6 vittime di quel giorno, hanno condiviso con noi in teatro le emozioni di questa serata. E insieme a questa abbiamo proposto anche un’altra storia di civili uccisi qui da noi, i Martiri del XX giugno, a cui abbiamo dedicato anche questa nostra canzone Sette lucciole perse nel grano.

L’ultima storia di questo ‘percorso’ è stata quella di Magda Minciotti, una ragazza quindicenne sfollata a Monte San Vito da Chiaravalle, dopo il terribile bombardamento dell’ospedale, il giorno della festa di Sant’Antonio nel 1944. Abbiamo preso spunto dal suo diario, contenuto nel libro “Considerate che avevo quindici anni” di Anna Paola Moretti. E l’abbiamo raccontata ricreando sul palco una scena di paese, alcune donne che chiacchierano tra loro e si passano le voci che arrivano dai vari luoghi di prigionia della giovane, deportata appena una settimana prima della liberazione che qui è avvenuta il 20 luglio, e ritornata invece a casa dopo un anno: sullo sfondo delle donne che si rimbalzano le notizie, “Magda” legge brani dal suo diario.

Campi di lavoro, di prigionia, di transito, di concentramento e anche campi di sterminio, si moriva ovunque ma in questi ultimi l’uccisione era programmata minuziosamente fino al suo ultimo atto. Abbiamo chiuso le nostre storie ricordando i nomi delle pietre d’inciampo posizionate ad Ancona, le ultime 9 proprio in questi stessi giorni. Il luogo più ricorrente Auschwitz. Così abbiamo concluso con un brano di Primo Levi da Se questo è un uomo, quando racconta un sogno che nelle lunghe notti del lager facevano tutti i deportati, già con il timore di non essere creduti se sarebbero riusciti a tornare a casa, tanto era indicibile ciò che accadeva. E quindi, giustamente, anche tutta la nostra narrazione è stata accompagnata da un silenzio assorto e carico di rispetto, non tanto verso noi ma con riguardo ai temi che erano presenti tra di noi.

Il vero finale è stato un canto tradizionale iraniano, cantato in lingua originale e letto nella traduzione italiana da Anahita H. Dowlatabadi. Che però abbiamo registrato perché all’ultimo non ha potuto essere con noi, bloccata a casa per un antipatico incidente e costretta a seguirci da lì, sarà però con noi nelle repliche già in programma. Un canto capace di liberarci e scioglierci, con le sue malinconie e il suo respiro, la carezza della voce, che ci aiuta anche a uscire e allargare di nuovo l’orizzonte. Mentre andava la registrazione alcuni di noi sono scesi dal palco tra il pubblico e hanno distribuito poesie composte durante la prigionia nel lager. Alcuni di questi poeti sono sopravvissuti e altri no, deportati dai nazisti e dai fascisti da vari paesi, Italia, Francia, Slovenia, Polonia, l’allora Cecoslovacchia, l’Ucraina o dalla Germania stessa. Tra i tanti poeti ne abbiamo selezionati dodici e non è stato facile.
Abbiamo così voluto riprendere anche quanto scritto e poi letto in chiusura del racconto dedicato a Igino, e cioè che non è facile ricordare e tantomeno raccontare, che occorre trovare le parole adatte: “Prima quei ricordi vanno sciolti, e non è facile. Vanno resi leggeri come la poesia, e come la poesia diventare capaci di conservare dentro con leggerezza il dolore che raccontano, senza dimenticare mai il desiderio per la vita”  (il VIDEO).

———

PERCORRERE LA MEMORIA per non dimenticare
testi Tullio Bugari, musiche Silvano Staffolani, regia Maria Grazia Tiberi
con ArciVoce e Vi Cunto e Canto band
(Maria Grazia Tiberi, Elisbetta Benedetti, Rosella Canari, Cristiana Carotti, Manuela Carotti, Simona Rossi, Luigina Tantucci, Anahita H. Dowlatabadi, Tullio Bugari, Silvano Staffolani, Alessia Costantini, Lorenzo Cantori)
Rassegna teatrale 2020 “Teatrando” a cura della Compagnia teatrale La RAMA in collaborazione con il Comune di Monte San Vito .

(Articoli usciti su Centro Pagina e QdM online)

(Su FB ci sono già diverse foto della serata e anche delle prove la sera prima; grazie in particolare a Giandomenico Papa, Roberto Barbini, Giovanni Kasozi, e presto le raccoglieremo tutte; come vedete, alcune le abbiamo scattate anche dal palco).

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Quale 9 novembre?

(Berlino, appunti vari di viaggio e FOTO)
Quale 9 novembre?, mi sono chiesto la sera stessa dell’arrivo a Berlino, camminando a piedi con degli amici sul ponte di Moabit, un luogo che ha a che fare con l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il 15 gennaio del 1919. I miliziani dei Freikorps, o Corpi Franchi, come uno squadrone della morte li avevano presi dopo tre giorni di caccia, e dopo averli torturati finsero di portarli alla prigione di Moabit, ma li uccisero per strada. Rosa la gettarono in un canale come una desparecida, il suo corpo fu ritrovato oltre 4 mesi dopo, quasi irriconoscibile, ci fu pure chi dubitò che fosse lei.

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Il fondamentalista

Ha vinto il rospo di Esopo, il fondamentalista che agita il rosario come il cappio di una corda. Mi da prurito al collo ma io comunque preferisco da sempre dare un’occhiata ai dati elettorali secondo il numero assoluto di voti. Mi sembrano più chiari per capire cosa si muove nella formazione del consenso in questo paese pienamente immerso in una metamorfosi antropologica dall’esito imprevedibile. Che cosa è accaduto nell’ultimo anno in numero di voti? Il 26 maggio sono andati a votare circa 6 milioni di persone in meno. E altrettante in meno sono quelle che hanno votato per i 5 stelle, la farfalla ridiventata bruco.

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Il bruco è diventato farfalla?

Cinque anni fa, dopo le precedenti elezioni politiche, avevo trascritto su queste pagine alcune veloci impressioni personali sui risultati elettorali di allora. Con il titolo “Il bruco è diventato farfalla”. Pensavo di riprenderli e scrivere ora la seconda parte, ma mi è venuto da aggiungere a quel titolo soltanto un punto interrogativo, perché lo cambierei o aggiornerei di poco quel testo, giusto quel tanto a cui ti può obbligare la cronaca. La confusione era già scritta, e durerà ancora. In mezzo, in questi cinque anni, c’è stato molto ma anche poco, qualcuno ha provato a correre con gli stivali delle sette leghe, eccitato dal fatto che nessuno sembrava porgli ostacolo, ma forse ha girato solo su se stesso. C’è stata in questo “mezzo”, e purtroppo c’è ancora, “la vispa teresa” delle oramai lontane elezioni europee, o “il marchese del Grillo” ma in versione antipatica, quello del referendum sulle trivelle del 2016, quando vince chi non va a votare.

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«La razza è il prodotto politico del razzismo»

«Lo sanno tutti: le differenze tra le razze non esistono. Non esistono prove scientifiche in tale direzione, non perché non se ne siano cercate. Il patrimonio genetico non determina differenze razziali di capacità e comportamento. Eppure la razza è una realtà materiale, un differenziale concreto. La razza è il prodotto politico del razzismo. Non si tratta di negare un problema, ma ribaltarlo, e per fare ciò il primo passo è non rimuovere le parole che ci restituiscono questa realtà.»

Leggo così nella sezione approfondimenti di Infoaut di giovedì 8 febbraio, a commento della proposta di togliere la parola razza dalla Costituzione. Condivido il commento, e sul momento non gli avevo prestato nemmeno tanta attenzione, però poi nei giorni successivi mi sono reso conto che questo dibattito va avanti, evolve, e come sempre in questi casi, anche le buone intenzioni di chi ha avanzato la proposta, rischiano di essere ribaltate e strumentalizzate a fini opposti, come a voler insinuare, c
he la stessa Costituzione italiana pecchi di razzismo, perché nell’articolo 3 utilizza questa parola: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

È evidente, lo sottolinea ad esempio il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi, che nella Costituzione non si utilizza la parola razza per convalidarne la pseudo teoria biologica ripresa anche a giustificazione delle legge razziali del regime fascista, ma ci si riferisce al suo carattere di “costruzione sociale”. La razza non esiste ma il suo concetto sì, e anche le discriminazioni che comporta tramite il razzismo.  Questo spirito è ancora più evidente nel secondo comma dell’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»  Proprio la corretta applicazione di questo articolo, che qualcuno propone di cambiare, può contrastare la costruzione di marcatori etnici discriminanti; togliere la parola, invece, mi sembra che annacqui i processi di “costruzione sociale” delle discriminazioni.

Su questi temi, giusto per citare un po’ di abc, ecco ad esempio quanto scrive Laura Zanfrini, in Sociologia delle migrazioni: “… è ormai acquisito e condiviso tra i sociologi il fatto che le differenze etniche sono l’esito di complessi processi di costruzione sociale. In altri termini, le differenze etniche sono ‘apprese’, nonostante sia diffusa la tendenza a conferirvi caratteristiche di naturalità. A ciò consegue che i confini tra i vari gruppi etnici mutano nel tempo, così come possono mutare i c.d. marcatori etnici, vale a dire i criteri attraverso i quali tali confini sono stabiliti. I marcatori etnici hanno una loro oggettività – consistano essi nel colore della pelle o in altre caratteristiche fenotipiche, oppure nella comunanza di lingua, religione, cultura, modi di vita – ma la loro scelta per definire i confini tra i diversi gruppi etnici è sempre arbitraria. Proprio per tale carattere, che ora tenteremo di chiarire, il ricorso al termine etnia è certamente preferibile a quello di razza. Quest’ultimo è abitualmente usato per indicare un raggruppamento di persone con comuni caratteri fisici ereditari che possono costituire motivo di profonda differenziazione nella sfera sociale: in sostanza, col termine razza ci si riferisce, di norma, al fondamento biologico delle differenze, laddove il termine etnia rimanda piuttosto all’identità culturale di una persona e alla sua appartenenza a una determinata comunità. Orbene, in base a una convinzione ancora piuttosto radicata, esisterebbero diverse razze umane, ciascuna delle quali contrassegnata da uno specifico patrimonio genetico a sua volta responsabile, oltre che di differenti tratti somatici, anche di differenti modelli di comportamento e quindi dell’idoneità a ricoprire determinate posizioni sociali. In realtà, la biologia ha ormai definitivamente appurato come le differenze fisiche tra quelle che chiamiamo razze si riducono sostanzialmente a differenze di aspetto esteriore, risultato di una lunga storia di contatti e incroci tra popolazioni diverse. La variabilità genetica riscontrabile tra individui appartenenti alla stessa «razza» è altrettanto estesa di quella che si osserva confrontando persone di diversi gruppi razziali. La razza è dunque, al pari dell’etnia, un concetto socialmente costruito…”

Altri miei interventi su argomenti analoghi:
“Chi sono io?”
“Siamo tutti neri”

Altri articoli recenti sull’argomento:
L’antirazzismo scientifico e la Costituzione
Le razze non esistono

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Il Pci ai giovani, di Pier Paolo Pasolini

 (foto di Deborah Beer)

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.

Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.

È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.

Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.

I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.

Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…

Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.

Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

(Pier Paolo Pasolini, 16 giugno 1968)

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Il ruolo primordiale del narratore.

“Grande era onirica”, di Marta Zura-Puntaroni (minimum fax). “Qualcosa, la dentro”, mi veniva questa battuta mentre leggevo, parafrasando – me ne perdoni – il titolo di un altro romanzo letto di recente, e che per molti versi mi sembra l’esatto opposto di questo. Che forse è anche l’esatto opposto di me stesso e di quanto potrei scrivere io, tanto mi è lontano, o è lontano dalla mia storia individuale o immaginaria, quella con cui di solito mi auto rappresento. Eppure la lettura mi ha interessato molto. Io non ho gli occhi per vedere la realtà da questa dimensione che mi è come aliena. E che è rappresentata con una scrittura bella, veloce, attorcigliata come il pensiero quando si presta attenzione e dunque è anche sciolta, anche se la sua è una leggerezza da rullo compressore, una specie di candid camera ma dell’attimo breve e ravvicinato, quello a cui normalmente non daresti credito, una sorta di attimo dell’epidermide, di un corpo che borbotta, borbotta e come, e di una mente che non da tregua e raccoglie come annusando ciò che le capita a tiro, dal suo isolamento sublime, nel contatto ravvicinato di un qualche tipo con altri esseri, o all’interno di una città che si completa con pochi riferimenti ma i cui vicoli ti catturano come i meandri di circonvoluzioni cerebrali, autoregolantesi come un corpo, da farti sentire dentro anche te che sei un ospite, ma senza esistervi, quando invece esisti e come.

La città e le persone, e poi se stessi. Lo status ignorato della vittima, questo sì che è un bel tema, e la penitenza e l’umiliazione che sì è vero ricorrono spesso, sembrano quasi meccanismi di relazione sociale, ma anche con le parti intime di sé, e vissuti lasciandosi attraversare senza mai tirarsi indietro, anzi quasi come un’affermazione. Leggendo li ho anche percepiti liberi da qualsiasi risucchio mistico o penitente, mi sono sembrati più simili a rappresentazioni pittoriche che arredano lo sfondo a cui siamo esposti, un qualcosa che ci accade realmente ma come se accadesse a un nostro diverso sé, stratificato in ere geologiche ed oniriche che non possono modellarci, tutt’al più scivolarci simbiotiche addosso, lasciando il nostro sé stratificato e senza la voglia di afferrarsi, ma soltanto guardarsi dalle sue stratificazioni, forse.

Una società, un corpo sociale – ecco l’ho detto, io è sempre qui che torno, allo sguardo sociale – dal punto di vista delle sue singole molecole, che non sempre trovano il modo di sedarsi e quando lo fanno o tentano di farlo o hanno il dubbio che sia stato fatto, si sentono un po’ come una casa terremotata messa in sicurezza, che da quel momento diventa, direbbe Augé, una sorta di non luogo. Le macerie che sopravvivono hanno sempre un non so che di mediocre, che sopravvive.

C’è un modo per tirarsi fuori, o qualcosa che assomigli almeno a un tentativo? Forse: «Dovendo definire la mia esistenza in tre parole: narrazione non organica. Non riesco a percepire il senso che lega le cose. Il Grande Disegno. Lo Scopo. Però parlando di narrazione non organica non mi metto nel ruolo del personaggio ma in quello del narratore: curiosamente non riesco a dare a un’entità superiore le colpe dell’insignificanza della mia esistenza… Ogni avvenimento è parte di una specie di rebus: raccontando la vita nella giusta maniera la soluzione a questo ci verrà svelta. Sono io, narratore mediocre, che non riesco a dare un senso…»  Ma questa forse è anche una dichiarazione troppo esplicita, messa lì magari proprio per sviarci in qualche modo l’attenzione,  dovrebbe esserci ancora altro di più nascosto, là dentro, che non desta subito attenzione perché quasi non si sente, come un debole ma presente miagolio muto… ma allora esiste davvero il piccolo alieno?

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Dove si trova il punto di non ritorno?

“Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia, Guanda. (non una recensione ma un po’ di pensieri sparsi).
Romanzo distopico o reportage in anteprima? Ad una certa epoca della storia, mi pare nell’anno 2038, un certo capitano dell’incrociatore Ardito “… era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato.”
Quando questo evento – sparare a vista – accadrà per davvero per la prima volta, mi veniva da chiedermi mentre leggevo, ora nell’estate 2017, nella quale mi pare siamo entrati nell’era dei “respingimenti umanitari”?

È ottimista o pessimista Arpaia a immaginare che occorreranno ancora altri venti anni circa per un evento del genere? Sono oramai diversi anni che è stata coniata l’espressione “migranti climatici” e che vari rapporti ci offrono previsioni di 300 o 500 milioni di persone direttamente coinvolte entro il 2050. Bruno Arpaia nel suo romanzo si spinge ancora oltre di circa una ventina di anni.

M’è venuto in mente più volte, mentre leggevo, il Furore di Steinbeck. In quel caso il romanzo nasceva davvero dai reportages scritti, un paio di anni prima per un giornale americano, sulla grande fuga o espulsione dei contadini dalle campagne del Midwest verso la California, terra promessa che non mantiene le sue promesse ma erige barriere, anche senza ricorrere alla scusa del colore della pelle, della fede religiosa o della diversità di lingua. Furore è una grande anticipazione di tanti temi odierni, che viviamo in altre forme e non ne cogliamo o non vogliamo coglierne i nessi nelle nostre percezioni quotidiane, o perfino nelle nostre analisi sulle origini dell’odio, e del razzismo, che sembrano crescere sempre più e ci chiediamo quasi increduli da dove nascano. “Prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro” sono i mantra sempre più diffusi dei “respingimenti umanitari”, sembrano essere proprio questi pensieri, portati alle estreme conseguenze, in azione nel romanzo, ma qualsiasi gruppo che si rinserra e si chiude lungo il suo cammino troverà sempre anche al suo interno altri da dover lasciare indietro, per non pregiudicare la salvezza di tutti: “…diceva di radunare soltanto i feriti in grado di camminare e di partire subito.”

“In che razza di società vivremo” scriveva già una decina di anni fa Laura Balbo in un’analisi sul nuovo razzismo incipiente, ed ebbi poi l’occasione anche di ascoltarla direttamente, allora, durante “I dialoghi mediterranei”, giornate di confronto sulla nostra epoca, immersi in un atmosfera molto piacevole, nel caldo moderato del sole di settembre, dentro il bianco Castello di Trani, dove gli incontri erano stati organizzati. Leggo nel romanzo di Arpaia: “Il periodo più felice della loro vita era passato, ma naturalmente non se ne accorsero subito. Nessuno si accorge mai dei punti di svolta della propria esistenza, nessuno li avvisa in tempo e ci si prepara, ammesso che sia possibile prepararsi, ammesso che la vita non sia sempre una battaglia persa.”

Il reportage di Bruno Arpaia, che ha preceduto e accompagnato la stesura del suo romanzo, è raccontato da lui stesso, oltre che direttamente nelle pagine del romanzo, nella nota di avvertenze alla fine, in cui cita i report che ha studiato ed elenca la bibliografia consultata come si fa nella stesura di un saggio, ma poi da narratore non si limita agli studi scientifici, vi include anche i romanzi che dice di avere anche citato, e la lingua che usa è appunto quella della narrativa e del racconto, l’unica che consente di non limitarsi alla descrizione, seppur puntuale, dello scenario ma di entrarci dentro.

Mi viene sempre in mente, in questi casi, di quando da piccolo fingevo di entrare dentro i quadri e inoltrarmi lungo le stradine dei paesaggi sullo sfondo, che sparivano dietro curve alberate, per camminarci dentro e vedere e ascoltare dall’interno, immaginarne anche i suoni e i ritmi, l’aria, e può essere anche faticoso, come deve essere stato in questo caso torcere l’immaginazione per riportarla con i piedi a terra: “… allargò le narici incredulo: era una brezza, un movimento d’aria quello che sentiva? Rimasero tutti pietrificati a fissare le nubi che sembravano avvicinarsi veloci. Nel cielo si scarabocchiò una linea frastagliata, il graffio di un fulmine lontano, pieno di screziature viola. Sentirono un odore di ozono, sentirono l’eco flebile dei tuoni…”

Sono tanti i temi o le citazioni che mi vengono in mente, credo che nel romanzo ce ne siano tante per tanti diversi lettori, ciascuno libero di cogliere con la sua propria sensibilità. Uno in particolare mi preme accennare, la Cassandra di Christa Wolf, citando ancora dal romanzo di Arpaia: “A volte, pensò Livio rialzandosi, ci sono cose che uno preferirebbe non capire, perché capirle significava anche sapere senza scappatoie che disastro siamo.” 

Elias Canetti, da quanto posso comprendere scorrendo la sua analisi Massa e potere, definirebbe il gruppo raccontato da Arpaia una massa chiusa, che si rinserra e si preserva rinunciando a crescere pur di restare compatta, o forse ancora di più una massa lenta, che è disposta a piegarsi e accettare di restare compatta e compressa rinviando tutto ciò che le rimane ad uno scopo lontano – c’è un po’ il tema arcaico della terra promessa –  una massa nella quale possono sopravvivere anche sprazzi di individualità, nei quali continua a contare, un po’, anche il presente, il qui ed ora, il senso di un ricordo o anche solo di un cenno scambiato in assenza di parole che stentano a prendere forma. In attesa forse di nuovi legami, quando la massa si disgregherà, giunta forse di fronte al suo scopo.

Ma più che gli sprazzi di individualità, il motore vero – perché non esiste mai la staticità in questo romanzo, neanche nelle soste, esiste sempre una specie di rumore di fondo – credo che sia nel cammino, sta nel camminare l’ultima vera risorsa per arrivare fino al Mar Baltico per chi ce la farà: una lunghissima camminata a piedi, in colonna, incessante, un passo dopo l’altro, dall’alba al tramonto, o di notte, sono i piedi di tutti che tutti insieme camminano, è il terreno sotto i piedi che sentono camminando, ciascuno il suo tonfo frammisto al respiro. È il rialzarsi in piedi dopo ogni sosta che da il ritmo -come fosse un senso che deve comunque esserci da qualche parte: è a questo che si riferisce il titolo ‘Qualcosa, là fuori’ ?-  a tutto ciò che avviene dopo aver superato il punto di non ritorno, che chissà quando è avvenuto di preciso?

 

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Ci vuole una musica per questa terra

Oramai mi sto convincendo che ci vuole una musica per questa terra. E non mi riferisco ai concerti di Risorgi Marche, ogni analogia è puramente casuale (ho partecipato anch’io a uno di questi concerti, scherzando ho sottolineato a chi me lo chiedeva che mi avevano recintato dentro e dunque non potevo scappare. Eravamo sui campi aperti sopra Rubbiano, avevano da poco falciato il grano, un balcone naturale aperto verso tutte le parti, tanto sole e cielo sulle pendici della Sibilla, poco più in là la Regina e nascosto in mezzo a loro l’Infernaccio, chiuso sotto le frane dei recenti terremoti. Mi sembrava questo il vero concerto, senza togliere nulla a chi con la sua presenza, reale e non di maniera, lo rendeva possibile questo altro concerto dei luoghi, capace di dare un senso all’arrivo di tanti).
Ci vuole una musica perché se è la poesia a estrarre le parole dalla nostra vita di ogni giorno, poi è la musica a farle volare nell’aria. Ripensando ai tamburelli suonati dalle fate discepole della Sibilla dei miti, o alle musiche delle nostre contrade più remote, remote come i meandri delle nostre vite, mi chiedo non soltanto come o cosa suonavano ma che cosa cantavano, a quali parole davano la forma delle ali per volare.
Chiacchierando con un amico musicista, affacciati ad un balcone di Balzo di Montegallo, con la montagna e le sue valli di verde davanti a noi e il paese silenzioso e vuoto alle nostre spalle, ho scoperto che la nostra musica popolare un tempo, forse un paio di secoli fa, era più ricca di suoni e strumenti, volavano nell’aria ad esempio i suoni delle corde dei violini, capaci di una continuità ed estensione che affonda forse proprio nei meandri di quelle valli simili ad una pelle del paesaggio. L’organetto arrivò dopo, ritrovandosi presto quasi da solo come un custode di echi più ampi, facendo del suo meglio per contenerli tutti.
Cerco quasi di rievocarli nella mente, quei suoni di corde che piangono e ridono, come se dovessi estrarli insieme alle parole che talvolta vado cercando per raccontare storie, ricercando sensi, ma la musica io fatico ad afferrarla.
La musica ho sempre immaginato che sia nelle mani del musicista prima che in altri spazi della mente. Ricordo un giorno mio padre, gli avevamo regalato a sorpresa per i suoi ottanta anni un mandolino. Da ragazzo, in quelle feste che si spargevano sulle terre delle nostre campagne, quando al riparo della notte  le fatiche del giorno si scioglievano in balli ritmati da stornelli, mio padre suonava il mandolino. Me lo hanno raccontato io non l’ho mai visto, e ascoltato, quando nacqui lui era già adulto di quasi mezzo secolo di vita. E il mandolino non lo toccava già più e non lo toccò mai fino al giorno della sorpresa. Lo prese in mano commosso e poi come forzando una specie di pudore – se avesse avuto un cappello in testa se lo sarebbe tolto come si usava entrando in un luogo importante, di rispetto, con il passo incerto – e quel giorno anche lui con il gesto incerto aveva preso in mano il mandolino e poi aveva mosso la mano a ripetere alcuni antichi accordi custoditi nella sua memoria. Una memoria che aveva custodito nelle mani, mi resi conto guardandolo.
La musica è nelle mani che danzano nell’aria e sulla superficie degli strumenti, dev’essere per questo che lo strumento o gli strumenti di un musicista sono spesso prolungamenti della sua persona, simbiosi di quelle memorie anche quando il musicista non c’è più.
Ci vorrebbe una musica per queste terre, pensavo, e poi vengo a scoprire che qualcuno ci aveva anche pensato davvero, senza girarci sopra con le parole come faccio io ma ‘musicando’ direttamente, e con un progetto di agrimusicismo che in questo istante sembra tristemente spezzato, ma chissà…. chissà.
La poesia estrae le parole e la musica le fa volare, dicevo. Sì, mi sto convincendo che ci vuole una musica per questa terra, per far tornare a volare le parole e dare una nuova consistenza al silenzio che ho ascoltato passandoci dentro in questi giorni.
Io al mio solito sono passato di qui per pochi giorni e come un turista distratto, anche se ho già abbastanza età per avere sperimentato più volte che mai nulla avviene davvero per caso. Ma sempre distratto resto, perché non è qui che si sono formate le mie esperienze quindi tutto ciò che di nuovo mi sembra di sperimentare è soggetto a chissà quali mie suggestioni nascoste dentro di me. Lo so, o credo di saperlo.
La sensazione maggiore che ho di questi giorni trascorsi qui, ora che alle sei di mattina un gallo canta a squarciagola anche se soltanto a me e pochi altri in questo luogo di campagna sulle pendici della Sibilla dove mi sono fermato, la sensazione maggiore che ho di questi giorni è proprio il silenzio.
Bisogna camminarci dentro il silenzio, invidio chi è capace di farlo.
Il silenzio delle tante frazioni, borghi o paesi vuoti che ho attraversato, case messe in sicurezza e persone portate al sicuro altrove, strade spesso deserte, qua è là qualche cane che si è abituato a dormire sull’asfalto, e ti guarda passare restando in silenzio. Ieri sera dalle parti dei prati di Ragnolo all’ora del tramonto, c’era un falchetto a terra sull’asfalto, che mi fissava senza muoversi. La mattina prima un falchetto mi aveva osservato immobile dal cielo mentre fotografavo i ruderi silenziosi della chiesa di Santa Maria in Pantano: mi auguro che le lascino lì per sempre quelle macerie, senza toccarle più, patrimonio dell’umanità, testimoni esemplari di quella che in molti ora chiamano strategia dell’abbandono (la chiesa è venuta giù definitivamente con la neve e le scosse di gennaio, e da agosto era stato chiesto più volte di metterla per tempo in sicurezza).
Il silenzio è importante e ha una sua forza che dobbiamo imparare a conoscere, l’ho capito l’altra sera mentre fotografavo il simbolo della vita sulla parete esterna della chiesa di Santa Maria in Casalicchio, lungo la strada per Foce di Montemonaco, con la facciata rivolta su verso la corona della Sibilla, che domina anche questa valle. Nel momento in cui scattavo la foto ricevo un messaggio, mi dicono che tra gli artisti selezionati per Land Art 2017 alla gola del Furlo – una bellissima Gola, qui l’analogia c’è ed è reale – c’è un’ artista che si è ispirata per la sua “custode della sassaia” al verso di una delle canzoni che ho scritto per il mio libro di racconti contadini: “la memoria è come un sasso, quando ti colpisce non puoi trattenerla, con gli altri tu devi dividerla, se vuoi usarne la forza”.
Il silenzio è importante, dice più di mille parole, di queste parole che occorre tornare a estrarre con cura dalla vita quotidiana, è un silenzio che contiene già la sua musica, ci vuole una musica per questa terra, per far volare di nuovo le parole.

