Siamo tutti neri

Il 5 luglio “Fermi contro il razzismo”, ad un anno dall’uccisione del richiedente asilo Emmanuel Chidi Namdi.
Ventotto anni fa, ottobre 1989, ero a Roma alla prima grande manifestazione contro il razzismo, un corteo enorme, delegazioni da tutta Italia, presenti anche tantissimi gonfaloni dei Comuni portati da vigili urbani dalle mille divise e accompagnati da tante bande musicali dai tanti paesi di cui è ricca l’Italia. Allora a Villa Literno era stato assassinato Jerry Essan Masslo, un sudafricano scappato dall’apartheid per ritrovare il razzismo in Italia. I segnali del razzismo c’erano già tutti, e anche le connessioni con il caporalato e lo sfruttamento. Eppure l’abbiamo sottovalutato o comunque non affrontato in modo adeguato. E la situazione progressivamente è degenerata, sembra quasi che oramai ci stia sfuggendo di mano, da merce da usare strumentalmente sul piano della politica per ottenere facili consensi pare che stia diventando un vero e proprio bottino di guerra  verso cui correre per appropriarsene.

Il razzismo, leggevo molti anni fa in un testo di sociologia, è insito in modo naturale in ciascuno di noi, bisogna rendersene conto per controllarlo.
Mi sono occupato di intercultura e accoglienza per una ventina di anni, iniziando allora non solo da buoni propositi umanitari, di cui certe volte sottovalutiamo il lato retorico e il velo di razzismo potenziale che vi si nasconde, ma mi accostai a queste tematiche spinto da eventi di guerra, alla fine degli ottanta con la prima intifada palestinese, un conflitto con molti aspetti tragici, e qualche anno dopo con l’inizio del conflitto nella guerra di ex-Jugoslavia, come allora chiamavamo questo paese senza distinzioni, anche per una incapacità diffusa a coglierne differenze e ricchezze interne.
Un’intercultura, la mia, che si interrogava sul conflitto e sull’odio, e dell’accoglienza cercava di intravedere le complicazioni concrete al di là delle buone parole, e di queste buone parole tentava una lettura meno ovvia, districandosi tra i duplici significati di integrazione, tolleranza, diversità e così via.
Ricordo che al mio primo seminario di  formazione con un gruppo di insegnanti in una scuola elementare, mi presentati con il dizionario di lingua italiana.

Il razzismo, dicevo sopra, è insito naturalmente in ciascuno di noi, come una diffidenza individuale; il confronto con il prossimo non è mai scontato e va riguadagnato ogni giorno con un’attenzione continua.
Il razzismo inizia a diventare pericoloso, cioè a innescare odio, quando da individuale diventa sociale, si iniziano a condividere stereotipi ai danni di minoranze, convinzioni basate su percezioni distorte della realtà.
Il razzismo inizia ad accrescere ancora di più la sua pericolosità sociale, cioè a promuovere odio, quando dei gruppi organizzati iniziano ad assumere come bandiera questi stereotipi ai danni di minoranze amplificandoli di proposito, costruendo narrazioni distorte della realtà, cercando di assumere queste narrazioni distorte come il modo comune di guardare e interpretare i messaggi, a loro volta già distorti, che ci raggiungono. Come nella schizofrenia, ci giungono messaggi distorti, semplificanti e sbrigativi, soprattutto contraddittori, che saltano passaggi logici, non ci aiutano a districarci nella complessità sociale che ci circonda.
Diminuiscono anche le parole a nostra disposizione. Dal linguaggio degli ultimi decenni è scomparso tutto ciò che aveva a che fare con il conflitto sociale e il suo ruolo di mediazione e ricomposizione degli interessi  per raggiungere equilibri sociali più avanzati; è scomparso il concetto della solidarietà tra gli esclusi, la partecipazione intesa come osservazione critica è annullata dal consenso, le crisi economiche sono raccontate come se scaturissero da chissà quali complicati algoritmi tecnici che una mano più malvagia delle altre ha alterato, oppure vendute come opportunità che a loro volta nella nostra esperienza quotidiana non esistono. Come nella schizofrenia reagiamo dissociandoci.

Il razzismo diventa davvero pericoloso, cioè inizia a normalizzare l’odio, quando da sociale diventa politico e tenta di farsi sistema, entra nel linguaggio della politica, si infiltra nei comportamenti istituzionali o nelle interpretazioni di normative e leggi, cerca giustificazioni in nome di un realismo frutto di una percezione distorta della realtà, improvvisa ogni giorno soluzioni presentate ogni volta come la soluzione di tutto, accusa gli altri di essere “buonisti”, ingenui o addirittura compartecipi di chissà quali traffici occulti e  pronti a svendere il proprio paese. Argomentazioni che sempre meno cercano il dialogo e sempre più spazzano via o mettono al bando chi la pensa diversamente.  Quando mi occupavo ancora in modo attivo di intercultura, uno dei testi che tornavo a consultare più spesso era Cassandra di Christa Wolf, la sua rilettura del mito antico che più mi affascina. Un po’ come gli artisti, che diventano veggenti loro malgrado, solo perché sono resilienti ad una percezione distorta dei segnali che vengono dalla realtà: la nostra resilienza individuale è fondamentale.

Raccontare in modo corretto la realtà, e soprattutto raccontarla dialogando altrimenti a chi la raccontiamo: a noi stessi? Sembrerebbe una battaglia persa già in partenza nell’odierno mondo dei social e dei media pigliatutto, ma anche qui forse più che da astrusi algoritmi dipende da questioni di potere o di stereotipi sempre più consolidati. La resilienza individuale di tanti deve essere però sostenuta e non ostacolata, deve essere valorizzata e presa ad esempio,  la realtà deve essere raccontata per quello che veramente è, nella sua complessità, per aiutarci a capirla e non a confonderci, per tornare a ridurre la differenza tra una percezione distorta e ciò che realmente accade.

Emmanuel con la sua compagna Chinyery

 

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