I giovani e la partecipazione

Questo articolo è una specie di Amarcord, una curiosità; è abbastanza lungo, fu scritto nel 1995 per la rivista trimestrale PRISMA, che allora dirigevo quando collaboravo con la Cgil ed ero direttore dell’Ires Marche; avevo intervistato venti giovani tra i venti e i venticinque anni, oggi sono persone sulla cinquantina. Mi diverte rileggerlo, di questi tempi!!!! Da questo lavoro nacque quasi per gioco anche un romanzo, Lontano da sguardi indiscreti.

I giovani, il lavoro e la partecipazione: la presenza dei giovani nel mondo del lavoro e nella società, la partecipazione al sindacato e le opinioni sulla politica, attraverso il racconto di venti ragazzi intervistati
“Prisma n. 39, settembre 1995”

INDICE

1. Premessa: obiettivi dell’indagine
2. I percorsi scolastici
3. La scelta del lavoro
4. Il lavoro attuale
– Il lavoro come opportunità di realizzazione?
– II lavoro in fabbrica e le relazioni con i colleghi
– Alcune esperienze particolari di lavoro
5. Il sindacato
6. La politica
7. Attività sociali
8. Il tempo libero
9. Alcune brevi considerazioni finali
NOTE al testo

 

1. Premessa

Secondo un’indagine svolta tre anni fa dal nostro Istituto (1) la partecipazione sindacale dei lavoratori con meno di 30 anni di età è piuttosto bassa. Solo il 49,1 % degli intervistati dichiara di condividere le decisioni degli organismi sindacali ed in ogni caso questo gruppo si riduce al 22,1 % (il 28, 1 % tra gli operai e l’ 11,7% tra gli impiegati) quando si tratta di partecipare attivamente. Il 47% dichiara esplicitamente che il sindacato non svolge in modo adeguato l’azione di tutela degli interessi dei lavoratori. La valutazione diviene più positiva (il 67%) solo nei confronti dell’azione svolta dai delegati direttamente presenti sul luogo di lavoro, mostrando in questo caso un consenso che supera il confine dell’ adesione formale. Il contrario accade nei confronti del ruolo del sindacato in generale: le valutazioni positive scendono al 42,9% dato che anche molti iscritti rispondono negativamente.
Questo senso di distacco riflette un atteggiamento di fondo verso le istituzioni politiche e sociali in genere. Solo un esiguo 5,1 % risulta iscritto ad un partito ed appena il 2,8% dichiara di svolgere qualche attività politica, anche se il 57% dichiara di tenersi aggiornato. Espliciti i giudizi negativi: il 22,1% dichiara apertamente che la politica non lo interessa, alcuni specificano di esserne disgustati. La politica come valore è considerata poco importante per la vita di una persona dal 65,3% degli intervistati mentre il 67,2% avverte comunque l’impossibilità per i cittadini di incidere sulle decisioni politiche, che “appartengono a poche persone che detengono il potere”. I politici riscuotono pochissima fiducia da parte dei giovani: si esprime così l’ 88,7%; una considerazione migliore viene riservata ai sindacalisti, terzi nella graduatoria proposta e preceduti solo dalla polizia e dalle Banche, seguiti invece dai magistrati, dai sacerdoti e poi, con valori inferiori alla media, dai militari e dal governo (quest’ultimo vicino ai valori molto bassi dei politici).
Dunque, il livello di partecipazione dei giovani è generalmente basso ma comunque si evidenzia un atteggiamento diverso verso il sindacato (2). Dalla nostra ricerca risultava basso anche il livello di partecipazione ad attività associative e manifestazioni che configurino un impegno sociale, a differenza di quanto rilevato invece da altre ricerche (3); la partecipazione diventa più elevata soltanto per la pratica sportiva, a vantaggio comunque più dei maschi che delle femmine: un partecipazione insomma che appare più rivolta verso associazioni che possiamo definire “di consumo” piuttosto che di “impegno”.