(ripubblicato anche nel blog LIPPERATURA il 3 ottobre 2017)

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Siamo tutti neri

Il 5 luglio “Fermi contro il razzismo”, ad un anno dall’uccisione del richiedente asilo Emmanuel Chidi Namdi.
Ventotto anni fa, ottobre 1989, ero a Roma alla prima grande manifestazione contro il razzismo, un corteo enorme, delegazioni da tutta Italia, presenti anche tantissimi gonfaloni dei Comuni portati da vigili urbani dalle mille divise e accompagnati da tante bande musicali dai tanti paesi di cui è ricca l’Italia. Allora a Villa Literno era stato assassinato Jerry Essan Masslo, un sudafricano scappato dall’apartheid per ritrovare il razzismo in Italia. I segnali del razzismo c’erano già tutti, e anche le connessioni con il caporalato e lo sfruttamento. Eppure l’abbiamo sottovalutato o comunque non affrontato in modo adeguato. E la situazione progressivamente è degenerata, sembra quasi che oramai ci stia sfuggendo di mano, da merce da usare strumentalmente sul piano della politica per ottenere facili consensi pare che stia diventando un vero e proprio bottino di guerra  verso cui correre per appropriarsene.

Il razzismo, leggevo molti anni fa in un testo di sociologia, è insito in modo naturale in ciascuno di noi, bisogna rendersene conto per controllarlo.
Mi sono occupato di intercultura e accoglienza per una ventina di anni, iniziando allora non solo da buoni propositi umanitari, di cui certe volte sottovalutiamo il lato retorico e il velo di razzismo potenziale che vi si nasconde, ma mi accostai a queste tematiche spinto da eventi di guerra, alla fine degli ottanta con la prima intifada palestinese, un conflitto con molti aspetti tragici, e qualche anno dopo con l’inizio del conflitto nella guerra di ex-Jugoslavia, come allora chiamavamo questo paese senza distinzioni, anche per una incapacità diffusa a coglierne differenze e ricchezze interne.
Un’intercultura, la mia, che si interrogava sul conflitto e sull’odio, e dell’accoglienza cercava di intravedere le complicazioni concrete al di là delle buone parole, e di queste buone parole tentava una lettura meno ovvia, districandosi tra i duplici significati di integrazione, tolleranza, diversità e così via.
Ricordo che al mio primo seminario di  formazione con un gruppo di insegnanti in una scuola elementare, mi presentati con il dizionario di lingua italiana.

Il razzismo, dicevo sopra, è insito naturalmente in ciascuno di noi, come una diffidenza individuale; il confronto con il prossimo non è mai scontato e va riguadagnato ogni giorno con un’attenzione continua.
Il razzismo inizia a diventare pericoloso, cioè a innescare odio, quando da individuale diventa sociale, si iniziano a condividere stereotipi ai danni di minoranze, convinzioni basate su percezioni distorte della realtà.
Il razzismo inizia ad accrescere ancora di più la sua pericolosità sociale, cioè a promuovere odio, quando dei gruppi organizzati iniziano ad assumere come bandiera questi stereotipi ai danni di minoranze amplificandoli di proposito, costruendo narrazioni distorte della realtà, cercando di assumere queste narrazioni distorte come il modo comune di guardare e interpretare i messaggi, a loro volta già distorti, che ci raggiungono. Come nella schizofrenia, ci giungono messaggi distorti, semplificanti e sbrigativi, soprattutto contraddittori, che saltano passaggi logici, non ci aiutano a districarci nella complessità sociale che ci circonda.
Diminuiscono anche le parole a nostra disposizione. Dal linguaggio degli ultimi decenni è scomparso tutto ciò che aveva a che fare con il conflitto sociale e il suo ruolo di mediazione e ricomposizione degli interessi  per raggiungere equilibri sociali più avanzati; è scomparso il concetto della solidarietà tra gli esclusi, la partecipazione intesa come osservazione critica è annullata dal consenso, le crisi economiche sono raccontate come se scaturissero da chissà quali complicati algoritmi tecnici che una mano più malvagia delle altre ha alterato, oppure vendute come opportunità che a loro volta nella nostra esperienza quotidiana non esistono. Come nella schizofrenia reagiamo dissociandoci.

Il razzismo diventa davvero pericoloso, cioè inizia a normalizzare l’odio, quando da sociale diventa politico e tenta di farsi sistema, entra nel linguaggio della politica, si infiltra nei comportamenti istituzionali o nelle interpretazioni di normative e leggi, cerca giustificazioni in nome di un realismo frutto di una percezione distorta della realtà, improvvisa ogni giorno soluzioni presentate ogni volta come la soluzione di tutto, accusa gli altri di essere “buonisti”, ingenui o addirittura compartecipi di chissà quali traffici occulti e  pronti a svendere il proprio paese. Argomentazioni che sempre meno cercano il dialogo e sempre più spazzano via o mettono al bando chi la pensa diversamente.  Quando mi occupavo ancora in modo attivo di intercultura, uno dei testi che tornavo a consultare più spesso era Cassandra di Christa Wolf, la sua rilettura del mito antico che più mi affascina. Un po’ come gli artisti, che diventano veggenti loro malgrado, solo perché sono resilienti ad una percezione distorta dei segnali che vengono dalla realtà: la nostra resilienza individuale è fondamentale.

Raccontare in modo corretto la realtà, e soprattutto raccontarla dialogando altrimenti a chi la raccontiamo: a noi stessi? Sembrerebbe una battaglia persa già in partenza nell’odierno mondo dei social e dei media pigliatutto, ma anche qui forse più che da astrusi algoritmi dipende da questioni di potere o di stereotipi sempre più consolidati. La resilienza individuale di tanti deve essere però sostenuta e non ostacolata, deve essere valorizzata e presa ad esempio,  la realtà deve essere raccontata per quello che veramente è, nella sua complessità, per aiutarci a capirla e non a confonderci, per tornare a ridurre la differenza tra una percezione distorta e ciò che realmente accade.

Emmanuel con la sua compagna Chinyery

 

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I martiri del XX giugno ricordando Regeni

Le memorie di ieri per costruire le memorie di oggi. È una frase che mi capita di pronunciare abbastanza spesso, ultimamente, quando ho occasione di raccontare le storie delle lotte contadine di ieri per ricordare e porre meglio all’attenzione le lotte di oggi.

Ieri sera questo tipo di sguardo è stato proposto magistralmente da Luigi Manconi, con un discorso appassionato, lineare e coinvolgente, seguito da tutti con la massima attenzione, quando ha collocato sullo stesso piano emotivo e politico le torture subite dai 7 ragazzi martiri il 20 giugno ’44 a Jesi e le torture subite dal giovane Giulio Regeni, nato 44 anni dopo l’eccidio di Jesi, e torturato e ucciso all’età di 28 anni, un’età di poco superiore a quella dei ragazzi martiri, di fatto un loro coetaneo.
Non è una forzatura accostare questi episodi, ha specificato Manconi, ma esattamente il contrario, perché chi perde la memoria dei fatti di ieri è condannato a ripetere gli stessi errori, orrori e dolori del passato.  L’anno in cui è nato Giulio Regeni è lo stesso in cui il nostro Stato ratificava la convenzione internazionale contro la tortura, eppure dopo quasi trenta anni una legge non c’è e per di più quella che tra poco potrebbe essere approvata si presenterà snaturata e privata dei suoi connotati di significato. “Un paese che ancora non è stato in grado di produrre una legge degna di questo nome non ha nemmeno l’autorevolezza per ottenere dal governo egiziano che si renda giustizia e verità a Giulio Regeni” ha sottolineato Manconi. Se gli autori delle torture e dell’eccidio di Jesi del giugno ’44 sono rimasti impuniti, occorre che non restino impuniti anche i responsabili della crudele morte riservata a Giulio Regeni.

Questo è stato il filo conduttore dell’intervento di Luigi Manconi, per sottolineare come le memorie di ieri ci possono aiutare a unirci sui temi importanti di oggi, della convivenza democratica nel rispetto dei diritti umani, e dunque la Resistenza non sia affatto una memoria  divisiva e da superare, come  invece cercano di attaccare i revisionisti di sempre, i mestatori odierni di odio, gli stessi che voteranno contro la legge del reato di tortura non perché il testo sia stato snaturato dalle mediazioni e scambi politici al ribasso, ma perché invece quella pratica comunque non la disdegnano.

L’intervento di Luigi Manconi era stato preceduto da un altro oratore, Riccardo Ciampichetti, molto giovane, coetaneo dunque dei ragazzi che eravamo lì a ricordare, uno studente del liceo il quale, come ha detto lui stesso, ha conosciuto questa storia dei martiri del XX giugno solo lo scorso 24 aprile, alla vigilia dell’importante corteo che ogni anno si tiene in città, e allora in questi mesi ha fatto una sua ricerca, si è documentato e ieri sera è stato affidato a lui il compito di ricostruire quella storia, e lo ha fatto con un linguaggio asciutto preciso e già sicuro, e per questo ancora più efficace.

Entrambi gli oratori erano stati introdotti dal Sindaco di Jesi Massimo Bacci, che poco prima aveva deposto una corona in ricordo dei 7 ragazzi martiri, al termine del corteo che ogni anno percorre un tratto della campagna di via Montecappone fino al monumento realizzato sul luogo dell’eccidio. Come sempre, un folla numerosa con persone di tutte le età, insieme all’Anpi di Jesi.

(Alcune commemorazioni degli anni precedenti)

 

 

 

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Mille persone in meno tra i 26 e i 40 anni di età

Jesi: Tendenze anagrafiche, uno sguardo veloce ai dati delle iscrizioni anagrafiche raccolti dall’Istat: in cinque anni mille persone in meno tra i 26 e i 40 anni di età.

(Alcune curiosità guardando molto velocemente tra i dati delle iscrizioni anagrafiche, con tutte le cautele del caso e gli approfondimenti, verifiche e risontri ulteriori che sarebbero necessari per una valutazione più ponderata)

A Jesi nei cinque anni tra il 1 gennaio 2012 e il 1 gennaio 2016 la popolazione residente è aumentata di 200 unità, pari allo 0,5%: addirittura una leggera crescita. Ma che cosa c’è dentro questo totale? Intanto i residenti con cittadinanza italiana sono diminuiti di 610 unità, più che sostituiti da 810 residenti senza cittadinanza italiana, saliti dal 9.5% all’11,5% del totale; ma si tratta di un rimpiazzo solo apparente, o parziale.

I mutamenti sono ancora più significativi e preoccupanti se guardiamo la struttura per età. Le classi di età dai 26 ai 40 anni diminuiscono in soli 5 anni di quasi mille unità assolute, di cui 1.030 con cittadinanza italiana, sostituiti solo parzialmente da non italiani, appena 147 in più (tra l’altro, tra i cittadini italiani, sono compresi anche gli “ex stranieri” che nel frattemmpo hanno ottenuto la cittadinanza). Dove sono finite queste mille persone che non ci sono più? Occorre un’analisi più approfondita, per distinguere chi è andato letteralmente via per cercarsi magari un lavoro in un altro paese europeo, e quanto invece incide il fatto che a mano a mano che questa classe di età invecchia, viene sostituita dalle classi più giovani, meno numerose.

Il tasso di dipendenza, che misura il peso della popolazione non in età da lavoro (sotto i 14 anni e sopra i 65) su quella in età da lavoro (da 15 a 64) in soli cinque anni è cresciuto, calcolandolo solo sui residenti con cittadinanza italiana, di ben 4 punti, quasi un punto all’anno; se inseriamo anche i residenti senza cittadinanza, il tasso registra comunque sempre una crescita significativa, di 2,8 punti.

Insomma, il contributo dei residenti senza cittadinanza, se da un lato consente di mantenere più o meno stabile la popolazione totale, non è in ogni caso sufficiente per mantenere stabile il tasso di dipendenza, dato il veloce invecchiamento della popolazione.

Questo tipo di fenomeno è probabile che si aggravi ancora nei prossimi anni, a cusa sia di una progressiva minore iscrizione di nuovi residenzi stranieri, sia per la tendenza di giovani in età di lavoro di andare via, sia soprattutto per la minore numerosità delle classi di età più giovani che nei prossimi anni dovranno rimpiazzare quelle che nel frattempo invecchiano.

Per contrastare questo fenomeno occorre una maggiore capacità di attrarre nuovi residenti, con tutto ciò di complesso che questo concetto può contenere.

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Teatrando, il gioco del teatro

Venerdì 2 giugno ci siamo esibiti al Teatro Ferrari di San Marcello con una performance dal titolo “Una giornata normale”, giocando disinvolti con il titolo di un importante film, “Una giornata particolare” di Ettore Scola. Una semplice e bella citazione, che ci piaceva fare, niente di più, giocando, come era nel titolo del laboratorio organizzato dall’Arci nel corso dell’anno e condotto da Maria Grazia Tiberi, intitolato appunto “Il gioco del teatro”. E quando si gioca l’importante è divertirsi, senza mai dimenticare che il gioco per funzionare e divertire davvero attraverso le finzioni che si mettono in campo, deve essere vero e non finto. E quindi noi, pur non essendo attori e pur restando ben consapevoli che non basta certo questo per diventare attori, abbiamo giocato a costruire una performance vera, che si sarebbe conclusa su un vero palco teatrale.

Il gruppo si era già formato nel precedente anno, sempre all’Arci e sempre sotto la guida di Maria Grazia Tiberi, “la maestra” come scherzando l’abbiamo sempre chiamata, con un corso di dizione e sviluppo della voce che già lo scorso anno si era concluso con la performance di letture ed animazione “Parole e letture in metro”, sempre sul palco del Teatro Ferrari di San Marcello, seguita poi da una replica estiva a Jesi in piazza delle Monnighette.

A questo “debutto” sono seguiti nei mesi successivi anche diversi interventi di lettura: alla rassegna “Letti di notte” presso la libreria dei ragazzi; agli incontri letterari “Le Marche in Biblioteca” presso la Planettiana; alla Casa delle Culture insieme ad un gruppo di rifugiati nella giornata dedicata ai migranti il 20 dicembre scorso; alla Biblioteca La Fornace di Moie per la giornata “LeggoNoRogo” il 10 maggio, e altre occasioni ancora, tutte di impegno e di promozione culturale.

Intanto avevamo anche iniziato la seconda annualità del nostro laboratorio, aggiungendo qualcosa di nuovo alla dizione e alla lettura, mentre in Arci i laboratori addirittura raddoppiavano: mentre noi inziavamo il nostro secondo anno con “Il gioco del teatro”, in parallelo un secondo gruppo di aspiranti lettori iniziava il suo primo corso di dizione e sviluppo della voce, anche questo poi concluso con successo con una performance lo scorso mese di maggio qui a Jesi, a Palazzo Santoni, intitolata “Donne a casa”.

Insomma, la cornice della nostra performance “Una giornata normale” è questa, per nulla improvvisata o casuale, tanto per riempire il tempo, ma inserita in un progetto che ha richiesto costanza e continuità e impegno dei partecipanti, e la scoperta graduale giorno dopo giorno che il senso di ciò che si fa siamo noi stessi a costruirlo giorno dopo giorno, non esiste prima di noi come una ricetta da applicare ma lo ritroviamo invece dentro il risultato che insieme abbiamo realizzato. Sempre giocando, mai dimenticare questo, perché poi l’impegno è impegno e non sempre tutto fila liscio via tranquillo, ci sono sempre come in tutte le cose momenti più critici, impasse, piccoli incidenti da risolvere o riassorbire, e il gioco aiuta, non è futile, crea interazione, si dice appunto “mettersi in gioco.”

All’inizio abbiamo individuato l’idea da sviluppare, e con questa in testa ci siamo misurati con la costruzione dei personaggi, scegliendoli collettivamente, quasi un gioco da debuttanti allo sbaraglio nel quale ciascuno è stato messo in mezzo e gli altri attorno gli affibbiano caratteristiche, tic, difetti, si gioca perfino ad aggredirlo. Ce n’è per tutti ed è un modo molto democratico di ricavarsi un ruolo, tutti alla pari senza nessuno che prevarichi o si trinceri nelle sue difese, come avviene di solito nella realtà, ma sviluppando poi nelle interazioni con gli altri il modo di ciascuno di entrare nel proprio personaggio. È un’esperienza interessante.

Le interazioni da sperimentare si sono ispirate all’idea iniziale della situazione che volevamo costruire, e così improvvisando è nato un canovaccio da seguire, di cui poi mi è stato assegnato – io sono “lo scrittore” del gruppo – il compito di fissarlo in un copione. Ma è nato con questo ordine, in modo del tutto collettivo, e ha continuato anche ad arricchirsi nel corso delle prove con tutte quelle piccole variazioni che ciascuno vi ha introdotto, qualcuna addirittura mentre eravamo sul palco con il nostro pubblico, composto da amici, parenti, un po’ di curiosi, quanto basta per ritrovarsi con una platea che ha partecipato bene al nostro divertirci sul palco. Si sentiva.

L’idea che abbiamo sviluppato, suggerita da Maria Grazia Tiberi, che ci ha guidato in questo percorso mentre costruivamo il tutto insieme a lei, poteva essere anche banale: si susseguono alcuni quadri, prima una scolaresca assai vivace e particolare e un bisbetico professore che vorrebbe far bere i libri con l’imbuto, poi dei tranquilli, ma fino ad un certo punto, giochi di mimo citando film, infine una “Tribuna illetterale dove nulla deve essere preso alla lettera” con assai improbabili rappresentanti del popolo che si lanciano in discorsi che sembrano incomprensibili, mentre in realtà sono citazioni di famosi testi filosofici e letterari o di veri politici, il tutto tra gag, sorprese e giochi prima di ritrovarli alla fine tutti con un bel camice bianco in fila per ricevere la dose giornaliera di tranquillante. Insomma, si trattava soltanto della solita giornata normale, ricca soltanto delle cose eccezionali che ha saputo mettere in campo.

Personalmente avevo iniziato questo percorso, nel primo anno, interessato soltanto alla dizione e allo sviluppo della voce, perché avevo scoperto il piacere della lettura ad alta voce e volevo approfondire, e forse resterà questa, la lettura, l’attività principale  del nostro gruppo che nel frattempo abbiamo chiamato ArciVoce, ma non è detto che ci si fermi qui; in realtà non conosco ancora le aspettative di ciascuno perché tra di noi non abbiamo mai discusso davvero di questo, ma ora credo che siamo pronti per farlo.
Ma forse non si tratta nemmeno di scegliere tra “leggendo” o “teatrando” in un modo rigido; mi rendo conto, infatti, dopo averli sperimentati entrambi, che “leggere” e “recitare” sono due linguaggi ben distinti, con regole e potenzialità diverse, che però si arricchiscono reciprocamente se si ha consapevolezza di entrambe le possibilità.

Mi sono reso conto che leggere non è più facile perché non devi impararare il testo a memoria, perché ti resta sempre da interpretare il modo di relazionare tu che leggi al testo che leggi, e mi sono reso conto che recitare consente anche delle libertà in più, o di tipo diverso, che non hai leggendo ma nascono dalla interazione con gli altri sul palco, o forse soprattutto dal calarsi dentro il personaggio, che non è mai uguale ma ti riserva sempre qualcosa in più. Qando provi, sì, lo fai per rafforzare la memoria, assimilare i tempi, metterti a tuo agio, ma in realtà anche per acquisire la consapevolezza che ciò che ripeti non è mai esattamente uguale, c’è sempre qualcos’altro, nell’emozione, nel tono e nel senso.

(Sul palco, seguendo l’ordine della foto in alto: Rosella Canari, Agnese Cesaroni, Manuela Carotti, la coach Maria Grazia Tiberi, Cristina Corsini, Lori Barboni, Tullio Bugari, Matteo Tiranti).

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“Che volete che sia, non avete mai visto un dirigibile?”

Sabato scorso, 11 marzo, ho partecipato come finalista della sezione editi, una delle quattro  previste, al Premio Letterario “Prunola” a Castelfranco Veneto.  Il mio libro – un racconto per ragazzi dal titolo «La tenda rossa, viaggio nell’altrove» pubblicato nel settembre scorso da Fara Editore – si è classificato terzo; di seguito ecco il breve brano che è stato letto, in un bel teatro affollato, con i posti esauriti.

«… Qualcosa d’insolito stava però accadendo in quella pausa nel mezzo di una giornata qualunque. Una grande ombra stava oscurando il cielo. Tutti i ragazzi si erano precipitati alla finestra, giusto in tempo per scorgere la sagoma di un immenso dirigibile che sorvolava il tetto della scuola, prima di sparire via verso il lato opposto. Per un attimo aveva lasciato dietro di sé il debole rumore del piccolo motore dell’elica, che sottile come un trapano bucava l’aria leggera nella quale sembrava volersi aggrappare. Imponente.
Poi lo rividero laggiù, lontano e piccolino, che continuava a navigare al centro di quella landa, dritto verso la sua meta.
Si trattava senza dubbio di una novità, era fin troppo evidente. Dopo alcuni secondi anche il sole sparì e iniziò a fioccare la neve. Una vera tempesta. Un vorticoso turbinio di fiocchi che tutto nascondeva e racchiudeva come dentro un soffice e candido guscio. I ragazzi avevano smesso di mangiare le merende e da dietro i vetri osservavano incantati quella nuova magia. Erano allegri e si davano spintoni. Si appoggiavano gli uni sulle spalle degli altri, scambiandosi scherzi. Qualcuno cercava di spiegare qualcosa a qualche suo amico, ma più per capire lui stesso, dato che nessuno poteva saperne più degli altri.
Tutto rischiava di assumere un andamento inconsueto per quei ragazzi e quindi la maestra intervenne per richiamarli alle più collaudate abitudini: dopo tutto era l’ora della merenda e dovevano sbrigarsi a mangiare, andare al bagno, fare ricreazione, riposarsi, essere pronti a riprendere il compito non appena il bidello avesse suonato la campanella:
“Su, non attardatevi.”
E poi, con l’aria di chi la sa lunga:
“Che volete che sia, non avete mai visto un dirigibile?”
Dentro di sé però era preoccupata, anche lei si rendeva conto che stava accadendo qualcosa di non proprio normale, seppure la sua mente vi resisteva grazie a quel sano scetticismo collaudato in tanti anni di paziente e regolare insegnamento quotidiano. Si chiedeva:
“Non sarà mica uno di quei nuovi progetti che s’inventano al Ministero?”
I ragazzi, con un fare noncurante, simulavano soltanto una scettica adesione al richiamo della maestra e tardavano ancora a mangiare o giocare, come si pensa che dovrebbero fare normalmente i ragazzi di tutto il mondo, divertirsi spensierati durante la ricreazione, in modo che nessuno si senta obbligato a capire cosa gli passi davvero per la testa.
Non era così. Loro continuavano a lanciare furtive occhiate fuori dalla finestra. Qualcosa era cambiato, non era possibile negarlo. Il turbinio di neve s’era dapprima diradato e poi, come accade alla nebbia quando l’aria si fa limpida, anche il guscio bianco di nevischio che li aveva avvolti era svanito. Davanti alla scuola ora si scorgeva una grande distesa bianca, profonda come l’orizzonte, e laggiù, poco prima della linea ultima dove lo sguardo arriva appena, s’intravedeva un puntino rosso. Sembrava quasi di udire delle voci che chiamavano… e la campanella ancora non suonava…»

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Prospettive diverse

«La tenda rossa, viaggio nell’altrove» di Tullio Bugari
recensione di Giovanni Antonini

tendarossacoverwLa storia sta alla base della vita. Non si può pensare all’oggi senza aver chiaro da dove veniamo. Sempre più spesso si sente parlare della storia come testimonianza del passato, come verità da ascoltare, da seguire, per far sì che l’uomo non commetta più le orribili gesta remote, affinché invece possa riproporre ciò che è stato amato e considerato giusto. Un passato come fondamento del presente, un passato come istruttore di vita, un passato come condottiero di verità. Un passato dal quale anche i bambini devono trovare gli spunti, capire il senso, sempre e comunque guardando dalla loro prospettiva. Una prospettiva diversa, più “bassa”, che vede con occhi speciali il mondo. La chiave di volta per avvicinare il bambino alla scoperta del passato è stuzzicarlo, trovare qualcosa per la quale lui sia disposto a mettersi in gioco. Tullio Bugari con il suo racconto riesce in questo intento. Riesce a far scoprire il passato a suo figlio. Ci riesce grazie alle sue abilità creative, fantasiose, innovative. Ha il potere di intrappolare il lettore nel suo racconto così come ha fatto con il suo bambino. Ha spiegato la scoperta del Polo Nord da parte degli italiani con il dirigibile Italia attraverso una favola nella quale però non mancano in alcun modo riferimenti reali, storici. Robinson è un bambino che si ritrova immerso nell’avventura dell’italiano Umberto Nobile, accompagnato dall’esploratore norvegese Roald Amundsen e dal finanziere statunitense Lincoln Ellsworth, avventura del 1928 sul dirigibile Italia, che si schiantò durante il viaggio di ritorno sulla banchisa polare. E a causa di questo terribile incidente per la prima volta partì una missione internazionale di soccorso. In questa storia si immerge una scuola elementare: i bambini si ritrovano protagonisti del soccorso dei naufraghi del dirigibile Italia. Storia nella storia; storia fantastica nella storia vera. Tullio Bugari riesce a creare un racconto di immensa creatività, unicità e coesione tra la realtà e la fantasia. Basandosi su questo modello si può insegnare ai bambini e ai ragazzi la Storia senza dover essere noiosi, immergendoli nel loro habitat, quello delle favole, dei racconti, così da renderli partecipi di un mondo ancora troppo grande per loro.
Ritengo che nella storia raccontata da Tullio Bugari sia presente anche un’altra verità: non solamente i grandi insegnano ai piccoli, ma anche i piccoli insegnano ai grandi. L’ombelico è un esempio puntuale. Certamente viene raccontata in modo giocoso la vicenda del periscopio, ma al suo interno è presente una straordinaria verità. Robin Williams insegnava ai suoi studenti nel film L’attimo fuggente di fermarsi un attimo, guardare il mondo da un’altra prospettiva, non limitarsi a vedere solo dal proprio punto di vista. Robinson fa lo stesso: insegna al suo Direttore a guardare da un punto di vista più basso, dall’altezza di un bambino, così da poter vedere la realtà in modo diverso. Grazie a questo racconto, ogni lettore bambino capirà la Storia, si meraviglierà e rimarrà catturato dagli avvincenti colpi di scena. Mentre, contemporaneamente, ogni lettore adulto verrà spinto a riflettere su molti aspetti della vita umana e soprattutto sulla grandiosa potenza della vista e sull’importanza della prospettiva. Un libro completo, un libro per tutti…

(pubblicata sul blog Narrabilando il 30 gennaio 2017)

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“Cominciò la vita, cominciò la Resistenza”

“Cominciò la vita, cominciò la Resistenza” (ricordando Aurelio Ricciardelli. aurelioHo avuto l’occasione pochi giorni fa di presentare il mio ultimo libro L’erba dagli zoccoli (L’altra Resistenza, racconti di una lotta contadina) dedicato alle lotte contadine, in provincia di Ravenna, e ho colto l’occasione per dedicare il reading concerto al partigiano Aurelio Ricciardelli, per i motivi che ho ricordato nell’articolo pubblicato sul blog dedicato al libro, e che ripubblico anche qui, per aggiungerlo agli articoli dedicati a suo tempo alla Staffetta della Memoria, quando ebbi l’occasione di incontrare e conoscere Aurelio a Monte battaglia, sopra Casola Valsenio.