Gli obiettivi della presente indagine

Con il lavoro attuale ho tentato di risalire, almeno in parte, ai motivi dei comportamenti descritti allora, discutendone individualmente con 20 giovani di età compresa tra i 20 ed i 26 anni, con due sole eccezioni di 18 e di 28 anni, per una durata complessiva di circa 30 ore (4). Dodici lavorano nell’industria e otto nel commercio o nei servizi, nove sono iscritti al sindacato, di cui cinque sono delegati eletti nelle Rsu, due non sono più iscritti; poco meno della metà si dichiara apertamente “di sinistra”. Si tratta, è molto chiaro, di un gruppo non rappresentativo dell’universo dei giovani ma solo di una parte, quella già inserita, seppure ai primi gradini, nel mondo del lavoro, in prevalenza in aziende con una consolidata presenza sindacale, inoltre risulta “sbilanciato” politicamente verso la sinistra. Sono senza dubbio limiti importanti, da non sottovalutare, che però non producono come risultato un’ immagine uniforme di questi giovani. Emerge comunque un quadro più ricco e complesso.
Nelle interviste non ho seguito volutamente nessuna traccia prefissata, seguendo di volta in volta le questioni che in quella situazione apparivano più interessanti, lasciandomi anche condizionare dal luogo o dalle stesse aspettative dell’ intervistato. Ritengo tuttavia che proprio l’eterogeneità del materiale disponibile, se da un lato costituisce un ulteriore limite a questo lavoro, dall’altro si presenta come una specie di piccolo viaggio, seppure soggettivo, comunque in grado di fornire spunti per ulteriori riflessioni sull’argomento. Queste note pertanto hanno solo l’obiettivo di stimolare nuovi approfondimenti, individuando, se possibile, nuove domande, piuttosto che interpretare e spiegare.