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“Una situazione che non potete immaginare voi giovani, nella quale ci siamo trovati noi all’età di diciotto o diciannove anni. Ci siamo trovati in una guerra, alla caduta del fascismo, l’8 settembre e l’armistizio; pensavamo che fosse tutto finito e invece cominciò la vita, cominciò la Resistenza” ci diceva il partigiano Aurelio Ricciardelli, quando l’abbiamo incontrato sul Monte Battaglia, sopra Casola Valsenio, provincia di Ravenna, quando siamo passati di lì in bicicletta con la Staffetta della memoria lungo la Linea Gotica.

Ho voluto iniziare così domenica 20, al Circolo Arci Casablanca di Villanova di Bagnacavallo (Ravenna), dedicando letture e canzoni al partigiano Aurelio Ricciarelli. Aurelio ci ha lasciati due anni fa ma ho avuto l’onore di conoscerlo; Aurelio è stato uno degli stimoli importanti che mi hanno spinto a scrivere questo libro che ho dedicato ai contadini, e ho maturato proprio durante quei viaggi alla riscoperta delle memorie sulla Linea Gotica. Aurelio infatti non raccontava di combattimenti, preferiva invece ricordare i contadini di quella zona, che si toglievano letteralmente il pane dalla bocca per aiutare quei ragazzi su quel monte a sopravvivere al freddo e alla fame. Raccontava di quella bella storia di solidarietà e di scambio tra quei ragazzi e quei contadini, la storia del grano e della farina raccolti per fare il pane per tutti, che poi fu ridistribuito, perché la Resistenza è innanzitutto solidarietà e relazioni sociali di vita, storie vissute dentro quei luoghi che siamo noi.

Così, già durante quell’incontro con Aurelio, e con le tante altre storie incontrate dentro quei viaggi in bicicletta – molto belli, peraltro, per noi immersi in luoghi di grande bellezza e che meritano di essere vissuti in pace e apprezzati – mi chiedevo cosa avessero fatto i contadini, e quei ragazzi scesi dalla montagna, una volta finita la Resistenza. Si può tornare ad essere quelli di prima come se niente fosse? Non credo, quelle esperienze ci aprono dentro altri occhi. E così, cercando, ho trovato quella che nel sottotitolo del libro ho chiamato l’Altra Resistenza, quella delle lotte contadine, già iniziate in Sicilia e Calabria nel ’43 appena sbarcati gli Alleati, e proseguite risalendo il paese, fino agli anni Cinquanta.

Il legame con la Resistenza era forte, sia diretto che indiretto, sia nelle singole persone, con i tanti ragazzi partigiani che tornavano a casa e trovavano un intero sistema sociale e di sfruttamento ancora da cambiare, e che non volevano più accettare. Perché la democrazia è questo, la possibilità lottare e di utilizzare gli strumenti per rendere la vita più equa. Nei racconti che ho inserito nel libro ne ho trovati tanti di questi ragazzi, come Vittorio Veronesi della zona di Porto Mantovano, Maria Margotti di Argenta e che diede il suo contributo anche come staffetta – Vittorio cadde ucciso il giorno del primo anniversario dell’uccisione di Maria. Oppure ho trovato Placido Rizzotto che fu partigiano in Carnia (Friuli), e poi tornò per fare il segretario della Camera del Lavoro a Corleone.  O ancora, lo scorso anno, dalle mie parti, partecipando a una bicicletta della memoria, ho scoperto tra i nomi su una lapide nel paese di Staffolo (Ancona) il nome di un ragazzo di Bisacquino, Alesci Antonio, il paese vicino Corleone dove i contadini andarono a occupare le terre guidati dal ventenne Pio la Torre, che nel frattempo era andato a sostituire Rizzato alla camera del Lavoro. Oppure, qui a Jesi, tra i sette martiri del XX giugno, c’era un ragazzo, Enzo Carboni anche lui ventenne, che veniva da Santa Eufemia di Aspromonte, un’altra terra, la Calabria, che ha dato molto alle lotte contadine, purtroppo anche in termini di vittime come a Calabricata e a Melissa.

Potrei continuare a lungo, tanto sono numerosi e forti questi legami e ce ne sono anche altri che cito nel libro, ad esempio tra le note del racconto dedicato alle occupazioni d’Arneo in Salento cito il partigiano Gianni Giannoccolo, che di recente ho avuto l’occasione e l’onore di conoscere.

Ma oltre alla continuità diretta, di tante singole persone che erano state in guerra o al confino, o nei campi di prigionia o in montagna, e avevano incrociato  le loro esistenze e scambiato conoscenze, e insieme alle esperienze individuali avevano maturato soprattutto nella lotta partigiana anche un’esperienza sociale, di partecipazione e di modalità organizzative che si dimostrarono pronte a veicolare quella domanda individuale e sociale di cambiamento. Non solo come stimolo e metodo nel momento della lotta, dell’occupazione della terra o dello sciopero, ma anche come sostegno organizzativo e solidale, perché quando si andava a occupare un latifondo o si organizzava uno sciopero a rovescio, come al Cormor in Friuli, o sul Fucino o a Lentella in Abruzzo, oppure a Melissa in Calabria nel ’46 che furono i primi a inventarlo, partivano migliaia di persone e c’era da organizzare la logistica, il trasporto, il mangiare, gli attrezzi, dividere la terra, prepararsi a ricevere la polizia e tutto. E anche dopo, nel momento del sostegno, dopo le dure repressioni, perché furono oltre centomila i contadini che passarono per le patrie galere in quegli anni e un centinaio le vittime, e spesso c’erano bambini che restavano senza genitori o famiglie senza nessun lavoro, e anche allora erano pronte le strutture organizzative della Resistenza,  come i Gruppi di difesa della donna nati nella lotta partigiana, prima che si organizzassero l’Udi o l’Anpi o i sindacati, per accogliere i bambini del meridione presso altre famiglie contadine, anche loro in lotta ma in condizioni un po’ meno drammatiche. I treni della felicità furono chiamati, un’esperienza già iniziata dopo i disastri dei grandi bombardamenti della guerra, nel ’45, anche per bambini di città come Milano o Roma. Tra il ’45 e il 52 furono 70 mila i bambini accolti presso altre famiglie. Tantissimi. Ho trovato queste esperienze di accoglienza anche nella zona di Ravenna, ad esempio a Lugo con Irma SiroliIda Cavallini; erano presenti in tutta l’Emilia Romagna e anche nelle regioni vicine, ne ho trovate anche nella mia regione, ad Ancona con i bambini di San Severo di Foggia e a Pesaro con i bambini di Montescaglioso. Alcuni di questi esempi li cito nei racconti del libro. Erano tutti più buoni allora? Non credo si possa ridurre tutto ad un’ideologica categoria della bontà, con il risultato magari di piangersi addosso per un tempo presente che ci appare assai meno solidale, credo piuttosto che era il risultato di una grande esperienza sociale, che era stato duro mettere in movimento e che non era affatto scontata nemmeno allora.

Però, mentre della Resistenza combattuta si è parlato sempre un po’ di più, degli anni immediatamente successivi tutti noi anche della nostra area culturale politica abbiamo sempre conosciuto assai meno, come se questo pezzo ulteriore di memoria non fosse stato il nostro. E proprio questo è il perché della dedica che ho voluto fare ad Aurelio Ricciarelli; anzi, penso che a lui stesso sarebbe piaciuta di più una dedica rivolta  direttamente ai contadini, perché lui stesso per prima cosa ricordava sempre il ruolo fondamentale di quei contadini, senza il cui aiuto non si sarebbe realizzato nulla.

Trovarmi un provincia di Ravenna mi ha stimolato questa dedica e queste riflessioni. Per il resto, una bella serata, di incontri e di storie, alternando le mie letture dal libro alle canzoni suonate e cantate da Silvano Staffolani e composte insieme ispirandoci alle stese storie del libro. Il primo brano letto è stato dedicato alle lotte mezzadrili del Centro Italia, seguito dalla storia di Maria Margotti, di Argenta, a pochi chilometri da qui, e poi due letture sui contadini senza terra ricordando le occupazioni dei latifondi a Melissa in Calabria e a Bisacquino in Sicilia. Le canzoni ispirate al libro e che sono state eseguite si possono ascoltare anche alla pagina Soundcloud
Questa volta siamo stati ospitati da un circolo Arci, il Casablanca di Villanova (Ra), e si trattava inoltre di una serata militante, una cena di autofinanziamento per le iniziative svolte durate la campagna referendaria dal Comitato per il No.

(Domenica 4 dicembre L’erba dagli zoccoli in lettura e musica sarà a Roma al Festival delle terre)

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«Vivo all’ombra di un sogno, in attesa di un raggio di sole»

4Vivo all’ombra di un sogno, in attesa di un raggio di sole, è la didascalia ad una delle foto di Marco Cardinali, in esposizione in questi giorni al Palazzo dei Convegni di Jesi. La foto ritrae un sorridente indigeno Papua, che sta lì in posa davanti alla macchina fotografica con la stessa naturalezza di una pausa tra amici, come se lui e Marco si fossero fermati un attimo lungo la strada, mentre insieme chiacchieravano e andavano a prendere un caffè. Lo sto immaginando ma non mi sorprenderei di scoprire che più o meno era questa la situazione.

L’isola di Papua si trova nell’Oceano Pacifico, e diversamente dalle nostre percezioni più frettolose, non è un’isoletta sperduta ma la seconda più grande isola al mondo dopo la Groenlandia, con una superficie che è più del doppio dell’intero territorio italiano. Papua politicamente è divisa in due. La parte est è uno stato indipendente dal 1975, con il nome Papua Nuova Guinea. La parte ovest fa parte dell’Indonesia, quarto paese al mondo per popolazione, dopo Cina, Inda e Usa. Mi piace richiamare le dimensioni, per ricordarci di come a confronto siamo piccolini, e mi piace dare uno sguardo alle carte geografiche per localizzare e provare a rendermi conto.

1Il confine politico tra le parti est e ovest dell’isola è costituito da una dritta linea che corre precisa da nord verso sud, sembra una zucca tagliata in due da un colpo di machete, durante una lite tra due contendenti. Non c’è nessuna storia, dietro, che ha tracciato nel tempo quei confini in equilibrio perenne, e dinamico, tra caratteristiche naturali e consuetudini sociali. Solo un colpo di machete, che la storia, piuttosto, la interrompe di colpo e ne cambia il corso. Uno dei tanti effetti del colonialismo, di scelte prese altrove. Nella parte ovest, West Papua, un territorio grande quanto l’Italia intera, da decenni si lotta per l’indipendenza dall’Indonesia, una delle innumerevoli guerre dimenticate, della quale si stimano dagli anni Settanta ad oggi, approssimativamente, circa 200 mila morti.

3Esattamente, combattono dal 1969, quando fu negata la possibilità dell’autodeterminazione. Il movimento indipendentista si chiama Organisasi Papua Merdeka (Organizzazione Papua Libera), in sigla OPM. Più che una guerra per l’indipendenza, ha il carattere di una guerra di liberazione, nel senso che il paese non è mai stato unito all’Indonesia se non sotto la forma della colonia olandese; quando l’Olanda concesse l’indipendenza all’Indonesia nel 1949, West Papua rimase sotto il controllo olandese ma poi il governo indonesiano, con la pressione e la forza, riuscì a ottenere l’annessione di West Papua, e quando ne negò definitivamente la possibilità dell’autodeterminazione, non restò che organizzare la guerriglia per Papua Libera – Papua Merdeka.

2Il movimento ha un largo appoggio da parte della composita popolazione, formata da molte diversi popoli.  Sullo sfondo degli interessi internazionali troviamo, come da copione, purtroppo, le solite cose, ad esempio la miniera Grasberg, la più grande miniera di rame e di oro del mondo (qui è tutto grande) che produce un utile di oltre un milione di dollari al giorno ed è di proprietà per l’80% della società americana Freeport McMoRan, mentre il secondo azionista con il 12% è la società inglese Rio Tinto, ex RTZ (insomma, un piccolo esempio del famoso “aiutiamoli a casa loro!”). Naturalmente, anche molti proprietari e politici indonesiani hanno interesse diretti nella miniera. Una scheda su questa situazione, si può trovare sul sito di Survival.

Tutte queste informazioni sono solo dei veloci flash, per chi volesse, c’è molto da approfondire. Lo stimolo a farlo viene dalle foto di Marco Cardinali, in esposizione da alcuni giorni al Palazzo dei Convegni di Jesi, con una mostra che resterà aperta tutta la prossima settimana , fino al 2 novembre.

5Marco è un viaggiatore difficile da descrivere, uno di quelli che ti scappano letteralmente via, prende e parte, come andare a prendere un caffè a Falconara o fare un salto dagli amici Papua, nel loro mondo libero, nonostante il tutto che gli accade. Un salto non solo antropologico, grazie alle sue foto, ma anche di nuovi sguardi che si tolgono dagli occhi tutto ciò che di solito ci ingombra e ci chiude, per allargarlo. Foto luminose, di cieli, di terra e di foreste e di acque, e di indigeni nella loro consuetudine quotidiana, foto di vita. Occorre farsi colpire da queste foto e poi lasciare che le loro emozioni inizino da sole a stimolarci dentro sensazioni e pensieri, instillare curiosità, spiazzare prospettive.
14469724_540668286124908_3787673104792937022_nHo già avuto modo di vedere altri lavori di Marco, sempre con lo stesso effetto, e anche di partecipare con lui qualche mese fa ad un incontro scolastico, dedicato a Thomas Sankarà, con ragazzi di terza media, e vedere quindi l’effetto di questo contatto. Viaggiare e fare foto è come prendere appunti. La foto è il mio block notes, mi pare che abbia scritto una volta un grande fotografo, ora nella fretta non sono in grado di ricordare l’autore della battuta, ma mi sembra adeguata anche in questo caso. Visitate la mostra, oltre alle foto trovate lì anche Marco, che sarà ben felice di raccontarvi i suoi viaggi.  Nel chiudere queste note, però, non posso non citare la foto più simpatica, che ho trovato sul suo profilo FB, con la scritta sovraimpressa di Toro vagabondo, che non ha bisogno di commenti.

 

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Dedicato a Predrag Matvejević

14457349_1014667721971518_7221347141520713896_nDomenica scorsa, il 25 settembre, mi hanno invitato qui nella mia città, Jesi, a una “festa balcanica”, che era già iniziata la sera prima, con diverse iniziative in luoghi vari. All’inizio mi avevano chiesto un discorso, un intervento, invitandomi a mettere insieme delle parole ma nonostante il forte legame emotivo, maturato oramai oltre venti anni fa verso queste terre e paesi, non mi sento né così esperto né così testimone da poter dire chissà che possa davvero interessare. Poi però ho pensato, spero a ragione, che poteva essere una buona occasione per leggere qualcosa scritto da altri, davvero figli di quelle terre e che invece spesso finiamo con il trascurare. Così ho portato un testo di Predrag Matvejević, per ricordarlo e rendergli omaggio, in questi giorni che si trova nel ritiro della sua casa tra pochi cari. Gli ho dedicato la serata e ho voluto ricordarlo o farlo conoscere a chi mi ascoltava, raccontando qualcosa di lui prima di iniziare a leggere.

Ho scelto come lettura l’inizio di un racconto che ci regalò, letteralmente, per un libro (Izbjeglice/Rifugiati) in cui avevamo raccolto testimonianze di profughi in fuga da quei paesi, o che in quei paesi magari stavano ritornando o cercando ancora di ritornare. Anche il racconto di Predrag Matvejević parlava di un ritorno, il suo, il primo dopo la guerra e dopo sette anni di esilio. Mi sembrava fosse questo, per quella serata, il modo migliore di introdurre alla Bosnia e agli altri paesi balcanici coloro che oggi sentono il desiderio o la curiosità di conoscerli meglio e di viaggiarvi. Non per rattristarli con spiacevoli ricordi ma perché credo che si viaggi meglio, e si apprezzino meglio le bellezze di un paese, quando si è ricchi di un po’ di consapevolezza in più della sua storia. Credo che così diventino un po’ più vere quelle bellezze.

E poi, subito a seguire, proprio come un viaggio che ha già preso il via, ho proseguito dopo quella prima lettura con altre tratte dal piacevole libro di Andrea Semplici e Mario Boccia, le storie di cibi e contadini di “Viaggio in Erzegovina“, i quali questa consapevolezza del viaggiare dentro l’essenza delle storie e la pienezza delle vite,  l’hanno maturata bene, nei viaggi di ieri tra la guerra o a ridosso della guerra, e poi dopo, soprattutto dopo, quando ne segui trepidante il ritorno ad una normalità che per darsi un senso deve essere qualcosa di più di quella che c’era prima. Letture molto piacevoli e divertenti ma per nulla leggere o banali, anzi un invito a guardare davvero quando si viaggia, e allora ho scelto degli spunti dalle ciliegie alica, i fagioli poljak, il cavolo raštika o la fenomenologia della rakija.

Ho fatto del mio meglio  nel leggere, non ho grande esperienza di queste cose, ma avevo ad accompagnarmi in sottofondo dei musicisti davvero bravi – Gafarov esemble quartet – ogni racconto commentato da un solo e diverso strumento. A sottolineare meglio il significato della lettura, che ho dedicato a Predrag Matvejević.  Una lettura introduttiva al concerto che poi è seguito, rendendo un vero omaggio musicale alle profondità dei paesi balcanici.

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Ecco la parte iniziale del racconto Ritorno al mio paese natale di Predrag Matvejević che nell’economia del tempo a disposizione e della situazione ho scelto di leggere:

Nell’autunno mi sono diretto alla volta del mio paese natale, pieno di speranza. Ne sono tornato con i brividi addosso. Sono stato a Mostar e Sarajevo, in Bosnia Erzegovina. Con me c’erano degli amici: una ventina di scrittori e giornalisti italiani collegati alla Fondazione Alberto Moravia, che insieme al “Circolo 99” di Sarajevo ha organizzato il viaggio.
mostarEravamo nel 1997: il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra stessa.
Ci siamo imbarcati ad Ancona, abbiamo attraversato l’Adriatico. Da Spalato con un pullman siamo andati verso Mostar. Erano giorni insolitamente chiari, come se l’estate li avesse conservati per donarli al primo autunno. Il mare in questa stagione è maturo, per essere stato a lungo esposto al sole. Sono passato molte volte per questi luoghi, mi sembra di conoscere ogni insenatura ai piedi del Mosor e di Biokovo, da Spalato fino a Dubrovnik. Ci siamo fermati a Makarska, davanti all’immagine del canale di Lesina: mi scopro a contemplare la lunga punta dell’isola di fronte; il blu molto forte fra le due rive; vecchie funi sommerse.
Dalmazia.
Perlustriamo l’estuario della Neretva, i piccoli e grandi rami del fiume dove ho remato nelle “trupce”, le barchette del luogo. Ci fermiamo dinanzi alle rocce di Pocitelj: paesino musulmano, la moschea senza minareto, l’ “hamam” orientale senza fontana. All’ingresso c’è un grande crocifisso nuovo, e ce n’è un altro, più piccolo in cima alla fortezza turca: segni che questo posto appartiene alla fede cristiana e non a quella islamica, alla “Herceg-Bosna” e non alla Bosnia Erzegovina. Incontriamo dei pellegrini venuti per inginocchiarsi davanti alla Madonna, nel santuario di Medjugorje, vicino a questi luoghi. Si troverà qualcuno che gli spieghi perché è stato distrutto il tempio musulmano e chi ha messo quel crocifisso all’entrata in Pocitelj? E chissà se vogliono sentirselo dire o possono capirlo.
Gli amici con cui viaggio chiedono spiegazioni e io cerco di dargliele nella forma più semplice, avvertendo che ogni mia risposta è insufficiente.
Nello spazio che stiamo attraversando lo scisma ha spaccato l’Europa e il Mediterraneo. Ha diviso i cristiani ortodossi dai cattolici. In questi luoghi il cristianesimo e l’islam si sono incontrati e scontrati. La diversità delle fedi si è andata trasformando in contrapposizione, la contrapposizione in intolleranza, l’intolleranza in odio. Questa guerra non è di religione, ma alle sue radici, oltre al resto, stanno anche differenze e contrapposizioni collegate alla fede. I più primitivi hanno ereditato l’intolleranza e l’odio.
E tuttavia la maggioranza degli abitanti di questo territorio non si odiavano fra loro. Vivevano e morivano gli uni accanto agli altri, per lo più in pace e comprensione. Siamo affini per origine, parliamo la stessa lingua, ci assomigliamo. Questa guerra l’hanno cominciata i “serbi ortodossi”, l’hanno continuata i “croati cattolici”. Metto gli uni e gli altri fra virgolette: non si tratta infatti né di serbi né di croati e ancora meno di ortodossi e cattolici.
Essi sono per me solo fascisti.
Siamo passati accanto a Zitomislici, dove è bruciato il vecchio monastero ortodosso. Era sopravvissuto alla prepotenza turca, non a quella odierna. Non c’è nessuno che sia in grado di dirmi se le icone contenute nella sua raccolta siano state messe al riparo prima dell’incendio. Neppure le chiese cattoliche sono state risparmiate. E le moschee musulmane sono state distrutte dai cristiani dell’una e dell’altra confessione.
Nei pressi di Metkovic passiamo il confine e la dogana (che prima in quel punto non c’era). 
(…) L’entrata a Mostar mi ha scosso. Non ci venivo più da sette anni. Sapevo che metà della città era distrutta, ma non potevo credere che fosse proprio così. Sollevo da terra schegge di pietra, sbriciolate e sparpagliate. Tasto muri, crepati e squarciati. Passo le dita su quelle superfici ruvide come fossero ferite, e non credo ai miei occhi. “Le immagini della realtà” che abbiamo guardato per tanto tempo hanno due dimensioni: la realtà stessa ne contiene molte di più. Nei quartieri più distrutti, sono scomparsi i segni e i connotati dei luoghi e degli spazi. Dove mi trovo, com’è questo, e qui prima c’era? Mi tradisce quella topografia interiore che ci formiamo nell’infanzia, ma forse sono io a tradirla.
O mia città, sei proprio tu?
C’era gente di ogni sorta qui come altrove, soprattutto nei dintorni, che non aveva saputo avvicinarsi alla città o per contro la città non aveva potuto attirare. Ma nonostante tutto non c’era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo: perché si distruggessero le case, i templi, i ponti, il Vecchio ponte sulla Neretva.
Ogni spiegazione mi appare sconveniente.
La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). Ad un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un’alternanza di tale genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi.

 

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La tenda rossa

tendarossacoverwEh sì. Penserete che sono diventato un grafomane. Un po’ lo sono, lo confesso, ma ora vi racconto come è andata. È vero, è uscito un nuovo libro. In un periodo nel quale sono ben assorbito dalle presentazioni del mio ultimo, L’erba degli zoccoli,  con un fitto calendario di incontri  nei prossimi giorni, nonché la formula di viaggiare in coppia con un musicista, l’amico Silvano Staffolani, per offrire serate di racconti in parole lette e anche cantate.

È già assai impegnativo da solo tutto questo, anche se altrettanto divertente, e per di più alternato a diverse altre attività che mi vedono coinvolto, a iniziare dalla bella esperienza del circolo di lettura presso la Planettiana di Jesi, in questi giorni in partenza per la seconda annualità, dedicata alla Letteratura Medio orientale contemporanea, oppure il prossimo ciclo di incontri Le Marche in Biblioteca, sempre presso la Planettiana, il cui primo appuntamento sarà il 6 ottobre e la cui promozione non è ancora pronta, sta partendo in queste ore.

E in tutto questo, ecco che l’amico Alessandro Ramberti – Fara editore – riesce a infilarsi giusto giusto e far uscire il libro proprio in questi giorni, come una congiunzione di pianeti. Sto scherzando. Il lungo racconto pubblicato è in realtà un vecchio gioco, che risale addirittura a più di venti anni fa, ispirato al mondo della scuola quando i miei figli frequentavano le elementari, e io collaboravo con l’Arciragazzi, a costruire aquiloni o giocare con i libri.
Alcune di quelle attività poi riuscii anche a portarle in alcune scuole di Mostar, frequentate dai ragazzi delle famiglie sfollate da Stolac, a causa della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Riuscimmo anche a realizzare un paio di numeri di un giornale scolastico bilingue tra quella scuola di Mostar e la scuola di Jesi frequentata dai miei figli. Il sottotitolo di quel giornalino era “BassoProfilo“, un concetto ripreso dall’Arciragazzi allora diretta da Carlo Pagliarini, che ebbi la fortuna di conoscere: il basso profilo è quello dei ragazzi, che stando più bassi riescono a vedere il mondo da un’altra prospettiva.
Il mio collega in quelle attività era un fotografo, l’amico Giacomo Scatolini, e questa idea gli piacque così che la utilizzò anche nel suo sito di fotografie: fotografie di basso profilo!
In quelle occasioni, qui a Jesi e là a Mostar, nascevano tante storie e una di queste storie prese corpo in un testo scritto, che poi col tempo però, esaurita quella fase di gioco, rimase lì, in qualche cassetto.

Infine, qualche mese fa, in una domenica di pioggia, di quelle che devi inventarti qualcosa, stimolato dalle iniziative che Alessandro con ammirevole costanza ripropone periodicamente, l’ho tirato fuori, l’ho ripulito un po’, ho aggiustato qualcosina qua e là e poi – soprattutto perché mi sono accorto che di nuovo mi divertiva questo giocare con le storie – l’ho mandato, senza preoccuparmi d’altro. E ora eccolo arrivato, tale e quale a una storia che ritorna. E di basso profilo, perché i protagonisti sono ragazzi.

Perché, poi, per giocare con le storie, in quell’occasione tirammo in ballo proprio un dirigibile? Forse lo stimolo nacque qui a casa, quando mio padre, già molto anziano, classe 1905, raccontò un giorno al suo nipotino di quando c’erano i dirigibili all’aeroporto di Jesi, finendo il suo racconto con un’immagine che aveva incantato anche me quando avevo avuto quell’età, e cioè la storia del contadino che quando vide per la prima volta in cielo quello strano coso cominciò a corrergli dietro, anzi sotto, in mezzo ai campi, per una decina di chilometri, fino al paese vicino. La tenda rossa è nata così. Per gioco, facendo spiccare in volo la fantasia, tentando di esplorare le dimensioni della vita guardandole da altre prospettive. Chissà, che non sia il caso di ritornare di nuovo a questo Basso Profilo.

La tenda rossa – viaggio nell’altrove, di Tullio Bugari, Fara editore

Incipit del libro in lettura musica e canzoni (insieme a Silvano Staffolani)

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Narrare una vita (“Carmen che non vede l’ora” alla Nottenera)

12110042_10153775917163729_4948637312067159825_oNarrare una vita per narrarla tutta. Quando la vita diventa racconto, e il mondo attorno un palcoscenico che prova a raccoglierla con un solo sguardo, forse è proprio allora che la vita ritrova se stessa nella sua intima interezza. “Ho ritrovato il corpo di Carmen, me stessa” dice l’io narrante a un certo e preciso punto, ora che ha affidato la narrazione alle voci degli attori. “Facciamo che io sono Carmen e facciamo che tu sei..” è questo il mantra che Tamara Bartolini e Michele Baronio si rilanciano di continuo, come in quei giochi che inventavamo da piccoli, in un tempo oggi diventato mitico ma allora tutt’uno con noi, un tempo anteriore a ciò che avremmo incontrato, e ora possiamo ricondividere, e non perché ci ritroviamo qui come se ci fossimo arrivati per caso, ma proprio perché per farlo abbiamo attraversato davvero tutto questo.

12094924_10153775916513729_2943037719453880573_oCi sono anche Tamara e Michele dentro il racconto che ci propongono, perché quella vita è stata vissuta davvero e la sua storia è stata raccolta e condivisa da loro, attraverso la magia dell’incontro, e a un certo punto della narrazione possiamo ascoltare le loro voci, registrate, mentre dialogano con la vera Carmen, e così anche noi sentiamo come suona la  voce di Carmen. Li ascoltiamo mentre insieme commentano vecchie foto recuperate, chiamate a testimoniare, sollecitare un ricordo, fornire un pretesto per far partire l’immaginazione necessaria a far rivivere momenti e situazioni, luoghi e persone, il mondo che è stato e la vita che l’ha attraversato portandosi con sé significati che forse avevano bisogno proprio di questo palcoscenico, dove sono loro l’anima del racconto, il ritmo interno.

La vita che viviamo di solito è più ampia dei nostri gesti, incorpora anche l’immagine introiettata dei nostri genitori e nonni, come se noi stessi fossimo già con loro prima ancora della nostra nascita, e allora la storia di Carmen parte addirittura da prima della guerra e attraversa più terre, la Jugoslavia, l’Abissinia, la nave che circumnaviga l’Africa, e poi Napoli, la valle del Basento, Roma, si ritrova negli anni Sessanta e Settanta e oltre, si compone di più mondi e più consuetudini, e in tanta frastagliata ampiezza noi rischiamo di frammentarci, forse è per questo che ricerchiamo di continuo noi stessi, e che Carmen a un certo punto riesce a dire con soddisfazione “ho ritrovato me stessa, ho riunito tutti questi frammenti.

Questa mattina mentre scrivevo queste righe ho trovato su youtube la registrazione completa di Carmen che non vede l’ora, in una rappresentazione di un paio di anni fa, in un teatro di Roma. Potete trovarla QUI. Ieri sera, immersi nella NOTTENERA di Serra de Conti, lo scenario forse era ancora più adatto, intanto perché non eravamo soli ma tutto il paese era un pullulare di situazioni, nello stesso momento, con tante storie narrate in ogni angolo immerso nel buio della notte, e inoltre perché anche noi eravamo all’aperto, in una piazzetta Belvdedere che si apre nelle mura del paese, in una piazza vera insomma e sotto al cielo stellato, che sembrava prolungarsi sul palco con la scenografia scelta, piccole luci appese che scendevano e ondeggiavano sparse, e il cielo entrava talmente dentro la scena che anche il telo alle loro spalle non era bianco opaco ma di leggera tela trasparente, e quindi le immagini proiettate non ci si fermavano sopra ma l’attraversavano per andare a perdersi, come un’involontaria metafora di libertà, sullo sfondo dei tetti e delle colline: facciamo che siano ancora lì, mimetizzate e libere. “Facciamo che le foto si vedono lo stesso” diceva Tamara mentre ogni tanto sul palco tornava a commentarle insieme a Michele, per riprendere così di nuovo lo slancio per altri scorci della storia di Carmen.

(le foto non sono di ieri sera, le ho prese dal blog Culturalmente e sono del fotografo Matteo Nardone)

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“Singhiozzai con Leopardi”, ricordando Sacco e Vanzetti

thumb_book-non-piangete-la-mia-morte.330x330_q95Tra alcuni giorni, il 23 agosto, è l’anniversario dell’uccisione sulla sedia elettrica di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti; per ricordarli, ecco alcuni brani dal libro autobiografico di Vanzetti ‘Non piangete la mia morte’, che consiglio a chi non lo abbia ancora letto, per la bellezza delle sue parole e per l’attualità che la loro vicenda ha ancora oggi per noi.

«Dopo due giorni di treno attraverso la Francia e sette di navigazione attraverso l’oceano, giunsi a New York. Un compagno di viaggio mi condusse alla 25ª Strada all’angolo della 7th Avenue, ove abitava un mio concittadino. Alle otto di sera scendevo malinconicamente le scale. Solo, straniero, senza intendere né essere inteso, passeggiai a lungo per quel quartiere in cerca di un alloggio (…) Trovai un meschino alloggio in una casa equivoca. Dopo tre giorni dal mio arrivo, il mio concittadino, che lavorava da capo cuoco in un club alla 86ª Strada West in riva all’Hudson, mi portò con lui al lavoro in qualità di sguattero; vi rimasi tre mesi. L’orario era lungo; in soffitta, dove si dormiva, il caldo era soffocante e i parassiti non lasciavano chiudere occhio quant’era lunga la notte. Decisi di dormire sotto gli alberi. Lasciato quel posto trovai la stessa occupazione al ristorante Mauquin. La pantry era orribile. Nessuna finestra; se si spegneva la luce elettrica bisognava fermarsi, o muoversi a tastoni, per non urtarsi l’un l’altro o inciampare negli oggetti.  Il vapore dell’acqua bollente che saliva dalle vasche ove si lavavano le terriglie, casseruole e argenteria, formava grosse gocce d’acqua attaccate al soffitto dal quale cadevano a una a una sulle teste madide di sudore. Nelle ore di lavoro il caldo era orribile. I rifiuti delle mense, ammassati in appositi barili, emanavano esalazioni intossicanti. I sinks non avevano tubi di conduttura. Ogni sera sul buco si otturava, e l’acqua cadeva sul pavimento scivolando verso il centro ove si apriva un buco di conduttura. Ogni sera quel buco si otturava, e l’acqua saliva fin sopra gli appositi telai di legno posti sul pavimento per salvaguardarci dall’umidità. Allora si pattinava nel brago. Si lavorava un giorno dodici e uno quattordici ore; ogni due domeniche si avevano cinque ore di uscita. Vitto fradicio (per la canaglia), cinque  o sei scudi settimanali di paga. Dopo otto mesi me ne andai per non contrarre la tisi (…).

(…) Arrivato qui provai tutte le sofferenze, le disillusioni e gli affanni inevitabili per chi sbarca ventenne, ignaro della vita, un po’ sognatore. Qui vidi tutte le brutture della vita; tutte le ingiustizie, la corruzione, il traviamento in cui si agita tragicamente l’umanità. A onta di tutto riuscii a fortificarmi fisicamente e intellettualmente. Qui studiai le opere di Pietro Kropotkin, di Gori, di Merlino, di Malatesta, di Reclus. Lessi Il Capitale di Marx, i lavori di Leone, di Labriola, il testamento politico di Carlo Pisacane, i doveri dell’uomo di Mazzini e oltre altre opere di indole sociale. Qui lessi i libri di ogni frazione socialista, patriottici e religiosi, qui studiai la Bibbia, la Vita di Gesù di Renan e il Gesù Cristo non è mai esistito di Milesbo, qui lessi la storia greca e romana, le Crociate, due commenti di storia universale, la storia degli Stati Uniti, della rivoluzione francese e di quella italiana. Studiai Darwin, Spencer, Laplace e Flammarion, ritornai sulla Divina Commedia, sulle Gerusalemme Liberata, singhiozzai con Leopardi, lessi i lavori di Victor Hugo, di Leone Tolstoi, di Zola; le poesie del Giusti, di Guerrini, di Rapisardi, e del Carducci. Non credetemi un’arca di scienza, lettore mio; il granchio sarebbe madornale. La mia istruzione fondamentale fu troppo incompleta, e la mia forma mentale non è sufficiente per  sfruttare e assimilare totalmente sì vasto materiale. E poi devi considerare che studiai lavorando duramente, e senza comodità alcuna. Allo studio però aggiunsi una spietata, continua, inesorabile osservazione sugli uomini, sugli animali, le piante, su tutto ciò che – in una parola – circonda l’uomo. Il libro della vita: questo è il libro dei libri! Tutti gli altri non hanno per scopo che insegnare a leggere questo. Libri onesti, s’intende, che i disonesti hanno opposto fine. (…)

539w(…) Cercai la mia libertà nella libertà di tutti, la mia felicità nella felicità di tutti. Compresi che l’uguaglianza di fatto, nelle necessità umane, di diritti e di doveri, è l’unica base morale su cui può reggere l’umano consorzio. Strappai il mio pane con l’onesto sudore della mia fronte; non ho una goccia di sangue sulle mie mani, né sulla mia coscienza. Ora? A trentatré anni, sono candidato alla galera. Nè me ne meraviglierei, se così non fosse. Eppure se dovessi ricominciare “il cammin di nostra vita” ribatterei la medesima via, cercando però di diminuire la somma delle colpe e degli errori, e di moltiplicare quella del bene. Vada intanto ai compagni, agli amici, ai nuovi tutti il mio bacio fraterno, la profonda riconoscenza, l’amore e il saluto augurale. Bartolomeo Vanzetti.»

(brani tratti dal libro Non piangete la mia morte di Bartolomeo Vanzetti)
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti  furono uccisi sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927 nel penitenziario di Charlestown, a sette anni dal loro arresto; a nulla valse la confessione del detenuto portoghese Celestino Madeiros, che li scagionava. Solo cinquant’anni dopo, il 23 agosto 1977, il governatore dello Stato del Massachusetts riconobbe ufficialmente gli “errori” commessi nel processo.
Nel giorno della morte, Nicola Sacco  aveva 36 anni e Bartolomeo Vanzetti 39. Il loro processo si tenne in un clima di intolleranza e di razzismo e nell’ambito di una campagna persecutoria gestita dal procuratore generale degli Stati Uniti Alexander Mitchell Palmer, per evitare il contagio della rivoluzione russa; dal 7 novembre del ’19 la repressione colpì tutte le associazioni anarchiche, socialiste, comuniste e sindacaliste con arresti indiscriminati, processi sommari ed espulsioni forzate, spesso calpestando le più elementari libertà individuali e principi di giustizia. Si stima che furono circa diecimila le persone colpite in modo diretto da questi provvedimenti, passati alla storia come i Palmer Raids.

 

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… come se il cielo le fosse piombato addosso…

Il 2 agosto del 1980 eravamo al mare, dalle nostre parti, in comitiva, si chiacchierava della strage di Ustica e di tante altre cose di quel periodo, e io tenevo anche la radiolina a transistor accesa, come allora si usava, quei transistor sintonizzati in FM, quando mi giunse, ci giunse, la prima notizia da Bologna. Pensammo subito a tutti i nostri amici, e compagni – perché allora questa era una parola ancora usata normalmente – che vivevano a Bologna e alcuni in quel periodo lavoravano proprio al bar della stazione. Un’infinità di noi aveva un legame più o meno diretto con la stazione di Bologna di quel 2 agosto. Un enorme dolore, ma se la memoria non mi tradisce, la strage non fu seguita da panico isterico. Ci furono subito tante manifestazioni, a iniziare da quella tenuta a Bologna.
Riporto qui, a ricordo, una canzone dei Modena City Ramblers,, e poi un brano di un mio romanzo di una dozzina di anni fa, tuttora inedito per mancanza o anche sovrabbondanza di editori, e forse ancora incompleto.

1«Solo quattro giorni dopo l’omicidio di Amato c’era stato quello strano incidente aereo a Ustica. ‘Come otto anni fa sulla Montagna longa’ pensò Lui tra sé. Ora, a distanza di un mese, era chiara l’esistenza di un complotto per nascondere chissà quali segreti. Quell’aereo partito da Bologna…

“A Bologna è saltata in aria la stazione. L’ha detto la radio. Mezz’ora fa…”

“Ma che dici?”
“Un’esplosione: può essere solo una bomba!”
Rientrarono subito a Bologna. Alle due erano già davanti alla stazione. Prima

erano passati a casa e Alice aveva telefonato a tutte le amiche e conoscenti che temeva potessero trovarsi in stazione a quell’ora. Li aveva rintracciati quasi tutti. Di altri aveva avuto notizie dai familiari, anche loro sgomenti. Fino a quel momento tutte le persone del loro piccolo universo personale sembravano essere state risparmiate. Ma era un sollievo effimero, che svaniva subito, appena l’orizzonte del loro sguardo s’allargava e acquisiva maggiore consapevolezza, come se la stessa verità, una verità così indicibile, avesse avuto bisogno di tempo per insediarsi, trovare uno spazio, un contesto di significati razionalizzabili solo un poco alla volta. Correva già la voce di diverse decine di morti. Prima di uscire Alice aveva riempito una bottiglia d’acqua. Quando arrivarono la piazza era sbarrata, attraversata da un andirivieni convulso di ambulanze, auto di polizia, carabinieri, vigili urbani e del fuoco, sotto a un sole cocente che pareva lui stesso bruciato e sporco di polvere. Le macerie erano insanguinate e sparse ovunque, e la stazione la in fondo, sventrata e inaccessibile, come se il cielo le fosse piombato addosso e i suoi pezzi frantumati intralciassero il passo ai soccorritori.

Mostrarono i tesserini dei giornali con cui collaboravano e s’inoltrarono, attenti a ciò che calpestavano, guardandosi ogni tanto tra loro come per sincerarsi che la realtà era davvero questa e non la stavano immaginando. Alice gli fece un cenno e Lui capì che doveva scattare qualche foto, se voleva fissare quello strazio il più a lungo possibile nel tempo, affinché tutti potessero vederlo e ricordarlo.

Come se la memoria avesse bisogno di questi feticci e non bastasse da solo tutto quel dolore che non potrà più cancellarsi. Lo guidò Alice tra i sentieri di quello strazio, indicandogli ora una scarpa impolverata, una valigia strappata, un bimbo ancora stretto alla madre…

Lo guidò verso alcune adolescenti che piangevano chine a terra i resti d’una donna, la cui unica parte intatta era il viso. Aveva fatto bene Alice a portare con sé la bottiglia d’acqua. S’era chinata e aveva bagnato le loro labbra, poi le aveva aiutate a lavare quel viso, dopo averle chiuso gli occhi, e ad asciugarlo, soffiando insieme. Sembravano due ali di vento, quelle fanciulle dal volto evanescente, mentre le fotografava. Un carabiniere con la divisa sporca di polvere gli chiese d’aiutarlo a convincere quelle ragazze a salire sull’ambulanza, poi arrivarono alcuni medici o infermieri con delle barelle e poi… e poi basta, aiutarono ancora qualcuno qua e là e quando il rullino fu pieno si fecero indietro per non intralciare quell’andirivieni che reagiva come poteva, perché si reagisce sempre, non si può fare diversamente.

A metà pomeriggio era arrivato in elicottero il Presidente Pertini. Era andato subito all’obitorio dell’Ospedale Maggiore e poi a trovare i feriti. Ai giornalisti in cerca di una dichiarazione aveva risposto: Signori, non ho parole. Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia.

Alla sera a casa Lui e Alice si alternarono davanti a televisione radio e telefono, per sapere e chiamare conoscenti e amici o rispondere a chi li cercava per avere notizie. Chiamarono anche Viola da Agrigento e sua figlia Agata da Genova. Angela che era in vacanza dai suoi in Abruzzo, e Amedeo da Roma, che si preparava a partire per Bologna. Chi chiamava voleva essere rassicurato e ascoltare la loro voce, portavoce delle voci che circolavano per la città. E loro a loro modo e in qualche modo cercavano di rassicurare. Era diverso quando erano loro a chiamare, come se temessero ciò che era possibile ascoltare. Mancava ancora all’appello una cugina di Alice che lavorava alla mensa della stazione. Dovevano contattare il gruppo di crisi, raccogliere informazioni più certe, tenersi a disposizioni per eventuali riconoscimenti, sì, riconoscimenti, e poi farsi dare l’elenco dei feriti nei vari ospedali. Alla fine l’avevano trovata, ferita ma viva.

Il giorno dopo, domenica, fu ancora peggio. La piazza della stazione era sempre bloccata, non si conosceva ancora il numero esatto delle vittime, continuavano a trovare cadaveri sotto le macerie, molti erano irriconoscibili. Di molti feriti in gravi condizioni e non in grado di parlare non si riusciva a conoscere l’identità. Cera gente che veniva da ogni parte d’Italia e d’Europa. Di ogni età. Bambini e anziani. Giovani, madri di famiglia, operai in ferie, tutti portati lì da un caso che non era venuto per caso, perché altri, da altri luoghi avevano predisposto quel risultato.

Il lunedì ci fu una grande manifestazione. I primi funerali il mercoledì, con il centro bloccato da decine di migliaia di persone. Malgrado tutto, andò in onda anche l’ennesima farsa della divisione politica. I compagni del movimento, o dei brandelli che ne restavano, avevano portato uno striscione: la strage è dei padroni, nessuna delega alle istituzioni. Alla fine avevano accettato, con le buone, di chiuderlo e unirsi anche loro al modo di reagire che la città e le sue istituzioni avevano scelto, quello della riaffermazione dello Stato contro il terrore che vuole minarlo.

Alice iniziò a risistemare le storie raccolte. C’era Marina Tirolese, sedici anni, ricoverata con gravissime ustioni. Era in partenza con la sorella minore per una vacanza in Inghilterra, le avevano accompagnate in stazione il fratello e la madre. La madre. Il suo corpo lo avevano ritrovato sepolto dalle macerie solo dopo molte ore. Marina aveva lottato ancora dieci giorni prima di morire.

Maria Fresu, una madre in partenza con la figlia di tre anni per il lago di Garda. Il corpicino senza vita della piccola Angela era stato ritrovato subito, i resti della madre furono riconosciuti solo cinque mesi dopo.

Lui intanto aveva stampato le foto scattate tra le macerie e solo ora, guardandole, iniziava davvero a metabolizzare ciò che in quel primo pomeriggio i suoi occhi credevano d’aver soltanto immaginato e non visto davvero. Erano foto di macerie e di cadaveri, accatastati su un autobus requisito dai vigili del fuoco, di brandine sparse a terra piene di feriti che attendevano impotenti il loro turno, in quell’ospedale da campo a cielo aperto, come il teatro sventrato di una battaglia. E poi tubi che reggevano flebo, bende insanguinate, scarpe spaiate, valigie accartocciate, persone piangenti, i volti evanescenti di quelle fanciulle che soffiavano via la polvere dal viso della loro madre e ancora… corpi frantumati come macerie. E da ultimi, accasciati sui binari, quei vagoni divelti che sembravano le carcasse di uccelli migratori abbattuti prima del viaggio. Per sopprimere così qualsiasi ritorno.

Alice non ce l’aveva fatta a terminare l’articolo da sola, l’aveva completato Lui. Lei l’aveva riletto in silenzio, aggiungendo una frase raccolta da una sopravvissuta: Occorrerà fare luce ma di fronte a questa necessità provo ugualmente un senso di sgomento, tanto più terribile quanto più mi appare chiara l’impossibilità di poter andare al di là di queste parole.»

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20 giugno 2016 – 20 giugno 1944

Un discorso umano, m’è venuto subito da pensare mentre ascoltavo Antonio Pizzinato nell’aula consiliare di Jesi, per la commemorazione dei martiri del xx giugno, nel 72° anniversario dell’eccidio. La cerimonia s’è svolta in due fasi. Prima al cippo dei martiri, in via Montecappone, per depositare la corona di fiori. Ma le condizioni del tempo erano incerte e così, diversamente dalle altre edizioni, s’era pensato fosse più prudente spostarsi per l’orazione e il resto della cerimonia presso l’aula consiliare. Tuttavia c’è stata una tregua alla pioggia e così al cippo non eravamo in pochi, e non si è trattato di un frettoloso deposito della corona ma di un vero momento collettivo di raccoglimento.1 2 3 4 5

Io ero arrivato al cippo qualche minuto prima e avevo trovato già lì Antonio Pizzinato insieme agli organizzatori dell’Anpi, e così attendendo con loro l’inizio della cerimonia della corona di fiori, avevamo avuto il tempo di scambiare un po’ di conversazione. L’avevo già conosciuto diversi anni fa in Cgil, nel periodo in cui alla fine degli anni Ottanta fu per alcuni anni il segretario generale del sindacato e mi ha fatto piacere incontrarlo di nuovo. Tante le cose che si potrebbero raccontare, non certo di noi direttamente ma delle vicende e delle storie a cui nel corso del tempo, in tanti modi diversi, si entra a far parte o comunque in contatto. E ne parlavamo proprio nel luogo del cippo, che è lo stesso dove 72 anni fa avvenne l’eccidio di quei sette ragazzi. Attualmente Antonio fa parte dell’Anpi ed è presidente onorario dell’Anpi Lombardia. Negli anni è stato anche Senatore, e la sua casa principale è stata la Cgil, di cui è stato anche Segretario Generale nazionale, e più ancora che con la Cgil il suo legame nasce con la Fiom, di cui nel prossimo anno festeggerà il 70° dal suo primo tesseramento, nell’immediato dopoguerra, quando da ragazzo dal suo Friuli si trasferì a Sesto San Giovanni per diventare operaio.

Nella sua orazione, più tardi nell’aula consiliare, ha rievocato la triste storia dei martiri del xx giugno, i sette ragazzi trucidati nel 1944 in via Montecappone presso Jesi, inserendola nel quadro complessivo di cosa stava accadendo in Italia in quel momento, sottolineandone sia l’enorme costo in termini di sacrificio sostenuto, sia alcuni momenti politici rilevanti. Ha ricordato il decreto luogotenenziale di quei giorni, chiesto dal CLN al governo unitario provvisorio, che sanciva l’impegno dopo la liberazione di chiamare il popolo nella sua sovranità a scegliere la forma di governo e l’assemblea che avrebbe dovuto definire il nuovo quadro di regole democratiche del paese, e fu così che il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni a suffragio universale e la prima volta delle donne al voto, che si scelse la Repubblica e si elesse l’assemblea costituente, e che poi nel 1948 si approvasse la Costituzione.

Non poteva che essere forte, in questo odierno momento politico, il richiamo alla Costituzione, sulla quale Pizzinato poi si è soffermato ricordando due articoli in particolare. Il primo è l’articolo 1, a tutti ben noto, e poi l’articolo 3, che ora mi piace citare:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»
Due frasi che, mi sembra proprio, contengano ancora oggi forti indicazioni non solo per corrette iniziative politiche ma anche per un saldo riferimento etico e umano.

Accennavo prima ai ricordi e alle tante cose da raccontare. Antonio lo ha fatto, con pudore e chiedendo quasi scusa come se stesse andando oltre citando qualcosa di personale, ma dietro il suo ricordo diretto c’era il mondo di allora, ha così rievocato di quando era ancora un ragazzino, nel suo Friuli, a quelle giornate così dense tra il luglio e il settembre 1943 della libera repubblica partigiana del Cansiglio, commuovendosi lui stesso mentre rivedeva quei momenti attraverso i ricordi del ragazzo di allora, e trasmettendoci il contrasto che sempre si vive quando si è stretti tra l’ansia e l’entusiasmo di una libertà finalmente ritrovata e già quasi alla nostra portata, e insieme il costo che questa richiede, che è sempre un costo umano, e quindi va onorato. Ho percepito questo tipo di sentimenti mentre lo ascoltavo, e non credo d’essere stato il solo, per come tutti lo ascoltavano.
Una cerimonia per una memoria importante, la nostra, che dobbiamo far rivivere nel nostro impegno quotidiano di oggi.

Due dei ragazzi trucidati a Jesi erano del sud, di Santa Eufemia in Aspromonte e di Agrigento, portati qui dalla guerra; Antonio nella sua orazione ha ricordato la repubblica del Cansiglio tra Friuli, Veneto e Trentino, facendomi venire in mente Placido Rizzotto partigiano in Carnia, insomma, anche in questo un elemento in più per ricordarci di come la Resistenza e la Liberazione furono davvero una ricostruzione del paese dal basso, che coinvolse tutto il paese, da sud a nord.

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Gnaoua, festival d’Essaouira, musiques du monde

hEssaouira. Appunti molto vari di viaggio. Andavamo soltanto a un festival musicale, e invece… Gnaoua, come leggo da un articolo che dovrebbe mettermi in guardia da pigrizie turistiche, si riferisce tanto alla musica quanto alle confraternite maghrebine custodi di una tradizione che ha origine nell’Africa centrale e occidentale, e arriva qui rivissuta dai discendenti di differenti gruppi etnici – Haussa, Fulani Bambara e altri – che hanno condiviso la condizione dell’esilio e l’esperienza della schiavitù. Il Marocco era l’ultima tappa di un viaggio che avrebbe dovuto condurli, come tanti altri, in Europa o nel nuovo mondo come schiavi, e schiavi lo erano già diventati prima ancora di arrivare qui.
È questo che leggo da alcuni articoli trovati curiosando in rete, tra testi di musica e di antropologia, mentre inizio a immergermi nella vivacità del festival, e anche di questa cittadina, Essaouira, posta in faccia all’Atlantico come una sfida. Antichissima, fu fondata, mi pare, addirittura dai fenici, e in epoca moderna i primi europei che vi arrivarono furono i portoghesi. Viaggiatori di mare. Abitata a lungo da una consistente comunità ebraica, che pochi decenni fa costituiva la maggioranza. Tanti volti diversi fusi insieme.
Ci siamo avvicinati (quando parlo al plurale intendo il nostro gruppo di otto persone, assortite e intergenerazionali, riusciamo a coprire una gamma ampia di età, e varie curiosità) passando da Marrakech la rossa, colorata di materia e densa come le sue calde terre, e quindi il frastuono delle percezioni era già innescato dentro di noi prima ancora dell’arrivo qui.
Essaouira ci appare subito come avvolta nei suoi stessi vicoli, con una freschezza che sa di immediato, battuta dal mare e dal vento, e i colori bianchi azzurri o blu quasi provenzali o greci, come di un’idea di Mediterraneo che si prolunga, o di un Africa che è già un ponte oltre se stessa.
Essaouira la bianca, o la blu, satura di cielo, di vento e di mare, dai mille angoli e volti, incubatrice di tante piccole storie se solo si avesse il tempo, o il modo, di coglierne davvero qualcuna.

gfEssaouira la città degli alisei ci accoglie ventosa, anche troppo in questi giorni, il vento è davvero eccessivo ci dicono anche gli abitanti di qui, come animato da una qualche eccitazione particolare, o dispettosa, a tratti addirittura freddo o fastidioso, ma nessuno si scoraggia o rinuncia a farsi colpire la pelle da questa aria lanciata attraverso i deserti e i monti, pronta a tuffarsi nell’oceano, mentre i vicoli ci proteggono e ci conducono in angoli che sanno di calma e di piccole cose.
Essaouira è anche la città dei gatti, come il titolo di un libro dell’antropologa Anna Maria Rivera, una che le ha trovate le piccole storie a cui alludevo, perché è andata a cercarle, e poi nel suo libro le racconta nella forma di un’antropologia animalista della città, restituendoci di queste storie il ritratto del rapporto di tolleranza e compassione che i suoi cittadini, come scrive lei stessa parlando soprattutto dei più poveri e disagiati, instaurano con i tantissimi gatti (ma anche cani e gabbiani) che abitano tra questi vicoli, concedendosi il lusso di un maternage verso questi altri viventi che sono gli animali. E così, continua la Rivera, le persone più povere si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha condannate, e spezzano la catena dell’obbligata dipendenza dal bisogno cui la società le ha legate e le immagina schiave. Riconquistano il loro spazio di autonomia e dignità. Anche questo è il contesto del festival che ci accoglie. Sono davvero tanti i gatti che vivono in simbiosi con l’anima della città. Li vedi ovunque, tranquilli e sonnacchiosi, un po’ ruffiani come sanno fare soltanto loro, che entrano nei negozi, si coricano in un angolo, si strusciano, mentre attorno da ogni angolo ti arriva il suono forte o soffuso di questa musica altrettanto immediata e fresca, di cui non riesci a indovinare il confine tra tradizione e innovazione.
cbLa musica Gnaoua si è anche modernizzata, come viene detto usando questa parola forse in un modo che la fa sembrare capace di snaturare un delicato equilibrio. Che vorrà dire modernizzarsi? Non riesco a comprenderlo del tutto, conosco poco di ciò che ho davanti, mi arrampico quasi sugli specchi con le poche nozioni che ho raccattato e con quel poco che afferro guardando o ascoltando.
Mi viene in mente, in Italia, la musica Salentina, e la pizzica, con la sua origine ancestrale che affonda forse addirittura nella Magna Grecia, o nella religiosità popolare, nel senso non di esclusivo del popolo ma di tutti i giorni, e nel senso della sua capacità di guarigione dal rimorso che riemerge, purché la musica sia eseguita all’interno di un rituale consolidato e socialmente condiviso, deve essere coreutica, con i suoi canti e controcanti, e mirata, ciascuna capace del linguaggio specifico adatto a ogni singola situazione, accompagnandosi al suo colore.
Gli ultimi residui resistenti li ha studiati l’antropologo Ernesto De Martino alla fine degli anni Cinquanta, gli stessi anni delle occupazioni delle terre, capaci di sconfinare nel mito come le occupazioni d’Arneo, quando si consumavano una a fianco dell’altra le ultime resistenze di una civiltà contadina che si voleva giunta al capolinea, accerchiata e allo stremo. Contadini costretti da lì a poco a emigrare, loro malgrado. Resistenti non per un attaccamento particolare alla tradizione, anzi, credo che anche quei contadini avessero voluto la modernità, purché più equa dell’iniqua tradizione che a loro era toccata in sorte. Dopo De Martino in pochi si avventurano ancora, ma non mancano, sulle tracce della religiosità popolare nostrana, e insieme a questa delle nuove fatiche di oggi, dei nuovi braccianti giunti proprio dall’Africa a riempire i vuoti lasciati da quelli andati via ieri.
E la musica? La musica è come una memoria che ha raccolto, incubato e traghettato oltre, oltre un rimorso che ci sembra soltanto di avere addomesticato e invece dev’essere ancora vivo in noi, da qualche parte. Oggi è diventata la musica di quello che viene chiamato anche neo tarantismo, la nuova musica che ad ascoltarla talvolta sembra ancora una magia, e che intanto ha conquistato il mondo, la pizzica di oggi che sembra oramai affrancata del tutto da qualsiasi residuo di arcaica religiosità e di bisogno di guarigione, e dunque sembra altro, possiamo farne anche consumo, tutto si misura oramai sul mercato. Chissà? Penso che mai nulla del sentimento umano possa essere davvero del tutto controllato o dimenticato, ma non so nemmeno cosa traspare e in che modo, o tutto magari dipende soltanto dalle capacità di scavo dei nostri sguardi odierni, che non sempre reggono il passo. Dobbiamo continuare a imparare, questo è certo, o imparare di nuovo come ci si orienta.
deAnche qui a Essaoira con gli Gnaoua, che vengono identificati anche come etnia, così come è avvenuto per i Bambara, i Dogon e altre popolazioni più a sud, non sono mancate le attenzioni degli antropologi, venuti qui forse proprio nel momento dell’ultimo cambiamento, per porre in tempo le basi dell’etnopsichiatria e di una nuova attenzione alle forme di guarigione sciamaniche, che si basano su dispositivi diversi da quelli elaborati dal pensiero e dalla medicina europea. Dispositivi terapeutici che insistono di più sulle relazioni sociali della collettività e del gruppo, che non sull’individuo isolato. Se lo isoli lo spezzetti e lo metti sotto cura, se lo reintegri nella comunità è la comunità che cura se stessa e l’individuo lo rendi di nuovo intero. Più o meno. Sono un profano e ho in testa nozioni approssimative, che derivano da vecchie letture di Tobie Nathan o dei nostri Piero Coppo o Roberto Beneduce, quando anni fa iniziai a interessarmi non proprio di terapie della guarigione ma di intercultura, che forse può essere definita una terapia di guarigione sociale, per non disintegrarci, ma alla quale in molti ottusamente resistono. Tutto qui. Ma forse anche questi studi antropologici a cui accenno hanno avuto la loro evoluzione, non ne conosco gli eventuali aggiornamenti. La tradizione e la modernità.
Anche la musica Gnaoua a partire dagli anni Settanta, mi pare, si è modernizzata e in seguito ha conquistato il mondo, e il mondo oggi è qui, dentro questo festival internazionale arrivato alla edizione numero 19. La sua fondatrice, leggo, è una donna, aspetta a lei questo mito delle origini del festival, si chiama Neila Tazi. Leggo una sua intervista di pochi giorni fa. Quando le chiedono: “Come avete sperimentato lo sviluppo del Festival? Potevi immaginare tale successo 20 anni fa?”, lei risponde: “Uno scienziato francese una volta ha dichiarato: l’evoluzione è un evento-based, è l’evento che causa l’evoluzione a verificarsi e l’evento porta alla trasformazione. Sapevamo che era una idea di alto profilo, anche se in via preliminare pochissimi ci credevano. E ha richiesto un sacco di lavoro, una visione vera e trasmessa da media marocchini e stranieri, un impatto economico indiscutibile e ultimo, un enorme entusiasmo popolare che ha fatto diventare il Festival uno sforzo serio.” E più avanti, rispondendo a un altra domanda, aggiunge: “Essaouira, una città lontana dai riflettori, come lo erano gli Gnaoua dei quali abbiamo avuto un’immagine riduttiva. Soprattutto perché per un tempo troppo lungo l’azione culturale non è stata presa in considerazione come una vera e propria leva di sviluppo e di potere…. Oggi possiamo vedere che la cultura nell’azione pubblica di piccole città può essere un catalizzatore di politiche urbane e della ristrutturazione territoriale. La cultura è un progetto politico vero e proprio! Deve essere profondamente integrato e in modo trasversale, svolge un ruolo nella formazione, il turismo, la diplomazia e la comunicazione!”
Forse anche la modernizzazione ha mille volti, da scrutare e anche apprezzare ogni tanto, senza essere sbrigativi? Qual è il suo rapporto con la tradizione? La cultura non si mangia diceva invece qualcuno da noi.
Continua Neila Tazi: “Per evolversi è necessario cercare di realizzare qualcosa che va al di là di ciò che è già stato raggiunto. È proprio quello stato d’animo che governa il nostro modo di gestire e pensiamo di questo festival. Ogni edizione deve essere più intensa che la precedente, dobbiamo perseverare la nostra capacità di sorprendere e stimolare la curiosità del pubblico, al fine di ottenere la sua fedeltà. Non è più difficile, ma, preferisco dire che è altrettanto difficile. Alcune cose si muovono in avanti, all’indietro altre … Noi continueremo a combattere (…) è uno sforzo che richiede investimenti, professionalità e una pianificazione efficace. Troppe persone pensano ancora che la cultura è una questione semplice che può essere improvvisata… mentre richiede visione e la necessità di finalizzare il progetto da molto tempo in anticipo se vogliamo fornire un lavoro di qualità.”
La cultura, se non si mangia, nemmeno si improvvisa. Penso a noi nel nostro paese, dove cresce sempre di più il numero delle persone che non sanno più improvvisare nemmeno se stesse. Neila Tazi si sta impegnando per registrare Gnaoua e la sua musica sulla lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO.
La musica e i suoi strumenti. Il guenbrì, i crotali e i tamburi. La musicalità del guenbrì, tesa ed elegante come una carezza che si insinua, penetra e si ripete, ripete i suoi cicli, li rivive; i crotali, sonagli di ferro e legno che scandiscono una vibrazione ritmica che sale su dalla terra e ti entra nella testa; i tamburi che ti guidano il passo, e forse noi stessi siamo casse di risonanza che palpitiamo in questo cammino. Il guembrì è al tempo stesso strumento a corda e a percussione, è della famiglia dei liuti, con una forma particolare, un manico che sembra un bastone e una cassa armonica che sembra una scatola allungata, di sessanta per venti per quindici. Dovrebbe essere di legno di pioppo, mi pare, e non deve essere mai lasciato incustodito o in luoghi non adatti per non far infuriare i mlūk, gli spiriti.
aLeggo così, in fretta, avido di pormi domande e curiosità che se vorrò poi davvero soddisfare, dovrò lasciarmi guidare dalla pazienza e dalla calma. L’origine della musica, degli strumenti, dei suoni, rinvia alla particolare e complessa ritualità sciamanica Gnaoua, di cui è parte integrante. I rituali di possessione e guarigione, la lunga notte, la Lila, che fa da incubatrice, dove tutto avviene, riemerge insieme e insieme i partecipanti si compenetrano. Non so quasi nulla di queste cose, cerco di registrare indizi che mi spieghino e mi portino oltre i luoghi comuni, nei quali invece tutto si mescola e nulla si distingue, e non è affatto in una mescolanza indistinta che avviene la fusione e compenetrazione della Lila, la sofferenza del passato che viene rivissuta dev’essere qualcosa di reale, che esiste ancora e basta solo evocare, e che va controllata affinché non si ripeta o non sfugga al controllo. C’è tanto da esplorare.
Il festival dedica anche ampio spazio alla riflessione e all’analisi, alla conoscenza e al confronto. L’edizione di quest’anno dedica un forum specifico al tema della diaspora africana. Il titolo è Radici, mobilità, ancoraggi. Tutti i viaggiatori hanno bisogno di ancoraggi, soprattutto quando il viaggio è obbligato e necessario e non è scelto come un sogno di vacanza, come per noi, o come anni fa degli amici tedeschi con cui collaborai ad un bel progetto di intercultura intitolarono un’interessante attività. E poi la musica, questa musica che si lancia alla conquista del mondo, di un mondo da decifrare di nuovo e che ogni giorno è qualcosa d’altro, e porta qualcosa d’altro, da altre tradizioni e storie. Tra gli artisti l’americano Christian Scott accanto al marocchino Maalem Hamid el Kasri, Rachida Talal e tanti altri. Sono diversi i palchi allestiti, il principale nella piazza Moulay Hassan, e poi un altro sulla spiaggia, battuta dal vento ma non disertata, e altri ancora, su un torrione o in altre piazzette. Fiumi di gente che fa la spola avanti e indietro, tra i palchi e i vicoli della città.
Il festival forse va oltre la stessa tradizione da cui nasce, e va oltre la sua città, Essaouira. Ed Essaouira va oltre il suo festival, lo incorpora. La musica la incontri in ogni locale, la città vive in simbiosi con questa musica, in diversi laboratori puoi vedere artigiani che fabbricano strumenti musicali, scaldano le pelli dei tamburi, ci disegnano mani o altri elementi usando l’hennè. Nelle piazzette che si alternano ai vicoli incontri gruppi di musicisti, di 4 o 5 persone, con i grenbì e i crotali, ma anche altri, più numerosi, delle vere compagnie, come confraternite che girano, oppure suonatori ambulanti da soli o più spesso a coppie.
Essaouira sembra una fiera, è un mercato diffuso ovunque, un bazar all’aperto, con i suoi multiformi oggetti, le borse di pelle, i tessuti di lino, i prodotti dell’argan, gli anelli e i bracciali, gli strumenti musicali della tradizione, gli oggetti dell’artigianato, antichi o ripetuti o anche imitati oggi per il consumo dei turisti, tanti ma non così numerosi. Oggetti dell’artigianato  attraverso cui guardare, come oltre uno specchio, storie più lontane, se ancora si riesce a intravederle, o a decifrarle. I mercati sono contenitori di ricordi da valutare e barattare, tracce di memoria in cui ritrovarsi e da ricercare ovunque nell’intrico dei vicoli, veri corridoi aperti sotto l’azzurro denso del cielo.
Azrak, è in Salento che ho trovato questa parola, che mi dicevano di origine araba, per indicare l’intensità del cielo. Sono di nuovo qui e per orientarmi cerco di aiutarmi con quelli che credo siano i miei riferimenti, per gustarmi meglio, credo, questa fiera in cui ci aggiriamo. Ovviamente, sono molti anche i ristoranti, di cui apprezziamo i sapori e le atmosfere, senza perderci nessuna delle variazioni possibili del tajine. Sempre piacevolmente immersi dentro un’umanità assai multiforme, diffusa anche nelle tarde ore della notte. La Lila, un’incubatrice che non taglia ponti ma rievoca antiche sofferenze, per controllarle, tutti insieme, e non subirle ancora. Da quanto tempo, mi chiedo, le strade delle nostre città si sono svuotate, e ciascuno è solo? Se lo isoli lo metti sotto cura, dicevo più sopra, lo disarmi. Le strade qui sono un via vai continuo di gente del posto, e anche di tanti altri da diversi paesi lontani, tra i tanti anche noi turisti, che fingiamo d’essere viaggiatori mentre raccattiamo qua e là impressioni da riutilizzare, comunque, al meglio.
zRitorniamo indietro passando di nuovo da Marrakech, un altro iperspazio, ancora più totalizzante. Qui forse, scusate il gioco di parole, è un’antropologia massimalista quella che ci servirebbe: chissà quali stratificazioni sociali vi sono sedimentate sotto, e in quali forme, quali configurazioni di potere? Al centro c’è la piazza, nella sua variegata vivacità di voci e suoni che si sovrappongono. Anche qui tra i tanti strumenti ci sono grenbì e crotali. C’è un ragazzo con il suo cerchio di persone attorno, che suona tutto da solo, nel senso che da solo suona la chitarra, una sua batteria, canta e quando non canta suona anche l’armonica. Ha addirittura un intero set di armoniche, che cambia a seconda della canzone. Scopriamo che è italo marocchino, ha la madre italiana ed è cresciuto in Italia, poi è partito per il nord Europa, prima di venire in Marocco. Radici, mobilità e ancoraggi, in chiave moderna. È un nostro concittadino, insomma. Dialoga con noi attraverso il microfono, pubblicamente, e poi traduce in arabo per i presenti, quasi una piccola conferenza. Ci canta e suona alcune canzoni italiane. È bravo, non è improvvisato il suo spettacolo. Ci fa ascoltare anche un meticciato musicale italo marocchino arrangiato da lui, chissà come gli è venuto in mente, l’arrangiamento è nuovo e la canzone sembra un’altra, si tratta di “io sono un italiano” di Toto Cotugno: dove è qui il confine tra tradizione e modernità? Mi arrendo, siamo davvero in un altro iperspazio. Chiude la serie di canzoni per noi con una sua composizione, non è solo compositore è anche autore, qui oltre alle musiche ha riarrangiato anche il testo. Le parole cantano di un’Italia corrotta e di parlamentari che pensano solo a se stessi e di giovani italiani che partono per altri paesi d’Europa. La mia battuta è: toh, porta l’Italia nel mondo! Nel ritornello ricorre una domanda “chi ci rappresenterà?” Tutto questo dopo il festival di Essaouira e appena la sera prima del rientro vero a casa, in una piazza Jāmiʿ el-Fnā gremita di gente. Siamo davvero internazionali.

(Guarda QUI le foto dell’amico Giacomo Scattolini)

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Bobby Sands, 5 maggio 1981

Trentacinque anni fa, il 5 maggio del 1981, moriva Bobby Sands, dopo 66 giorni di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, il famigerato Blocco H. Si disse che quello sciopero smosse in profondità coscienze e sensi di colpa, eppure fu affrontato con estrema durezza dal premier di allora, Margaret Thatcher, e dopo di Bobby Sands ne morirono altri 9  in quel carcere – gli Hunger Strike – e per gli accordi di pace si dovette attendere ancora una quindicina di anni.
DSCN0054DSCN0053Bobby Sands nei primi giorni di sciopero, prima del ricovero in infermeria, tenne un diario segreto sui suoi pensieri. Fu pubblicato in Italia con il titolo Un giorno della mia vita. Lo ricordo come una delle letture più intense e coinvolgenti: “Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato.” 
Perché scioperavano? Per mettere fine alle torture e al regime di carcere duro. Chiedevano il riconoscimento di detenzione politica. Con i prigionieri dell’Ira furono sperimentati nuovi sistemi avanzati di tortura. Avevano già iniziato a protestare con altre forme di lotta ma in assenza di dialogo e sottoposti a continui pestaggi avevano deciso lo sciopero della fame, a turno, iniziando uno alla volta. Bobby Sands fu il primo, morirà dopo 66 giorni, dopo di lui ne moriranno altri nove.
Un po’ di anni fa, all’inizio di gennaio, facemmo (con l’amico Giacomo Scattolini) un giro turistico politico da quelle parti, sulle strade della trouble nord irlandese e scrivemmo qualcosa per il settimanale Avvenimenti. Riportai a casa anche un voluminoso diario di appunti, che però utilizzai solo in poche occasioni (per ricordare il Bloody Sunday di Derry). Poco dopo uscì un film su quella storia, Hunger, di Steve McQueen, distribuito Italia solo quattro anni dopo. La prima tappa del nostro viaggio la facemmo a Belfast, diretti proprio alla tomba di Bobby Sands, al cimitero degli eroi, come lo chiamano ancora oggi.
Per ricordare ora quella giornata, e la figura di Bobby Sands come la percepii durante quella visita, riprendo i miei appunti dal diario, solo un po’ riordinati, lasciando le stesse ingenue emozioni del momento:
DSCN0047DSCN0057DSCN0049«È una bella giornata, il sole in cielo non riesce mai ad alzarsi più di tanto dall’orizzonte e così taglia le luci e le ombre in modo forte, saturo di contrasti vivaci anche a mezzogiorno. Il cielo di Belfast, invece, è di un azzurro slavato, ampio, quasi bagnato e leggero, come l’iride di un occhio che vola. Abbiamo camminato e gironzolato 5 o 6 ore, fotografando murals e chiacchierando qua e là lungo la strada, prima di arrivare al Miltown cemetery, dove Fall Road diventa Andersontown e da lì si sviluppa un altro grande quartiere repubblicano, più in periferia, dove sappiamo che ci sono ancora altri murals. L’ultimo tratto di strada lo percorriamo accompagnati da un signore a cui abbiamo chiesto dove si trova la tomba di Bobby Sands. Lui ci ascolta, ci pensa e decide di accompagnarci, approfittandone per raccontarci un po’ di sé e un po’ del luogo verso cui stiamo andando. Non è molto facile intendersi, parla un inglese troppo difficile per noi, e probabilmente anche il nostro inglese è un po’ difficile per lui. Non ci scoraggiamo, bene o male riusciamo a comunicare. Si chiama Peirce, è vestito con un giubbetto leggero, sembra a noi, ha i capelli tra il biondo e il bianco, l’aspetto proletario, gli occhi la stessa iride azzurra degli sguardi leggeri. Scopriremo che allora doveva aver fatto parte di una formazione politico – militare di orientamento socialista, alleata dell’IRA. Entriamo a Miltown. Notiamo che ci sono seppelliti molti italiani, con cognomi in parte oramai in disuso in Italia, morti a Belfast molti anni fa. Ne annoto uno per tutti, ancora molto diffuso nel nostro Sud: Fusco, un cognome che ricorre su più tombe, scopriremo un Fusco anche tra i dirigenti dell’Ira. Il nostro amico ci spiega che alla fine dell’Ottocento vennero qui molti italiani, scultori, artisti, artigiani, scalpellini, soprattutto per lavorare alla costruzione della City Hall, e poi molti di loro sono rimasti a vivere a Belfast. Il cimitero è grandissimo, diverso dai nostri, le tombe e le lapidi sono a terra, molte da quasi un secolo, tante oramai dimenticate, non è più venuto nessuno a rassettare fiori e prato, e così vasti settori somigliano a dei campi incolti, con l’erba alta e malandata, come ricordi rimasti da soli in mezzo al tempo che scorre.
DSCN0063DSCN0060Il cimitero è ampio come il cielo d’Irlanda che lo sovrasta, è posto su una debole collina, di quelle che non stancano il passo, quanto basta per vedere in lontananza la città appena un po’ più in basso, laggiù, e ammirarne l’ampiezza. È tutto un intrico di viottoli, alcuni soltanto di terra battuta o sentieri con erba alta. Sulle lapidi, spesso oltre al nome e alle date di nascita e morte, ci sono anche brevi estratti delle storie o una sorta di referenze, i nomi di persone importanti che hanno avuto una qualche relazione di parentela o collegamento con il defunto. Tra queste cosiddette referenze ci capita più volte di leggere il nome di John Kennedy. Ogni tanto c’è una tomba più nuova in mezzo alle altre più antiche, e così spicca una piccola chiazza di fiori freschi e dai colori vivaci. Anche i colori dei fiori sono diversi da quelli dei nostri cimiteri, riflettono il diverso gusto dei vivi. Da noi prevalgono di più le sfumature, qui la vivacità dei contrasti sembra più decisa, e forse più fresca. Ma c’è sotto un’intenzione che va ancora oltre e così mi accorgo anche della prevalenza di fiori arancioni, che ben accostati con il bianco e il verde tendono, tra le lapidi, a ricreare i colori della bandiera irlandese. Gli stessi colori che abbiamo già visto durante la mattina utilizzati spesso nei murales, nei graffiti, nelle scritte sui muri. I colori della parte cattolica e repubblicana.  Anche la tomba di Bobby Sands è a terra come le altre. Sulla stessa lapide ci sono tre nomi, Bobby Sands, Terence O’Neill e Joe Mc Donnell. Sono loro gli eroi. Sono tutti ragazzi. Vicino c’è la tomba di Kieran Doherty e attorno a loro quelle di molti altri volontari repubblicani, oltre agli  hunger strike anche altri  morti in azione, come è inciso e ricordato sulle lapidi lucide e nere. Bobby Sands aveva quasi la mia età, DSCN0066DSCN0067DSCN0065era appena due anni più giovane. Come me, anche lui inizia la sua vita politica all’età di 18 anni ma a differenza di me incontra sulla sua strada un paese tagliato in due. Oddio, non è che da noi a quel tempo ci facessero comunque mancare le bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni o nelle stazioni, ma era pur sempre un’altra situazione. La prima volta che lo arrestano è perché è in possesso di armi, lo tengono dentro fino al 1976, nel carcere di Long Kesh, meglio conosciuto come il blocco H. Non vede l’ora di uscire per riprendere il suo posto nei gruppi repubblicani. Lo catturano soltanto sei mesi dopo, durante uno scontro a fuoco. Sua moglie si chiama Geraldine ed è incinta di quattro mesi. Lo condannano a 15 anni e lo riportano al Blocco H. Inizia a scrivere poesie.
Nel 1980, all’età di 26 anni,  viene nominato ufficiale dei prigionieri dell’Ira nel Blocco H e il primo marzo 1981 da inizio ad un nuovo sciopero della fame. Nel suo diario scrive: “Poi l’alba arrivò. A poco a poco dalle ombre della notte il mio incubo giornaliero cominciò a prender forma. La sporcizia, i muri sfregiati, gli angoli più nascosti della mia tomba maleodorante mi diedero di nuovo il buongiorno. Restai disteso ad ascoltare il mio respiro leggero e il gracchiare dei corvi. Fuori nel cortile la neve era alta. Lo sapevo fin troppo bene. Avevo passato metà della notte raggomitolato in un angolo, mentre la neve, entrando tra una sbarra e l’altra della finestra, si posava sopra il mio materasso. La noia cominciò a prendermi con le prime luci del mattino. Di lì a poco la giornata che avevo davanti mi sarebbe sembrata interminabile e presto la depressione sarebbe divenuta di nuovo la mia compagna..”
Lo sciopero della fame sarà l’inizio della sua fama, e della discesa verso il mito. L’impatto sull’opinione pubblica, non solo irlandese ma internazionale, sarà notevole. Si interessa a lui anche il nuovo papa polacco di Roma ma il primo ministro britannico, la Lady di ferro Margareth Thatcher, rifiuta il dialogo. Ai primi di aprile si tengono delle elezioni suppletive per sostituire il rappresentante della contea di Farmanagh, Bobby Sands viene candidato come anti Blocco H e il 9 aprile viene eletto con circa 30 mila voti al Parlamento di Westminster, battendo per una manciata di voti il candidato del partito unionista. Sarà parlamentare solo per 25 giorni, morirà in prigione il 5 maggio 1981, dopo 66 giorni di sciopero della fame. Moriranno altri nove detenuti: il 12 maggio Francis Hughes, il 21 Raymond McResh e Patsy O’Hara, l’8 luglio Joe McDonnel, il 1° agosto Martin Hurson, e Kevin Lynch membro dell’INLA, il giorno dopo Kieran Doherty, l’8 agosto Thomas McElwee, il 20 dello stesso mese Micky Devine. Muoiono in 10.
Lo sciopero cessa soltanto il 3 ottobre, dopo 7 mesi. Al funerale di Bobby Sands partecipano più di 100 mila persone. Ci sono manifestazioni in tutto il mondo, anche in Italia. Alla regina Elisabetta riescono a tirare un palloncino riempito di salsa di pomodoro. A Theran cambiarono il nome ad una strada intitolata a Churchil e la dedicarono a Bobby Sands.»

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Il 25 aprile 2016 a Jesi

1234Il 25 aprile ortodosso, che arriva un po’ dopo, mi veniva da scherzare questa mattina, perché a causa delle condizioni incerte del tempo il corteo è partito da un diverso punto del corso cittadino e con un po’ di anticipo, mentre molte persone non informate a tempo erano ancora in attesa di partire, con tanto di bandiere e striscioni, da un altro luogo. Niente male, ne è venuto fuori un corteo doppio, o in due parti, entrambe affollate, a cinque minuti di distanza una dall’altra, che poi si sono ricongiunte davanti alla sede comunale, nel cui atrio era prevista l’orazione ufficiale, introdotta da un intervento non di circostanza ma ampio e articolato del Vice Sindaco. Ancora più ampia, articolata e puntuale l’orazione di Ero Giuliodori, di largo respiro storico e civile, capace di rievocare  e sottolineare la coralità popolare attorno alle vicende e alla storia di allora, e non solo di allora, anche attraverso la citazione di tanti concittadini, di diversa area politica antifascista, che combatterono e morirono durante la Resistenza sui nostri monti, o che conobbero il confino o la galera fascista oppure parteciparono alle prime impegnative fasi della ricostruzione. Molti i temi toccati nell’orazione, con una sottolineatura specifica al valore morale e civile, al ruolo allora e alla attualità ancora oggi della Resistenza, contro qualsiasi sbavatura che periodicamente si affaccia per annacquarne o distorcerne il significato. Il tutto espresso con un linguaggio asciutto ed essenziale, appassionato, incisivo e al tempo stesso sobrio, sempre estremamente chiaro. Pochissimi gli accenni ai problemi dell’attualità immediata di oggi – non nominati o elencati esplicitamente ma che sembravano ugualmente presenti e sottintesi dentro all’impegno civile richiamato – con una chiusura finale dedicata però a ricordare e rendere onore a Giulio Regeni.

Le incertezze del tempo non hanno impedito lo svolgersi nemmeno della manifestazione La memoria va in bici, con i ragazzi delle scuole medie di Jesi e di Moie, un appuntamento importante e già in svolgimento qui in città nel giorno del 25 aprile da alcuni anni. Il programma iniziale mi pare che sia stato ridotto, mantenendo però la visita in bici ai cippi e altri luoghi importanti per la memoria del territorio, spostandosi poi in auto al luogo del pranzo e del concerto.

Il tutto, compreso in un calendario di iniziative più ampio, sviluppato in queste giornate, pubblicizzato e promosso anche con uno specifico appello lanciato nei giorni scorsi in occasione di un’assemblea di associazioni e singoli cittadini per discutere di alcuni avvenimenti di stampo fascista e xenofobo verificatisi a Jesi, e conclusa con l’impegno di “lavorare per creare una rete antifascista tra associazioni, forze politiche, sindacati, movimenti e singoli cittadini allo scopo di progettare iniziative a livello cittadino che coinvolgano, tra gli altri le scuole e i migranti, e che contribuiscano a ricostituire un tessuto sociale sui valori che sono a fondamento della nostra Costituzione.”

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Ha vinto il marchese del Grillo

1Sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che rivendica tutto per sé il successo della vittoria dell’astensionismo, si potrebbe obiettargli che il 30% circa su 51 milioni di aventi diritto significa 15,3 milioni di votanti, e quindi se circa l’80% di questi ha votato Sì, sarebbero oltre 12 milioni le “poche” persone, secondo Renzi, che avrebbero votato contro di lui. Quindi, circa 1 milione di più del tanto vantato 40% ottenuto dal suo partito alle ultime elezioni europee (pari a 11, 3 milioni di voti). Qualcuno potrebbe obiettare che tra gli elettori votanti ci sono anche destre e lega, ma altri potrebbero contro-obiettare che è sufficiente fermarsi a chi ha votato sì, eccetera eccetera.

Intanto, a me verrebbe comunque da sottolineare la stessa cosa che mi venne in mente proprio in quelle elezioni europee, e cioè che il vero vincitore era il “partito dell’astensione”, che in quell’occasione era cresciuto di 6,7 milioni rispetto alle elezioni politiche dell’anno precedente. Con l’aggravante, questa volta, che Renzi si appropria di entrambe, anche dell’astensione. Non è una mia interpretazione, l’ha proprio detto lui. Ha detto che si è avvalso di un diritto della costituzione. Di quale articolo parla? Mi sfugge. Quando l’ho visto in televisione che comiziava subito dopo le 11 di sera, m’è venuta subito in mente quella scena del film “Il marchese del Grillo”, quando dice “Perché io sono io e voi..!”, con la differenza che Sordi riesce comunque a mantenersi simpatico anche nella presa per i fondelli.

Si è trattato – il referendum – di un quesito quasi risibile, soft si potrebbe dire, promosso addirittura da giunte e consiglieri regionali in dissenso con il partito che li ha eletti – una parte dunque di quei milioni di elettori dello stesso 40% di Renzi. Insomma, un fronte referendario assai eterogeneo e anche moderato e tranquillo, nei toni e nei modi, in una campagna elettorale condotta con disparità di mezzi e bruciata in poche battute. “È stata così veloce che quasi non ce ne siamo accorti” m’è venuto da dire introducendo venerdì scorso un dibattito pubblico nella mia città. Con quale spirito ora dovremmo fidarci del novello marchese del Grillo, quando dice che ci penserà lui a risolvere i problemi dell’energia? Noi ne sapevamo poco prima, ma la breve campagna elettorale ci ha comunque  stimolato ad approfondire, perché più che di campagna elettorale m’è sembrato che le persone ci chiedessero d’essere informate e di capire, ma evidentemente sarebbe meglio, secondo lui e secondo gli astensionisti, che riprendiamo di nuovo a saperne poco. Come se l’informazione da sola fosse già di per sé qualcosa di politico e dunque pericoloso: limitiamola magari alle comunicazioni sugli orari di limitazione al traffico per combattere le polveri sottili, tanto per citare un esempio.

M’è sembrata, piuttosto, di una prova generale di abolizione del voto, ma non del voto in quanto tale, bensì soltanto quando non è il marchese del grillo a proporlo, per avere il ritorno di legittimità che lui chiede, ma solo quando lo dice lui e su ciò che vuole lui. Il voto a comando. O anche, si potrebbe dire, a telecomando, parafrasando il sistema di voto delle giurie popolari al festival di Sanremo, o i tanti sondaggi “premi il tasto verde” che ci fanno sorbire tante televisioni ogni giorno.

Abbiamo perso un referendum soltanto perché l’avversario si è rifiutato di lottare, e questo è un paradosso, è come se nel calcio la vittoria a tavolino venisse assegnata alla squadra che si rifiuta di scendere in campo.  È davvero interessante questa nuova democrazia che s’avanza.

Un po’ come mi chiedevo soltanto ieri, in alcune riflessioni scritte su questo stesso blog , ripescando però un lavoro sociologico di diversi anni fa: con quali forme e modalità di partecipazione dovremo confrontarci?  È importante darsi una risposta giusta, cioè che funzioni, nella lunga stagione referendaria che si sta aprendo. Forse non ci sono di mezzo solo i punti individuati al centro dei nuovi quesiti, forse c’è anche un modello culturale di società.

P.S. I risultati definitivi: Hanno votato Sì 13,3 milioni di persone (85,8% dei votanti). Se il numero dei votanti fosse stato più alto, fino alla soglia del quorum, al 50,1%, e tutti i votanti “aggiuntivi” avessero comunque votato No, i Sì sarebbero restati ancora maggioranza, al 52,5%.
Interessante, è davvero il nuovo modello di democrazia, vince chi non partecipa? Sarà così anche al prossimo appuntamento, quello sulla Costituzione? E poi i referendum sociali? Vedremo.
Una curiosità aggiuntiva: nel mio comune ha votato il 38,77% e i Sì hanno raggiunto l’84,5%; in voti assoluti noto che i Sì sono stati circa 1.700 di più dei voti che quattro anni fa furono necessari all’attuale Sindaco per vincere il ballottaggio.

 

 

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La politica (ieri, oggi e …)

2«Nessuno degli intervistati partecipa alla vita politica attiva, neanche quei sette o otto che si dichiarano di sinistra e neanche gli unici due – entrambi iscritti al sindacato – che sono iscritti ad un partito di sinistra, i quali si limitano a partecipare più o meno occasionalmente a iniziative pubbliche. Uno dei due, una ragazza, auspica però una maggiore attenzione del suo partito a “pensare spazi per i giovani e iniziative culturali o sociali, come la presentazione di un libro o di un film, dei dibattiti, degli spettacoli, aperti anche a chi non ha maturato ancora una sua scelta politica, perché non si può pretendere che un giovane maturi da solo un interesse per la politica e poi partecipi direttamente alle riunioni di partito sui temi più strettamente politici”, ed infine spiega che anche a lei sarebbe così più facile partecipare a tali attività.»

Inizia così il capitolo 6, “La politica”, dell’articolo “I giovani, il lavoro e la partecipazione”, che scrissi al termine di un’articolato lavoro di ricerca sui giovani durato un paio di anni, che avevo poi concluso con venti interviste dirette o chiacchierate libere di novanta minuti ciascuna. Mi tornava in mente, questo articolo, un paio di sere fa, al termine di una riunione durante la quale ci ponevamo di nuovo il tema di come rivolgerci ai giovani, e non solo, sui valori di partecipazione, solidarietà, accoglienza, antifascismo, in un periodo in cui le spinte alla chiusura e all’indifferenza – e le tentazioni di strumentalizzazione di chi vuole approfittarne – sembrano sempre più prepotenti (anche se non mancano in giro anche esempi positivi, ma magari sono meno visibili, o meno percepiti perfino da noi stessi).

Dopo aver detto la mia, stavo lì all’incontro ad ascoltare gli altri e mi chiedevo, ripensando alle mie stesse parole, quale sia oggi effettivamente lo scarto tra le nostre percezioni e ciò che davvero sta cambiando nella realtà, concludendo, con autoironia: “sì, dev’esserci qualcosa che continua a sfuggirci!”  Così mi tornava in mente questo vecchio lavoro di ricerca sociale, immaginando che forse ogni tanto varrebbe la pena di continuare ad aggiornarci.
Dimenticavo: il lavoro sopra citato risale a ben 21 anni fa, era il 1995, e i giovani con cui allora chiacchieravo, oggi dovrebbero avere tutti attorno ai 45 – 47 anni; allora, dopo due anni tra questionari e statistiche, avevo deciso di liberarmi scegliendo di dialogare liberamente con appena venti giovani, tutti definibili in modo generico di area di sinistra, anche se tra loro molto diversi, di cui più della metà impegnati o comunque vicini al sindacato, sul loro luogo di lavoro.

Era un’altra era, non si era diffuso ancora nemmeno internet: lo ricordate? Come si comunicava e ci si informava? O forse non era poi così diverso da ora? Ecco un altro passaggio dell’articolo: «Nel totale solo due o tre intervistati -sono tutti delegati sindacali – affermano di leggere i quotidiani tutti i giorni, soltanto un delegato segnala un quotidiano di partito; altri intervistati, tra cui alcuni delegati, leggono i quotidiani soltanto saltuariamente (“non ho tempo, cerco di rifarmi leggendo i settimanali”).
Inoltre, di tutti questi lettori più o meno abituali, solo alcuni preferiscono i quotidiani nazionali, altri i quotidiani locali oppure quelli sportivi. Il mezzo di informazione principale resta la televisione, con i notiziari seguiti spesso assieme alla famiglia (“Sono più informato di ciò che accade tramite la televisione; tanto le notizie che riportano i giornali sono le stesse ascoltate la sera prima in televisione”).
Qualche altro al contrario, a proposito dei mezzi di informazione in genere specifica: “ogni tanto leggo qualche settimanale, i quotidiani poco, mi informo soprattutto ascoltando il telegiornale, ma anche questo saltuariamente, la cronaca non mi interessa molto, gli argomenti principali li seguo, la politica poco”; ed un altro aggiunge: “io non guardo molto la televisione e quindi ho del tempo libero per leggere libri”; ed un altro ancora: “non ho una buona opinione dei giornali, non li leggo, non mi danno niente, leggo solo qualche rivista…».

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«L’aiuto deve aiutare a eliminare l’aiuto», incontro su Thomas Sankara

12345678«L’aiuto deve aiutare a eliminare l’aiuto». È molto semplice e chiara, e molto potente, questa frase di Thomas Sankara, che nel suo discorso per la cancellazione del debito, il 29 luglio 1987 ad Addis Abeba, specificò anche: «Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzati, sono gli stessi che hanno per tanto tempo gestito le nostre economie. Sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa presso i finanziatori, i loro fratelli e i loro cugini. Noi siamo estranei a questo debito, dunque non possiamo pagarlo. (…) Il debito nella sua forma attuale è una riconquista saggiamente organizzata dell’Africa, affinché la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a regole che ci sono del tutto estranee, facendo in modo che ciascuno di noi diventi finanziariamente schiavo. (…) Il debito non può essere rimborsato, prima di tutto perché, se non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno. Possiamo esserne certi. Al contrario, se paghiamo saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi.»

L’incontro è stato organizzato presso l’Istituto Scolastico Federico II di Jesi, da Elena Rondina, Nicoletta Cionna e altre insegnanti, il dirigente e dal Presidente dell’Istituto Giorgio Pittori, i veri  protagonisti però sono stati ragazze e ragazzi delle classi terze, che nei giorni scorsi hanno lavorato con le loro insegnanti e poi questa mattina hanno presentato il risultato della loro ricerca: la biografia del “Presidente ribelle” e alcune delle sue realizzazioni nei quattro anni in cui governò tra il 1983 e il 1987, come la costruzione della ferrovia del Sahel per unire Burkina Faso e Niger, la riforma agraria, il divieto dell’infibulazione, il nuovo codice di famiglia, incoraggiando le donne a ribellarsi al maschilismo, e soprattutto la lotta per la cancellazione del debito. Poi i ragazzi hanno concluso facendoci ascoltare, e cantandola anche loro, la canzone di Jovanotti al festival di Sanremo nel 2000 “Cancella il debito”. Un tema, quello del debito, ancora attuale, e in forme ancora nuove e non solo nei “tradizionali paesi debitori”.

Lo stimolo  per organizzare questa giornata era venuto nei giorni scorsi dalle foto che Marco Cardinali, viaggiatore, ha scattato tre anni fa durante un suo viaggio in Burkina Faso, riportando insieme alle foto anche storie, amicizie e sentimenti da condividere con noi. Le sue foto, già esposte lo scorso ottobre a Jesi in occasione dell’anniversario della morte di Sankara, in questi giorni sono esposte all’interno della scuola e vi resteranno fino al 25 aprile. Oltre a Marco Cardinali, hanno partecipato anche Mahamadi Dabre, Presidente della Federazione delle Associazioni dei Burkinabè in Italia – il quale ha raccontato di aver sentito per la prima volta parlare di Sankara al suo paese quando aveva la stessa età dei ragazzi che oggi lo ascoltavano a scuola, e che proprio grazie alle riforme di Sankara riuscì a  proseguire gli studi – e poi Mariella Pellegrini Kaboré, una jesina che oltre a unire insieme i due cognomi unisce anche le due cittadinanze italiana e burkinabè, e ha parlato ai ragazzi della produzione – indossandone lei uno – dei vestiti di cotone utilizzando il cotone prodotto in Burkina Faso, avviata allora proprio da Sankara. La mattinata è poi terminata bevendo insieme come aperitivo lo ZOOM-KOM, la bevanda burkinabe di zenzero, farina di miglio, limone e zucchero, sempre presente quando ci si ritrova insieme per parlare, condividere storie e stare in compagnia.

Ho avuto anch’io il piacere di far parte  del gruppo di persone che ha incontrato i ragazzi della scuola ed è stato un doppio piacere perché proprio nell’aula in cui eravamo, ben diciassette anni fa, nel mese di aprile come ora, tenemmo un’importante corso di formazione interculturale, nell’ambito di un progetto Comenius, dal quale derivarono poi molte delle attività  di intercultura svolte negli anni successivi, non solo a Jesi ma in tutta la zona, incontrandosi anche con il progetto Agorà (esiste ancora qualcosa in rete, disperso su vecchi siti, riguardo quella esperienza da cui nacque anche l’associazione Casa delle Culture).

Thomas Sankara durante la sua presidenza cambiò il nome del paese da “Alto Volta”, di origine coloniale, in Burkina Faso, che significa la terra delle donne e degli uomini integri. Sankara è una figura purtroppo poco conosciuta in Europa e da noi, ma molto conosciuta invece in Africa e nel centro e sud America, come Patrice Lumumba, Frantz Fanon, Che Guevara, oppure José Martì che Thomas Sankara citò all’inizio del suo discorso alle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1984, un discorso giudicato scandaloso dai potenti di allora tanto che il presidente Reagan lo escluse dalla lista degli invitati alla Casa Bianca, ma lui non si perse d’animo e si recò ad Harlem dove venne accolto in modo memorabile e pronunciò la celebre frase: “La nostra casa Bianca è l’Harlem nero.”

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21 marzo 1950, Lentella

cop2L’erba dagli zoccoli, Tullio Bugari, Vydia editore

Il 21 marzo è l’anniversario dell’eccidio di Lentella, avvenuto nel 1950, durante l’ultima stagione delle grandi lotte contadine del nostro paese. Uno sciopero alla rovescia, per costruire una strada, che si concluse tragicamente: nel momento di massima tensione i carabinieri, armati di moschetto, aprirono il fuoco sulla folla uccidendo Nicola Mattia e Cosmo Mangiocco, di 41 e 26 anni, ferendo anche molte altre persone. La Cgil proclamò in segno di protesta uno sciopero generale nazionale di 48 ore, la più grande manifestazione fino ad allora convocata.

Le vicende di quei giorni sono raccontate nel primo racconto che apre il mio libro L’erba dagli zoccoli, una cronaca di sentimento prima ancora che storica, per ricordare una delle tante pagine importanti di quegli anni duri del dopoguerra, quando in tanti, contadini senza terra, braccianti, mezzadri, e poi disoccupati, operai, giovani, donne e uomini, hanno davvero tentato di ricostruire l’unità del paese dal basso, da sud a nord e da nord a sud in tutte le regioni, esponendosi in prima persona per una società più equa e una vita più dignitosa.

Ho conosciuto questa storia grazie agli amici dell’Arci di Vasto, quando due anni fa sono sceso con il mio precedente libro In bicicletta lungo la Linea Gotica. «La mattina dopo  – scrissi allora sul mio blog –  ho avuto l’occasione di visitare Lentella. Racconterò questo viaggio e degli eventi che accaddero qui il 21 marzo 1950, con più calma, perché fa parte di un altro lavoro che richiederà ancora del tempo.»  Avevo già deciso, appena rientrato da quella visita, di sviluppare l’argomento ma ancora non avevo capito nemmeno io che da lì, da quella storia, sarei partito per trovarne anche altre, simili e accadute nello stesso periodo, che poi avrei raccolto in questo libro, il cui titolo è estratto dal monologo di Carmine Donatelli Crocco, dallo spettacolo La storia bandita.

I tempi “tecnici” di editore e tipografia hanno fatto sì che il libro fosse fresco di stampa proprio per la vigilia di questo anniversario, e dunque fosse possibile presentarlo per la prima volta proprio a Lentella, domenica prossima 20 marzo 2016, alle ore 17.30, nell’ambito della manifestazione che come ogni anno in questa occasione il Comune di Lentella organizza. Non poteva esserci occasione più adatta e più gradita per me che essere reso partecipe di questa importante serata.

(Immagine di copertina da un disegno di Ezio Bartocci della serie “Entroterra”)

(per informazioni sul libro: lerbadaglizoccoli.wordpress.com/)

 

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Quanto ci riguarda “la feccia”? Note etnopsichiatriche sulla cultura e sui suoi sembianti

NewsExtra_163150Ritengo utile riproporre la lettura di un interessante articolo di Simona Taliani pubblicato sul sito dell’Associazione Frantz Fanon, che mi piace dunque “archiviare” qui in questo blog, insieme ad alcune altre mie riflessioni, assai più estemporanee di queste, che nel corso dell’anno mi è capitato di fare  (It was a dark and stormy night…) ma poi non ho ripreso per approfondirle, anche se avevo iniziato a “prendere appunti” ( “In piedi, dannati della terra”); aggiungo ora a questo articolo e queste note anche un accenno al libro “I giorni ebbri” dello scrittore siriano Sa‘dallah Wannus, una riflessione letteraria molto interessante e piacevole da leggere, e che mi riporta a questi temi, di cui è disponibile in rete l’introduzione di Eleonora Catalli .
(la foto inserita l’ho ripresa da un articolo sulla rivolta delle banlieus pubblicato su globalist)

QUANTO CI RIGUARDA “LA FECCIA”?
Note etnopsichiatriche sulla cultura e sui suoi sembianti
di Simona Taliani
Abbiamo atteso qualche giorno, subito dopo Parigi, nel tentativo di pensare a quanto ciò che era accaduto ci riguardasse da vicino. Gli eventi ci hanno incalzato. In Nigeria, in Iraq e ora di nuovo in Mali, nella tranquilla Bamako, e poi ancora ieri nel nord del Camerun (pochi giornali riportano la notizia dei dieci morti a Nigue, sobborgo di Fotokol, nell’estremo Nord del Paese), a Tunisi. Ancora.

L’esplosione c’è dunque stata. Ora, tutto ci riguarda e, se possibile, con ancora maggior violenza.

Se ci fossimo fermati alla cronaca di mercoledì 18 novembre cioè di quanto accaduto a Saint Denis, avremmo scritto che quel dipartimento non era un quartiere tra gli altri per chi si occupa di etnopsichiatria. Proviamo a seguire quel filo anche ora, anche dopo quanto accaduto a Bamakoe a Tunisi o a quanto sta accadendo in questo momento o accadrà domani, in qualche mercato, strada, vicolo di città nota o di cui potevamo un tempo ignorare il nome e la posizione sulla mappa geografica. Proviamo a tenere insieme la “feccia” (“la racaille”) della banlieu parigina – come veniva ribattezzata dall’allora ministro degli interni, Nicolas Sarkozy, la giovane generazione che aveva messo a ferro e fuoco proprio il 93esimo dipartimento dopo la morte di due adolescenti francesi, le cui famiglie erano certamente di origine straniera – con la feccia che circola in Mali dal 2011, subito dopo l’invasione della Libia, in Nigeria, in Siria, in Somalia. Con la feccia che va oggi a piede libero ovunque, nel Mediterraneo e oltre.

Bobigny, Aubervilliers, Saint Denis sono i luoghi dove negli anni ’90 prese forma quel laboratorio di etnopsichiatria che ha fatto tanto discutere in Francia. Lì c’era, infatti, il Centre Georges Devereux (oggi spostatosi nel cuore di Parigi, così vicino ai luoghi degli attentati del 13 novembre). Qui, il tasso di criminalità è il più alto della Francia e ormai abitare nel 93 è un marchio sociale.
Il sindaco di Saint Denis, Didier Paillard, ricordava che nella cittadina abitano persone che hanno 130 nazionalità diverse: un agglomerato, dunque, tutt’altro che monocromatico né tantomeno omogeneo. “Qui manca il lavoro, oggi come nel 2005, qui c’è la povertà e ci sono meno servizi che a Parigi. A settembre scorso 150 bambini erano senza insegnanti. Come può essere ancora possibile tutto questo?”. Qui sono nati Cherif e Said Kouachy, i due fratelli protagonisti dell’attentato a Charlie Hebdo; qui è cresciuto il loro complice, Ahmedi Koulibaly; e da Drancy viene Samy Amimour, una delle persone che si è fatta esplodere al Bataclan il 13 novembre.

Il 93esimo dipartimento non è un ghetto nei termini pensati da Tobie Nathan che, da francese la cui famiglia era di origine ebrea e aveva vissuto per qualche anno in Egitto, forse aveva sempre avuto in mente più quei ghetti che non le nuove forme di esclusione sociale dello Stato neoliberale. Riprendiamo, per esteso e con calma, il passaggio che fece gridare allo scandalo (dell’etnopsichiatria) non pochi antropologi e psicanalisti alla fine degli anni ’90, quando Tobie Nathan forte e chiaro proponeva la soluzione del ghetto per le famiglie straniere immigrate in Francia.

“Quale pazzo demiurgo, quale alchimista delirante ha immaginato che una famiglia avrebbe potuto, nello spazio di qualche anno, abbandonare un sistema che ha assicurato la sua omeostasi psichica da generazioni, come si dice “adattandosi” o “integrandosi”? Lo so per esperienza che ciò è impossibile! Nelle società a forte emigrazione, bisogna favorire i ghetti – sì, lo dico forte e chiaro – favorire i ghetti perché nessuna famiglia sia obbligata ad abbandonare il suo sistema culturale. Non per ragioni morali, ma per il costo sociale che questa rottura scatena nella seconda generazione. Bisogna permettere alle famiglie di stare a lungo, e per tutto il tempo necessario, nelle loro logiche culturali. Solo in questo modo i bambini una volta adulti, essendo stati immersi in un mondo coerente, si avvieranno così sostenuti verso la società d’accoglienza, per amore – sono generalmente le passioni amorose che fanno abbandonare la propria cultura – e con l’unica preoccupazione di creare. Risparmieremo così alle seconde generazioni, molto più di quanto non siamo capaci di farlo oggi, di cadere nella delinquenza, nella tossicomania o peggio ancora nell’ideologia: che sono tutte e tre dei sembianti di cultura più accessibili perché semplificati e piatti. Certo, perderemo oggi qualche cittadino ma guadagneremo domani dei figli che verranno alla nuova cultura per arricchirla, e non abitati da una rabbia di annientamento”, scriveva in L’influence qui guérit (2004, pp. 216-217; i corsivi sono nostri).

Non c’è tempo ora per dire qualcosa di quello che sembra a tutti gli effetti un lapsus calami, dal momento che la Francia di quegli anni era una società a forte immigrazione, non emigrazione. E sarebbe fuori luogo, ora, mettersi a commentare le ragioni della critica alla sua posizione, sul rendere cioè la banlieue parigina o lionese dei ghetti monoculturali contro ogni forma di multiculturalismo spicciolo (che poi in effetti è quello che si è effettivamente realizzato). Sono note le aspre parole di Didier Fassin, che di quel lungo passaggio prende solo ben poche righe, scagliandosi contro le politiche dell’etnopsichiatria à la Nathan (“Classica misura di protezionismo culturale”, anticamera dell’apartheid, concludeva ne L’influence qui grandit, 1999, p. 153).

Certamente il 93esimo dipartimento è un ghetto nella misura in cui è una zona d’iniquità e di non-diritto; un territorio di privazione e derelizione, dove abitano “minoranze disonorate e immigrati indesiderabili”(Loïc Wacquant, Pariasurbains, Ghetto, Banlieu, État, 2005). Questo era chiaro anche a Nathan quando scriveva dei pazienti e delle loro famiglie di Saint Denis e dintorni: non si può onestamente sostenere che non vedesse cosa accadeva fuori dal Centro, nelle strade di questa periferia urbana (Dieu-dope. Un solo Dio, la droga – uno dei suoi primi romanzi – non è poi così lontano nella rappresentazione che dà della vita dei banlieusards da quanto ha fatto Kassovitz con La Haine, pellicola che esce per altro nello stesso anno del libro). Perché allora abbia insistito tanto sul peso della cultura nell’impostare una cura resta per certi aspetti e per molti studiosi un rompicapo (a cui fa per altro eco quello affrontato qualche decennio prima da Michele Risso e Wolfang Böker nelle periferie e nei grandi capannoni di Berna, dove si ammassavano lavoratori italiani immigrati nella Svizzera del dopoguerra). Nessuno di questi colleghi ignorava la dimensione sociale della sofferenza, eppure da terapeuti tentavano di guardare a come curare chi soffriva non restando intrappolati nell’unica interpretazione socio-economica possibile, quella di classe.

Forse, però, se partiamo dall’idea che questi spazi sono attraversati da minoranze disonorate e non solo indesiderate … l’espressione di Wacquant non va affatto lasciata cadere.
Senza voler in alcun modo comprendere i Cherif e gli Ahmedi che non hanno smesso di odiare il luogo dove sono cresciuti né attribuire ogni “colpa” all’Occidente imperialista nella sua espansione e dominio sul mondo, il disonore vissuto da coloro che crescono in queste periferie di degrado ambientale e dissoluzione sociale deve continuare a interrogarci. Non a caso, forse, Nathan parlava nel 1994 di “atti di guerra” da parte delle Istituzioni e dello Stato contro quei quartieri e questi “figli di Francia” a cui si chiedeva di mettere nel dimenticatoio degli attrezzi ormai inutili poetiche e politiche della “cultura”dei loro genitori (come intendere la “cultura” se non, molto semplicemente, il processo di costruzione della realtà interna ed esterna: ciò che permette a ciascuno di interpretare il mondo ed agire in esso?). Assistiamo dunque ad una infame forma di “violenza di ritorno”? L’esplosione alla fine c’è dunque stata.

Questi agglomerati pericolosi, ricettacoli di violenza (di “foyers de violence” parla Wacquant), sono dentro la città, pensati fin dall’inizio come parte esclusa della città, ma mai per davvero fuori di essa. Non nascono come spazi di eccezione; non proliferano arbitrariamente né casualmente. Ve ne sono molti anche in Italia, in queste stesse ore. Ve ne sono a Torino, e crescono rapidamente. Sono il prodotto di una certa visione del mondo e di precise politiche delle amministrazioni pubbliche.
La responsabilità rispetto a che cosa sia curare attraverso le poetiche e le politiche delle culture, di cui l’individuo si nutre e con cui nutre i suoi sogni e i suoi peggiori incubi, si sente addosso con maggiore forza. Ci incalza e ci spinge a uscire dagli sterili posizionamenti accademici. Ci obbliga a reinterrogare le politiche dell’etnopsichiatria, e l’atto di cura che si esercita su un soggetto che, seppur ai margini della Storia, è pur sempre un bagliore, che tentiamo di non far diventare agonizzante. Curare il “male africano” (come un giovane nominava solo la settimana scorsa la malattia di cui soffre da mesi) o il susto richiede la consapevolezza storica del terapeuta, prima ancora che del paziente, perché non ci si senta autorizzati (ancora di più oggi) a proporre la cura come forma di abdicazione: incorporazione lacerante di alienazioni su alienazioni.

La feccia che ha invece già deciso di uccidere, quella, è l’irrecuperabile della Storia e benché essa sia un prodotto storico – le cui origini possono trovare ragion d’essere anche nelle politiche occidentali o nello smembramento di istituzioni familiari, ormai allo stremo – resta il fatto che ci sono uomini e donne che decidono di entrare in quadri prestabiliti, iperdeterminati dalla Storia e dalle sue perversioni.
Questi uomini e queste donne stanno dall’una come dall’altra parte, le politiche criminali e “terroriste” non sono appannaggio di un solo schieramento. Ci sono. Vanno riconosciuti. Vanno nominati. Se possibile fermati, portati a giudizio, impossibilitati ad agire ancora. Il timore è che non ci sia nessuno dei potenti all’altezza del compito storico a cui siamo obbligati a rispondere.

Non è mai stato urgente quanto adesso un pensiero sull’alterità che sia capace di guardare lontano: che sia capace di non appiattirsi sulla retorica del meticciato. La parola “alterità” è guardata con sospetto da alcuni, con incomprensibile repulsione da tanti. Vogliamo poterla assaporare in tutte le sue promesse, verso un futuro dove non ci sia più bisogno di disonorare, umiliare, ridicolizzare lo scarto, il residuo, il resto che rimane dopo le letture sociali, politiche, economiche. Nell’intimo di una stanza, fino a quando ci sarà permesso, questo è il compito che ci accingiamo a risolvere, di qui ai prossimi mesi.

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Contadini e fotografi, ricordando Melissa (1949)

973_me_n_a01_b185_05 “Io devo l’ispirazione più profonda al mio lavoro di pittore alla consuetudine di vita, dei contadini della Calabria in particolare e di quel piccolo paese dell’antico marchesato di Crotone che ha il nome Melissa. In questo paese, voi ricordate, sono ormai quasi vent’anni, caddero sul feudo di Fragalà due contadini poveri e una giovane donna, in quel grande movimento di occupazione delle terre incolte, guidato dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori”.
cd1072Sono parole del pittore e fotografo Ernesto Treccani, dal saggio Arte per amore, del 1973.  Una delle località a cui Treccani si è maggiormente legato è Melissa, nel marchesato di Crotone, nota alle cronache, per chi è attento a questo tipo di storie d’Italia sempre più dimenticate, dell’eccidio del 29 ottobre 1949, durante un’occupazione di terre non coltivati dei tanti latifondi della zona. Muoino tre persone: Angelina Mauro, Giovanni Zito e Francesco Nigro. La violenza e il clamore di questo eccidio fa quasi dimenticarne un altro, accaduto appena il giorno prima a pochi chilometri da qui, a Isola di Capo Rizzuto, dove è rimasto ucciso il sindacalista Matteo Aceto.
In questi giorni cade il 66° anniversario: sembra tantissimo, come se parlassimo di un’Italia precedente. Fu una delle tante occupazioni e delle tante lotte contadine degli anni del dopoguerra, e anche purtroppo uno dei tanti eccidi e fatti di repressione di quelle lotte, che coinvolsero ogni regione d’Italia, ciascuna con le sue specificità, dai grandiosi scioperi dei braccianti alle mobilitazioni per il superamento della mezzadria, agli scioperi a rovescio per far applicare l’imponibile di manodopera e avviare lavori di miglioria di utilità pubblica.
Furono molti anche i fotografi, e non solo i fotografi, che in quegli anni seguirono e documentarono questa Italia battagliera, che faceva di tutto per non rassegnarsi, e anche Italia di “passaggio”, nel senso che di lì a poco fu comunque obbligata a prendere la via delle grandi migrazioni verso le miniere e le fabbriche del nord Europa e del nord Italia, o verso le città in genere, con l’abbandono delle campagna e il venir meno di un intero mondo.
Cercando in rete le foto e le immagini di Ernesto Treccani mi sono imbattuto per caso nel blog di un fotografo di oggi, Federico Barattini, che non conoscevo, e nella sua documentazione di una nuova realtà agricola odierna, quella di Mondeggi nel centro Italia, che ugualmente non conoso ma che mi sembra di buon auspicio legare insieme a questi ricordi; così come sono legati nel blog citato, dove alla galleria fotografia di “oggi” segue una galleria fotografica di “ieri”, nella quale la prima di queste foto è un ritratto di Rocco Scotellaro, seguito da una foto dei braccianti di Montescaglioso (Matera) e poi di un manifesto della Cgil per commemorare l’uccisione di Giuseppe Novello: apertura più che giusta per una galleria fotografica sull’argomento; seguono poi numerose foto di Ernesto Treccani su Melissa e alcune altre, di altri fotografi da altre zone d’Italia, sempre negli stessi anni.

È sempre importante ricordare il passato? All’eccidio di Melissa dedicò una canzone anche Lucio Dalla, nel 1973, ventiquattro anni dopo i fatti, intitolata Passato Presente: “Il passato è un fuoco che brucia i pensieri”, recita uno dei versi, a cui risponde: “il presente è un aratro che scava dentro il cuore”. Sono trascorsi più di quaranta anni dalla canzone, sembra ancora di oggi.

La foto riportata in alto è appunto di Ernesto Treccani, con i contadini di Melissa nel 1950, così come il quadro “La lunga strada”, del 1951.

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Thomas Sankara, il Presidente ribelle

«Burkina Faso significa “terra degli uomini integri” e fu questo il nuovo nome dato al paese dal Presidente Thomas Sankara il 4 agosto del 1984, al posto del vecchio nome neocoloniale “Repubblica dell’Alto Volta”, che aveva ricevuto dopo l’indipendenza dalla 24 3Francia nel 1960.»  Mi ricorda queste cose Marco Cardinali, viaggiatore fai da te, dalle innumerevoli e altrettanto appassionate mete, che nel suo girovagare ha voluto legarsi anche alla storia del Presidente Thomas Sankara, ucciso all’età di 38 anni, il 15 ottobre 1987.
In questi giorni, in occasione dell’anniversario, Marco ha voluto ricordarlo esponendo al palazzo dei Convegni di Jesi le foto da lui scattate in Burkina Faso negli ultimi anni. Persone, volti, curiosità naturali, case e villaggi, colori e tanti ritratti, davvero tanti primi piano, a rispecchiare, credo, il suo modo di viaggiare e entrare in contatto diretto con chiunque. E poi pannelli informativi sul Presidente Sankara, poco conosciuto da noi eppure molto importante per le lotte dei paesi del sud del mondo, o forse oggi giorno è più pertinente chiamarle le periferie del mondo. Un personaggio invece da conoscere e ricordare, come Che Guevara, Franz Fanon, Ken Saro-Wiwa, Chico Mendes e tanti altri.
Una iniziativa forse poco notata in città, e una mostra forse semplice nella sua fattura eppure efficace quella che Marco ha proposto qui al Palazzo dei Convegni, nel senso dell’immediatezza e della spontaneità, senza chiedersi tanto se fare o non fare e come e quando e con chi e perché, intanto facciamola, che richiede già molto impegno e passione, per valorizzare questo paese e attraverso il suo paese ricordare questo uomo importante, e le storie e le lotte da lui sostenute, per l’azzeramento dei debiti dei paesi africani nei confronti degli Stati Uniti e dei paesi europei.
Thomas Sankara fu ucciso il 15 ottobre 1987, insieme ad altri suoi collaboratori, durante un colpo di stato militare appoggiato da Francia e Stati Uniti. Tutte le foto sono esposte con brevi didascalie, frasi di Thomas Sankara o altri pensieri sull’argomento e sul paese, raccolte da Marco e firmate “Associazione culturale Sun Human Family”, il titolo del progetto, per un percorso e un interesse che continua.

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“Più di quel che avanza”

Piudiquel“Più di quel che avanza” di Francesca Romana Capone. Mi ha incuriosito molto la lettura di questo romanzo che mi viene da definire “pittorico” o “materico”. L’io narrante è una restauratrice che a sua volta, all’improvviso, si ritrova nella condizione di un quadro da restaurare, e il restauro è presente non solo o non tanto come metafora della sua condizione ma vero filo conduttore, tessuto e trama sottostante l’intera narrazione, e anche oltre ciò che appare direttamente dalla narrazione.

E non è nemmeno un quadro qualunque quello da restaurare, nel senso di una tecnica ripetitiva e da applicare meccanicamente sempre allo stesso modo, bensì è la somma di tanti quadri ciascuno con una sua storia e un suo sistema semantico, di relazioni e nuove prospettive con cui il restauratore entra in relazione.
E tra i tanti quadri che la protagonista richiama alla memoria, mentre rovista tra i propri pensieri, in particolare colpisce la mia attenzione un”gobbo” di Burri, cioè qualcosa di unico che va oltre il quadro: “Ho rotto un sistema di spinte e controspinte che non potrà più ricostituirsi, perché la sua forza era tutta nella fragilità di quel bilanciamento”.

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La casa di Ghilarza

cameraLa casa di Ghilarza era della madre Giuseppina; Antonio Gramsci – Nino, come era chiamato in famiglia – aveva circa sette anni quando vi si trasferirono. Non è esattamente la sua casa natale ma è qui che visse gli anni della maturazione. Quando si trasferì a Torino per frequentare l’Università, grazie ad una borsa di studio, era già socialista e già giornalista. In questa casa ritornò, qualche volta, per far visita alla madre. Ora il luogo è una casa museo, per onorarne la memoria. Provo sempre una strana emozione quando ho l’occasione di trovarmi in luoghi che testimoniano questi passaggi di vita, ove sono custoditi alcuni oggetti e mobili,  le sue lettere, alcuni dei libri da lui letti allora, documenti della sua vita. In uno di questi, leggiamo che Nino scriveva a casa da Torino, nel periodo universitario, e chiedeva di controllare sul posto la traduzione e il significato di alcune espressioni in sardo logudorese: doveva consegnare una tesina e voleva essere sicuro di evitare imperdonabili imprecisioni. L’attenzione per la vita attraverso le sue parole. La caparbietà di un’intera vita. Tra gli oggetti esposti nella casa occhialidi Ghilarza, mi ha emozionato in particolare un astuccio con degli occhiali da vista. E poi un modellino di legno di un carretto sardo, che Nino aveva costruito per mostrare a suo figlio Delio i carri della sua terra. Nella sua breve vita colma di impegno, trovava anche pause di tempo come queste, a costruire giocattoli, ed era anche un bravo artigiano, oltre alla testa sapeva usare bene anche le mani. E poi le lettere, carissima Giulia…  carissima mamma… e altre anccora. Qualche tempo fa avevo avuto modo di apprezzare il Gramsci privato, ricostruito da Lucia Tancredi attraverso lo sguardo della moglie, nel bel romanzo “La vita privata di Giulia Schucht”.  Nella casa c’è anche una camera da letto, ricostruita con l’essenziale recuperato anni dopo, ma è un microcosmo quell’essenziale, con una finestra che dal primo piano si affaccia sul cortile interno , dove allora c’era al piano terra, se ho ben capito, una cucina o il luogo dove impastare il pane. Di fronte, guardando dalla finestra, un tappeto di foglie sull’interno del muro che chiude il cortile. Nella sua biografia è scritto che da ragazzo facesse vita molto appartata, immerso nella lettura e nello studio. Poi andò a Torino, all’università e nel caldo dei consigli di fabbrica, e a Mosca, e deputato a Roma… e poi i lunghi anni di carcere, di nuovo chiuso ma esposto e nudo di fronte alle durezze del mondo perché separato dagli affetti della sua casa, non isolato però ma legato al mondo attraverso i suoi studi e i suoi scritti. L’attenzione per la vita attraverso le sue parole. Tra le poche cose che ho letto della sua vita, una di quelle che più mi ha colpito, ancora più dell’ampiezza degli argomenti a cui si applicava, è quando parla del suo metodo di lavoro. Non smise mai di pensare, e di dare una direzione umana ai suoi pensieri. Il giorno prima della sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, nel nord della Spagna nei paesi Baschi era stata bombardata la città di Guernica, un colpo molto duro alla giovane repubblica spagnola e al movimento proletario internazionale. Credo che Gramsci non abbia avuto notizia di questo doloroso fatto, perché era già entrato in coma il giorno precedente per un’emorragia cerebrale, il 25 aprile. Aveva 46 anni. Lo avevano arrestato all’età di 35 anni, poco prima che nascesse il suo secondo figlio, che non vide mai.  Quando morì, era ricoverato in clinica e agli arresti domiciliari già da qualche anno, per le gravi condizioni di salute, aveva però continuato a studiare, seguitare le sue ricerche, e a scrivere, fino all’ultimo momento in cui gli era stato possibile.

 

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Il sentiero della transizione

Schermata-2015-06-22-alle-10.25.34Note a margine personali, sfogliando il libro “Verde Cortina, da Lubecca a Trieste sui confini della guerra fredda”, di Matteo Tacconi e Ingazio Maria Coccia, Capponi Editore, chiedendomi: dove “la cortina di ferro” incrocia “la rotta balcanica”?

“Sankt Margarathen im Burgenland Non è solo cave e lirica. C’è una dote storica più recente. che merita di essere raccontata. Tra la fine dell’estate e la prima parte dell’autunno del 1989 questo centro urbano vide transitare molti tedeschi dell’est. Erano in vacanza in Ungheria (la gente dell’est villeggiava nei paesi comunisti fratelli) e proprio in quei mesi s’aprì ilconfine con l’Austria. In tantissimi si riversarono dall’altra parte e trovarono, passando anche da Sankt Margarethen e risalendo in treno fino a Vienna, la via della Germania Occidentale. La molla che fece scattare quell’esodo fu il “pic nic paneuropeo”, iniziativa lanciata il 19 agosto di quell’anno dall’opposizione ungherese, ma appoggiata dai comunisti riformisti al potere a Budapest, decisi a percorrere il sentiero della transizione e a sbarazzarsi della cortina di ferro.”

Scrive così Matteo Tacconi in  “Verde Cortina”.  Un reportage giornalistico e fotografico viaggiando lenti e dentro ai territori, per condividirli, dove ai testi di Matteo Tacconi si alternano, viaggiando insieme,  le foto di Ignacio Maria Coccia. Testi e foto che si guardano attorno insieme, senza commentarsi tra loro ma procedendo autonomi come due sguardi che esprimono  ciò che scrutano, e scoprono, usando ciascuno il proprio linguaggio. E probabilmente c’è ancora molto da scoprire: m’immagino sempre che chi compie esperienze come queste continui a scoprire cose nuove anche dopo, per anni, ogni volta che qualcosa gli offre la possibilità di tornare a quel viaggio, a ciò che si è scritto, visto, fotografato, e non solo perché non mai è possibile esaurire tutto in una volta sola ma anche perché quei luoghi, quelle ampiezze nello spazio e nel tempo, nel frattempo non stanno lì ferme ma continuano a muoversi. Di alcuni di questi significati, delle scelte del viaggio e all’interno del viaggio, delle foto scattate da Coccia, della storia di ciascuna e dietro ciascuna, dell’insieme del lavoro e del progetto, se ne è parlato qualche sera fa alla Biblioteca La Fornace di Moie, in una serata organizzata dal locale Fotoclub. O ne parlano nelle due introduzioni al libro Mara Gergolet e Renata Ferri.

A me stesso è venuto da chiedere, durante l’incontro in biblioteca, se durante il loro viaggio avessero percepito di più la sensazione del confine o della centralità. Mi sembrava una domanda perfino retorica e invece dalla risposta ho scoperto che queste due dimensioni dialogano tuttora fortemente tra loro.

Già prima dell’incontro, chiacchierando, ci era venuto da chiederci: dove “la cortina di ferro” incontra “la rotta balcanica”? E allora io stesso ci sono ritornato dopo, a casa, sfogliando di nuovo il libro, andando a cercare proprio il brano che ho citato sopra, e che qualche riga più avanti prosegue:
“Nei giorni successivi, migliaia di tedesco-orientali, molti dei quali accampati sulle rive del lago di balaton, furono raggiunti dalla notizia della fuga e accorsero nel distretto di Sopron. Tentarono di passare in Austria, ma vennero respinti. La situazione si fece abbastanza tesa. Finché Budapest, l’11 settembre, capì che tutta quella gente non poteva essere fermata.”

Sopron, se si guarda una mappa sembra quasi un’enclave, una lingua di terra ungherese che si aggancia dentro l’Austria, come se quei confini non dovessero mai sganciarsi. È sempre da qui che in questi giorni stanno passando e stanno tentando di passare migliaia di siriani, sotto gli sguardi delle telecamere di tutto il mondo (“Quel maledetto treno per Sopron” scriveva qualcuno), una spettacolarizzazione della fuga che nell’89 raggiunse la stessa intensità mediatica soltanto quando due mesi più tardi venne abbattuto il muro a Berlino. Allora uno spettacolo di festa, oggi il festeggiamento lo abbiamo visto solo chilometri dopo, all’ingresso dei fuggitivi alla stazione di Monaco. Magari applauditi dagli stessi tedeschi che ventisei anni prima erano riusciti a fuggire proprio dalla stessa via, lungo il sentiero della transizione.

Ecco dunque che confine e centralità, quando ci pareva di poterli distinguere, capita che invece si mescolino ancora, in questo momento, sotto i nostri occhi, e dunque abbiamo ancora molto da scrutare, esprimere, cercare da vedere. Ecco dunque che quella domanda: dove  “la cortina di ferro” incrocia “la rotta balcanica” non è poi così retorica o da giocarsi con una battuta ma si apre a significati che non è facile fronteggiare, richiedono tempo, di immergersi dentro come i due autori hanno fatto percorrendo la ex cortina di ferro. Non voglio aggiungere altro, se non una breve citazione dall’introduzione che Renata Ferri dedica in particolare alle foto: “Si osservano carri armati abbandonati sul ciglio di strade deserte, militi ignoti che sorgono dalle nebbie, stazioni e incroci ferroviari dove sembra che nessun treno sia più passato da anni. Dove siamo? Che anno è?”

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Una serata sull’aia, con la luna piena (2 Ruote di Resistenza)

Senza titolo2 Ruote di Resistenza. Alla fine, dopo tanta indecisione sullo spazio da utilizzare – se il fienile ristrutturato, più raccolto e più suggestivo, o il palco, che del resto era anche già pronto – abbiamo scelto l’aia di fronte alla casa, per la serata con Nica Mammì e Daniele Contardo, “2 Ruote di Resistenza, alla ricerca del popolo che manca”, perché in fin dei conti è proprio l’aia dove si riunivano le nostre generazioni precedenti – veniamo tutti dalla campagna – per le feste più importanti o per la raccolta dei prodotti nei vari momenti del ciclo annuale. Era l’aia il cuore della vita in campagna, il luogo dove tutto confluiva o da dove tutto partiva.

3Il luogo era reso ancora più suggestivo, l’altra sera (sabato 29 agosto), da una bella luna piena sorta al momento giusto proprio davanti alla casa: Nica e Daniele, lanciati come due cantastorie, alternando l’oralità alla musica dell’organetto, con le loro biciclette appoggiate un poco più in là, potevano vederla alta di fronte come a chiudere l’aia, e le tante persone raccolte attorno a loro per ascoltarli potevano sentirla rassicurante alle proprie spalle.

“Alla ricerca del popolo che manca”: fin dalle prime battute, il racconto del loro viaggio in bicicletta attraverso l’Italia, da Bussoleno in Valsusa fino a Diamante in Calabria, si è intrecciato con le tante storie raccolte anche da altri prima di loro, a iniziare da Nuto Revelli, con diverse citazioni dai suoi libri e dalle sue Langhe. E poi altre storie, tratte dal tempo e dai tempi che ci hanno preceduti, quelli delle nostre origini, e tratte dai diversi luoghi attraversati nel viaggio, tutti partecipi, ciascuno con la sua unicità di esperienze di vita, della stessa cornice storica e popolare. Come le lotte dei contadini nel dopoguerra, ricordando in particolare quelle dei contadini siciliani, calabresi, lucani e pugliesi, con gli eccidi di Melissa, Torremaggiore, o il ruolo condiviso anche dalle donne, sempre in prima fila in quelle lotte, come ad esempio Angelina Mauro, uccisa a Melissa nel ’49 o Giuditta Levato, uccisa a Calabricata nel ’46. È stata letta la poesia che il poeta e sindaco contadino Rocco Scotellaro dedicò a Giuseppe Novello, ucciso a Montescaglioso nel ’49.

1“Alla ricerca del popolo che manca” più che un progetto sembra quasi una sperimentazione in continuo divenire, nel senso di ricercare, viaggiando lenti, alla velocità di crociera di un ciclista che non deve vincere trofei di un giorno, e quindi può fermarsi, ascoltare, guardare un po’ più da vicino, lungo l’Italia dei paesi e delle contrade, gli echi non solo delle storie di ieri – da ricordare, ricomprendere e valorizzare, evitando anche i miti frettolosi che dimenticano le fatiche di quel mondo e la condizione di sfruttamento, ma evidenziando che quella marginalità poteva essere superata seguendo altre strade rispetto a quelle imposte da una logica di sviluppo che ci crea anche oggi continuamente nuovi problemi, rispingendoci indietro – ma ponendo attenzione anche agli echi di oggi, dalle tante esperienze di ritorno all’agricoltura, mai banali e nemmeno queste da mitizzare in base alle mode di un giorno ma che richiedono come sempre la concretezza del lavoro e la tenacia dell’impegno 2quotidiano, fino a prestare un’attenzione maggiore e più rispettosa alle tante Resistenze, che ancora ci sono, come quelle contro le grandi opere in tutte le loro infinite gamme, a cui si oppongono “i comitati”. Ecco che il viaggio allora ha inizio proprio dalla Valsusa, con la sua storia antica, e poi attraversa tante altre realtà nel paese: dal NoTav al No Triv, si diceva, per condensare questo mondo in una battuta.Una sperimentazione aperta, dunque, e un cammino che prosegue, in cerca di altre storie e di sempre nuove contaminazioni, sperimentazioni.

Ho parlato qui solo di alcuni aspetti di questo viaggio, la cui stessa documentazione raccolta nel sito bikepartisans è tuttora in elaborazione, così come lo sono i viaggi tuttora in corso, e non ho detto nulla della musica, che non è certo un semplice accompagnamento ma è l’anima stessa del raccontare giullaresco, raccogliendo i rumori di fondo e le voci dal basso per restituirle sotto forma di emozioni, echi, sonorità, vibrazioni che ancora oggi sentiamo e continuiamo a creare. Ne parla Daniele nella pagina di Abesibe.

11951603_420963551430050_4916066567871015303_oPersonalmente, ho avuto il piacere di introdurre Nica e Daniele con una lettura, dal mio libro L’erba dagli zoccoli in corso di stampa, di un brano sulla storia di Rocco Scotellaro e le lotte contadine in Lucania, dedicandola a Giuseppe Novello, e ho avuto il piacere anch’io di sperimentare qualcosa di nuovo, grazie all’accompagnamento grafico di Andrea Silicati, che mentre io leggevo disegnava in una tavola unica – un po’ come quelle dei cantastorie, per restare in tema – il profilo delle colline lucane che alla fine inglobavano il volto di Scotellaro dietro le sbarre, e insieme le ombre della notte tragica di Montescaglioso. Ho voluto fare un’introduzione vera al racconto di Nica e Daniele sul popolo che manca, che avrebbe poi riempito la nostra serata di luna piena.

La serata è stata organizzata da Musica Distesa, Altrovïaggio e NotteNera, con la partecipazione di Arci, Anpi, Libera , Shambhala e Fuori dalle vie Maestre.

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“Il canale” di Salvatore Paolo

phpThumb_generated_thumbnailjpgLettura interessante, immersa all’interno del mondo contadino: “… erano d’accordo che valesse la pena di sfidare i carabinieri per quelle terre. A giudizio di coloro che le conoscevano, esse erano una specie di terra promessa. Solo bisognava smacchiare, ripulire, scassare, dissodare. «È per questo che ci andiamo – diceva Renato, e dopo ci dovranno ringraziare.»
Si giunse così alla notte dell’occupazione. Partirono tutti dalla Camera del Lavoro. Andavano in bicicletta. Chi non l’aveva se l’era procurata. Benito l’ebbe dai figli di Giovanni Tenta, siccome loro ne avevano due e di essi vi andava solo il più grande.
Il tempo era umido e freddo. Nel cielo passavano delle nubi nere come corvi. Per tutte le strade c’era un via vai di gente. Si udivano voci bisbigliate o richiami da una casa all’altra. «Fernando, sei sveglio?». Qualcuno si era messo a riposare prima della partenza. «Pronto, ci sono».   Ed era una lunga coda di biciclette che si avviava per la via del mare. Andavano senza luci per non dare sull’occhio. Ma cantavano Bandiera Rossa, come se il canto non desse sospetto.”

Ad un certo punto della storia c’è anche questa occupazione delle terre, con un chiaro riferimento alle occupazioni dell’Arneo, con le biciclette dei contadini bruciate dai carabinieri, nel feudo di Nardò in Salento, e siamo infatti anche negli stessi anni, subito dopo la guerra.
L’ambiente sociale è lo stesso, con le stesse fatiche e durezze della vita. Il romanzo, però, non è una ricostruzione storica bensì ambientale e sociale, quasi antropologica, molto precisa e ricca di dettagli, che a tratti ricorda i Malavoglia di Giovanni Verga, ma per altri aspetti offre anche uno sguardo più individuale e introspettivo, psicologico, attraverso l’io narrante che è Assuntina, una ragazza e poi donna, che racconta – ricordandolo dopo, con il tono di chi è riuscito, almeno un poco, a distaccarsi dal duro ambiente in cui è cresciuta – la storia sua e della sua famiglia, i Mangialerba, caprai, con la loro casa umida e povera vicino al canale. Il padre e la madre, con i loro caratteri diversi e ben delineati dall’autore, poi i due fratelli, il maggiore e il minore – il più grande partirà soldato nel ’39 per finire poi in Russia -, la vita del paese, le gerarchie e anche le prepotenze, l’oppressione sociale. E nel mezzo i sogni infranti, come quello di Assuntina di poter studiare e diventare “dottoressa di polso”, cioè medico, oppure quello del padre di riscattarsi tentando la coltivazione del tabacco, ma si risolverà in una batosta, non solo per la stagione difficile e il gelo di primavera che brucia le piantine, ma anche perché il prezzo del raccolto lo stabilisce il potente del paese, e la vendita diventa così quasi un furto, naturale come le stagioni, e come se non bastasse acquista a novembre ma a Natale ancora non ha pagato una lira – struggenti le pagine sul pranzo di Natale, senza nulla, e del presepio senza pupi -, mentre il tabacco il padrone l’ha già lavorato e rivenduto, incassando subito, se non in anticipo, i suoi soldi e le sovvenzioni pubbliche. Nel racconto c’è anche il mondo delle tabacchine, lavoro che per un po’ Assuntina svolge. Anche i qui i paradossi dell’iniquità, con Assuntina che non ha i soldi per comperarsi un cappotto, anche vecchio, e la colletta a cui gli tocca partecipare per il regalo di natale alla mestra, per comperargli una radio.

Il linguaggio usato dall’autore è incisivo e sintetico e al tempo stesso capace di restituire la vivacità e la pienezza del modo di esprimersi popolare, nelle espressioni e ancora di più nella costruzione dei dialoghi, mantendosi al tempo stesso asciutto ed essenziale, permeato da un pessimismo costante, quasi fatalistico eppure capace di rivelare una resistenza d’animo – la famosa “resilienza” – che sorprende, sempre pronti a sognare possibili o impossibili riscatti. Molto spesso ingenui, ancora più spesso avversati in tanti modi diversi. Ma l’accento del racconto sembra posto sulla possibilità di un riscatto più esistenziale che sociale, come si percepisce dal tono stesso con cui l’io narrante, Assuntina, racconta a noi non risparmiandoci nulla, ma dopo che è riuscita a tirarsi, anche se solo per poco, un po’ fuori.

Interessanti anche le descrizioni del pesaggio. Anzi, più che paesaggio, potrebbe essere definito direttamente ambiente o natura, una natura dura e difficile, anch’essa essenziale e dura come uno stato d’animo, ma capace anche di destarsi senza riguardi. Un paesaggio ancora da “smacchiare”, per citare una delle espressioni usate nell’episodio dell’occupazione delle terre:
“Era luglio e non pioveva da oltre cinque mesi. Le piante appassivano e il canale s’era coperto di terra. Non c’era soffio di vento, eppure la polvere delle strade penetrava nelle gole col respiro. Dal sole era come se piovessero fiammate: ogni tramonto era la fine di una lotta per un po’ d’aria, per un po’ di vita. Anche la terra era stanca, prostrata, silenziosa. Intorno casa venivano a morire, nella ricerca disperata dsi una pozzanghera, tutte le rane del fossato consumato dall’arsura (…) Appena due giorni dopo soffiò il vento. Da ponente salirono le nuvole. Si levò la tramontana, improvvisa, turbinosa, e il sole si oscurò. S’impennarono i mulinelli di polbere inseguendosi per la campagna. I contadini, incalzati dal rombo dei tuooni, misero alriparo i fichi e il tabacco che seccavano al sole. Io mi affacciai allap porta: il vento mi portava via. L’orizzonte, nero come un carbone, era squarciato da contonui lampi nervosi. Vidi volare in un turbine stracci, foglie secche e pezzi di legno. Il cielo si abbassava sempre di più e incombeva su di noi. La grandine venne giù secca come una sassaiola, poi si diradò e divenne pioggia scrosciante. Il canale si gonfiava a vista d’occhio: l’acqua sopravanzò le rive e si riversò verso casa. Lambiva la soglia, invadeva la stanza, mentre la pioggia si faceva rabbiosa.”
Quasi per ricordarci che nemmeno la natura è uguale per tutti ma è capace di discriminare e colpire chi è restato più esposto ai suoi colpi.
Il romanzo fu scritto dall’autore nel 1956 ma poi pubblicato nel 1962, da Nuova Accademia Editrice, dopo essere già stato premiato come inedito al “Città di Bari”.

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Nottenera e tonalità di nero, appunti personali a margine

introNottenera. Non ho trovato molti titoli simili in rete: una notte africana, che richiama il colore della pelle, e poco altro. Di solito si usa “notte bianca”, che rinvia a qualcosa che riguarda l’insonnia. La Nottenera dev’essere altro; il 22 agosto si svolge la quinta edizione. Confesso che per una mia debolezza mi accosto sempre con cautela agli eventi culturali basati su una molteplicità di proposte. Mi prendo sempre un po’ di tempo prima di orientarmi. Ho costruito negli anni un mito assai personale sulle mie origini campagnole e così la città, o anche solo il piccolo paese, mi creano un senso di frastorno. Ma ugualmente mi attirano, un po’ come le fiere, dove anche le antiche comunità si riversavano per ritrovarsi e fare provviste, oltre che di cose anche di storie, immagini, suoni e parole. Sto leggendo il programma di quest’anno e quindi ne parlo solo nell’attesa e per ciò che ora leggo. E un po’ anche per le poche suggestioni che mi legano al paese inventore di questo appuntamento. Serra de’ Conti. Il museo delle arti monastiche, che per l’occasione resterà aperto durante la notte, evento tra gli eventi, occasione da cogliere per chi non l’ha già visitato. “Le stanze del tempo sospeso” è il bel titolo del percorso di visita, che ho avuto modo di apprezzare alcuni anni anni fa. Il manifesto, dell’amico Ezio Bartocci, realizzato allora per l’apertura, lo si incontra, come una vera porta, anche nella pagina d’ingresso del sito web del museo.

Raccontava Ezio, qualche settimana fa alla presentazione della sua mostra “Manifesti, fogli di strada”, all’Accademia di Macerata, le difficoltà incontrate nel riprodurre la stessa identica tonalità di nero della veste della monaca. Sembra banale ma non lo è affatto, occorre plasmare con cura le terre e le materie o risalire alle materie originali per riprodurre non solo i colori ma anche i riflessi e le tonalità che li rende vivi, come la sensazione di una presenza reale. Riprodurre il nero. Ecco, filtrata così, anche la Nottenera già mi intriga in modo diverso, mi stuzzica a pensare che anche gli organizzatori di questo evento siano alla prese con la ricerca delle giuste tonalità.  Leggo dal sito del Comune, nella pagina dedicata all’evento“che l’illuminazione pubblica verrà sospesa per fare del buio il primo elemento di relazione autentica con se stessi, gli altri e l’ambiente, per un’esperienza di superamento delle abitudini percettive”. Gli eventi si svolgeranno a partire dalle 19.30, poco prima del tramonto, e poi proseguiranno fino a Notte fonda. Notte fonda, mi piace questa espressione. Nel suo libro “Participio futuro” Massimo Angelini, ruralista e fabbricante di lunari, ci spiega che: “Dopo l’ultima luce inizia la notte e delle cose non si distingue più il colore né la forma. Fino alla vera mezzanotte, che nell’orologio invernale corrisponde a pochi minuti dopo la mezzanotte e mezza, diciamo che è SERA; poi, dalla mezzanotte vera fino al primo chiarore, diciamo che è NOTTE profonda. E nella notte profonda il momento più buio è sempre quello che precede il ritorno della luce, e la luce ritorna e ritornerà sempre fino alla fine dei tempi.” La mezzanotte vera, mi intriga questa idea o questo momento, come si fa a coglierla davvero? Certo, non credo che Angelini pensasse a questa specifica nottenera, ma al tempo remoto, o del participio futuro?, di quel mondo contadino che costituisce il nostro ampio, profondo e comune retroterra temporale che siamo noi.

Gli appuntamenti previsti durante la notte sono tanti e diversi, offerti nei vari punti del paese, immersi nel buio, sperimentando, leggo sempre dal sito del comune, “l’incontro tra i linguaggi creativi contemporanei, le comunità e il territorio”. Il territorio, già, è questo alla fine l’elemento centrale attorno cui ruotiamo, sperimentiamo, ci domandiamo. Abbiamo bisogno di sperimentare e domandarci, soprattutto in questi tempi attuali, davvero sospesi.

Tra gli eventi previsti elencati nel programma mi stuzzica (non solo questa, ma in particolare per un mio interesse più diretto) una performance teatrale, di Glen Çaçi, un artista albanese che presenta “KK (Reduxe)”: “una riflessione politico-performativa sulla proprietà territoriale e sull’identità culturale, filtrata da un’ironia cruda e pungente; una traduzione coreografica contemporanea dell’estetica di un’infanzia post-comunista”. Una storia, o più storie, di sradicamenti e ricerche di radicamenti, tra esili, itinerari, accoglienze, esclusioni, identità che non è mai semplice afferrare. Insomma, storie di oggi. Che il nero profondo della notte, dunque, sia propizio anche a noi invitati a partecipare, con le nostre identità certe volte un po’ troppo scontate, e che dunque dimentichiamo quasi perfino di averle. Che sia anche questo, in qualche modo, il senso dell’incontro tra i linguaggi? Sperimentiamolo. Intanto, mi viene alla mente la storia della “Moretta”, che conosco solo approssimativamente ma riguarda questo paese. A cavallo tra Ottocento e Novecento arrivò al monastero di Santa Maria Maddalena una suora sudanese, liberata dalla schiavitù da un sacerdote, che si inserì qui e divenne anche Abbadessa. Pare che fosse musicista e anche brava, una suonatrice di organo, conosciuta e apprezzata anche fuori dal convento. Che la notte dunque sia propizia agli incontri, alle storie, agli esperimenti.

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Praga, pensieri sparsi

kafkaQuella descritta da Kafka mi sembra una realtà sospinta dall’irrealtà, e la sua scrittura ne è il punto di contatto, dove i due piani si riuniscono ma come in un sogno capovolto. Quale dei due piani sia più reale dell’altro, non è affatto scontato, non si può conoscerne uno senza prestare una precisa attenzione anche all’altro. La sua scrittura non è un sospingersi attraverso la notte nei panni di un doppelgänger, per poi ritrarsi all’alba e tornare a sé; il doppelgänger è dentro di noi ed è un tutt’uno con noi, non esiste altrove o separato, è la nostra stessa sintesi, lo sguardo che va oltre o sotto, e rovescia i punti di vista. Nel 1916, mentre Kafka scriveva i racconti raccolti sotto il titolo Il medico di campagna, l’Europa era una contorta e infinita trincea dove l’umanità si stuprava o usciva di senno. Mi pare che Kafka scrisse che la guerra aveva trascinato tutti dentro una labirinto di specchi deformanti. “Botte da orbi” scrive il suo contemporaneo Hašek, nel romanzo antimilitarista Il buon soldato Sc’vèik. In quel periodo Kafka si recava, per scrivere, nella minuscola abitazione del vicolo d’oro, o degli alchimisti, incastrata tra le strette mura del Castello. Aveva bisogno di un luogo congeniale, lontano dal frastuono della città o dal disordinato vociare rumoroso dei vicini. Visitare Praga oggi, dopo cento anni, è più che un paradosso, trascinati nei gorghi delle fiumane turistiche; è assai più placida la corrente della Moldava, maestosa, possente e profonda.  Era una casa piccolissima e nascosta quella al vicolo d’oro, come le casette della barbie, o dei modellini giocattolo. Mi pare che Kafka vi andasse solo per scrivere. Arrivava alla sera, si chiudeva dentro a chiave, mi pare che avesse solo un tavolo e lo stretto necessario, poi nel cuore della notte o al mattino presto, se ne usciva e tornava giù in città, nell’altra abitazione, o al suo lavoro presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro (in proposito, mi pare anche che disse, degli operai: “Che modestia, vengono qui e chiedono a noi, invece di entrare e fracassare tutto”).  Una vita doppelgänger, in quei vicoli incontrava se stesso, e raggiungeva le bassure dello scrivere, come diceva, perché si può scrivere solo così, solo in un contesto simile, con una tale apertura completa del corpo e dell’anima. Io non sono sceso giù al vicolo, troppa era la calca dei turisti, mi sono limitato a osservarlo dall’alto, dalle finestre del museo del gioco, mentre ero accanto, appunto, alle casette in miniatura per i giochi dei bambini delle famiglie alto borghesi di inizio novecento. Quelli delle classi proletarie, vi abitavano, in ambienti più spogli però, solo la dimensione era analoga. Il museo sorge in quella che nei secoli passati era la torre dei supplizi e delle torture, e delle esecuzioni. Tutto qui, a stretto contatto, come un altro tipo di doppelgänger. Le casette nel vicolo di sotto sono da lillipuziani, immagino che Kafka, di statura alta, arrivasse al soffitto. Durò meno di un anno l’idillio di Kafka con questo luogo ma fu un anno fecondo, come se un gorgo imprevisto, oppure programmato, avesse rimescolato tutto. Il suo sentirsi nel mondo e il sentire stesso di quel mondo. Nel vicolo d’oro, o degli alchimisti, a scrivere e scrivere,  cercando tra le pieghe dell’anima le reazioni chimiche capaci di aprire a chissà quali metamorfosi. Troppo grande per me, oggi, la fiumana di gente turistizzata fatta affluire nel vicolo, come una diga quando cedono le paratie, ma la città è ampia, assai ampia, e profonda, piena di angoli e anfratti, sotterfugi, sorprese, forse è capace di lasciarsi invadere, esserne all’altezza, in fondo l’ha già fatto più volte, rinascendo. Altre città immagino che sopporterebbero più rassegnate, come Venezia ad esempio, nel suo lento e inesorabile affondamento. Qui si respira una magia più solida, annidata in tanti punti nascosti, puoi tentare o fingere di esserne all’altezza solo se non vai di fretta, e comprendi che tanto non riuscirai a toccarla davvero. È già molto il solo sfiorarla, e poi ripassarci di nuovo. Sai che qui non bastano pochi giorni. Nemmeno una vita, direbbe l’autore di Praga magica, Angelo Maria Ripellino, anche perché nel frattempo la città non se ne sta ferma ad aspettarti, è in perenne metamorfosi, la sua storia ti circonda con gli stucchi barocco e rococò disseminati in ogni palazzo di ogni angolo. La cultura è una parola che sintetizza ciò che sfugge, e vive a strati, come specchi che si rimandano tra loro gli sguardi, spostando gli oggetti, le prospettive, gli avvenimenti. E di avvenimenti questa città ne ha avuti tanti, molti già turistizzati dalla nostra epoca, come gli stessi percorsi di Kafka, presenti su tutte le guide, citati anche frettolosamente, per il piede svelto del turista, appena il tempo di una foto e via. Miliardi di foto e triliardi di selfie ovunque, davanti alle sinagoghe, sui ponti, sotto al monumento a Kafka nei pressi della sinagoga spagnola, ma anche in una galleria commerciale o sulle scale mobili della metro, ogni posto è buono, si cerca un senso anche dove non c’è e se c’è è sicuramente un altro ma non importa, non è quello che si cerca. A Terezin, un’ora di corriera fuori Praga, ne ho visti perfino che si scattavano selfie davanti alle celle degli ebrei deportati, anche loro ridotti a selfie, senza nemmeno un doppelgänger. Terezin, o il suo senso, in realtà, doveva già essere nell’aria quando Kafka scriveva venti anni prima: lui morirà nel ’24 di tisi, le sue tre sorelle moriranno tutte e tre in un campo di sterminio. Terezin era un campo di transito ma vi morirono ugualmente a decine di migliaia, molti i bambini. Chi non moriva lì, di stenti o malattie, lo inoltravano ai campi di sterminio veri e propri. Anche la data di morte di molti artisti ebrei di Praga, tanti, è bloccata a quegli anni. Il macellaio di Praga, o di Hitler, così era chiamato già al suo tempo il governatore nazista Reinhard Heydrich, fu ucciso in un attentato dai partigiani cecoslovacchi con il supporto di incursori inglesi nel ’42. Era il numero due dopo Himmler, il più alto in grado ucciso in un attentato durante tutta la guerra. Grazie a una spia il commando fu poi braccato e preso, o forse si uccisero per non essere presi, nei pressi di una chiesa dedicata a Cirillo e Metodio. C’è una lapide con dei fiori ancora oggi. Qui nessun selfie in agguato, anzi, ho faticato un po’ a scovare la lapide. I nazisti per vendicare il macellaio sterminarono un intero paese, Lidice, alla periferia di Praga, e poi per ricordarlo gli dedicarono l’Operazione Reinhard, il piano per la costruzione dei primi tre campi di sterminio di Treblinka, Sobibór e Bełżec. Terezin era già stata una fortezza e una prigione, era morto lì in una cella, nel ’18, Gavrilo Princip, che nel ’14 davanti alla Vijećnica di Sarajevo aveva ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie. Non ho visto scattare selfie nemmeno davanti alle lapidi che ricordano Jan Palach e Jan Zajíc in piazza San Venceslao. Forse perché le due lapidi sono a terra, troppo in basso per un selfie, o magari ero io a essere distratto e qualche selfie me lo sono perso. Anche queste lapidi ho faticato un po’ a trovarle ma la città è grande e profonda, capace di conservarle insieme al loro ricordo, di conservare tutto questo e tanto, tanto altro, che si può scoprire procedendo adagio, ai margini delle fiumane, attardandosi, fermandosi, o nelle ore insolite, aspettando pazienti che i suoi angoli si aprano da soli, o anche soltanto i loro echi. Scegliendo tranquilli tra la miriade dei suoi musei, gallerie d’arte, concerti musicali, i tanti teatri, librerie, le esposizioni di tutto dove nessun particolare è a caso, le porcellane, i cristalli, minuterie, marionette e giù giù fino alle cianfrusaglie, non ne ho mai viste di tanta varietà, accatastate in angoli o in fondo a vicoli impensabili, e poi caffè di tutti i tipi, gallerie, ritrovi, birrerie, piazze, parchi, isole, ponti, la Praga in alto e la Praga in basso ce n’è per tutti i gusti, i tanti giovani presso gli ostelli, la Praga a strati, a grovigli, luminosa e misteriosa, alle prese con la sua invasione turistizzata, che la sorvola, ci scivola dentro, fa il pieno di selfie, e chissà di che altro.

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