2. I percorsi scolastici

Le indagini svolte in Italia negli ultimi anni hanno evidenziato che la dispersione scolastica è ancora un problema non risolto (5), e la selezione, gli abbandoni e le ripetenze risultano ancora fortemente correlati alla classe sociale di appartenenza e soprattutto al livello della scolarità familiare (6). Nel nostro caso solo 12 intervistati sono diplomati, sei di loro hanno iniziato e poi interrotto gli studi universitari ed appena due o tre sembrano soddisfatti della scelta scolastica o comunque svolgono un lavoro rispondente al titolo di studio. Il primo è un perito agrario con specializzazione nella trasformazione dei prodotti agricoli, ha venti anni, si è da poco diplomato, non ha ancora un impiego stabile e deve assolvere gli obblighi militari, tuttavia ha già accumulato alcune esperienze lavorative nel suo settore ed è sicuro che, una volta concluso il servizio militare, troverà senza difficoltà la sua occupazione. Questo ragazzo riferisce anche che nessuno o quasi dei suoi compagni di scuola ha invece intenzione di cercare lavoro in questi settori e che la loro scelta scolastica era avvenuta in modo del tutto casuale, senza alcuna convinzione.
Vi sono poi due ragionieri che lavorano entrambi in banca, il primo ha iniziato subito dopo il diploma e l’ altro ha avuto un periodo di attesa più lungo tra il concorso e l’assunzione. Entrambi hanno tentato anche di frequentare l’Università, però solo il primo sta proseguendo, auspicando maggiori permessi di studio e tasse scolastiche più basse per gli studenti-lavoratori; per l’altro invece l’impiego in banca ha fatto venire meno definitivamente lo stimolo a proseguire gli studi, seppure con rammarico.
Per nessuno degli altri diplomati esiste una relazione diretta tra la scuola ed il lavoro. Innanzitutto ci sono quattro operai addetti alla catena di montaggio di aziende meccaniche: un perito industriale, un ragioniere, un perito informatico con un abbandono dell’università al quarto anno, una ragazza diplomata all’Istituto tecnico femminile. Alcuni avevano scelto con sicurezza la scuola ma poi hanno trovato “una situazione diversa, ove le materie che più attraevano non consentivano di approfondire l’argomento, riuscendo così a concludere solo con uno sforzo incredibile e con la decisione di iniziare subito a lavorare, senza alcuna intenzione di proseguire gli studi”.
Significativo appare il caso del ragioniere: “mi sono iscritto a questa scuola perché, mi dicevano, offriva migliori opportunità di lavoro, forse da questo punto di vista era meglio l’Istituto Tecnico Industriali oppure le Professionali, ci sono miei amici che con questi diplomi hanno trovato più facilmente lavoro; sono pentito, avrei preferito il Liceo, un’istruzione più utile per formare la personalità; ora vorrei iscrivermi a Filosofia o a Pedagogia, ancora sono giovane e non voglio rinunciare”.
Le sue vicende rimandano a quella questione irrisolta che nel nostro paese si chiama Orientamento (7), tanto più che “appena diplomato mi sono iscritto alla Facoltà di Economia e Commercio ma ho smesso al primo anno, ho sostenuto solo quattro esami, tutti delle materie che mi interessavano: Storia, Psicologia e Diritto; invece la Matematica, la Statistica e l’Economia non fanno per me”. Questo ragazzo conclude in modo assai critico le sue riflessioni sulla scuola: “ci sono persone incompetenti che hanno invece l’incarico di educare; gli insegnanti andrebbero selezionati in modo più rigido, non solo secondo l’istruzione o il livello culturale, ma soprattutto come capacità di gestire il rapporto con i ragazzi; l’educazione deve essere per la vita e invece per cinque anni l’unica preoccupazione è stare zitto e composto nel banco; più rapporti umani quindi ed anche più attrezzature: come fai ad educare ad aver fiducia nella vita se poi a scuola non c’è neanche la palestra e non trovi un professore per un consiglio? Anche all’università ci facevano lezione in un cinema, era disagevole, non si capiva niente” (8).
Tra gli altri diplomati che non lavorano come operai ci sono una ragioniera che da 5 anni fa la commessa ed una diplomata all’Istituto Alberghiero, impiegata in una piccola azienda, per le quali sia le esperienze scolastiche che lavorative sono più tranquille, anche se non c’è attinenza tra titolo di studio e lavoro, e anche se in un caso la scelta scolastica è stata fatta più dai genitori che dall’interessato.
Da un’altra ragioniera di 20 anni viene invece un appello accorato: “I genitori dovrebbero ascoltare di più i figli: mi sono iscritta all’Istituto per ragionieri che non mi piaceva e alla Facoltà di Lingue che non mi piaceva però era vicino casa e costava di meno, ora ho deciso di interrompere gli studi: volevo iscrivermi a Psicologia ma nessuno ti informa bene”. Ora questa ragazza sta cercando lavoro come impiegata, però, dice: “Io non so lavorare al computer, a scuola erano disponibili solo per il corso programmatori; ho imparato ad usarlo come macchina da scrivere lavorando d’estate come impiegata, la scuola non mi ha insegnato molto: ho avuto una brava insegnante di ‘tecnica’ ma per la ragioneria è stato il contrario: conoscenze zero”. Insomma, l’esperienza scolastica ha lasciato il segno ma sembra non aver distrutto l’ultima speranza: “Tra qualche anno, appena posso, mi iscriverò a Psicologia, anche se sono un po’ scoraggiata per via dell’obbligo di frequenza in molte materie, comunque mi iscriverò, al limite a quaranta anni”.
Non solo i genitori intervengono nel forzare le scelte ma anche gli insegnanti delle scuole medie, come riferiscono alcuni periti meccanici. Dice uno di loro: “All’età di quattordici anni non sai cosa devi fare, nessuno ti aiuta, la famiglia non è capace. Io preferivo il Liceo Linguistico ma gli insegnanti mi consigliarono le scuole professionali: figuriamoci, allora è meglio andare subito in fabbrica e non pensarci più”. Questo ragazzo si dilunga abbastanza sulla sua conflittuale esperienza scolastica: “alle elementari andavo bene, mi piaceva molto leggere, poi ho avuto un dramma familiare e sono diventato violento, io direi vivace ma la vivacità a scuola non è ammessa”. Non appare comprensibile il consiglio di frequentare le scuole professionali: “L’esame di maturità l’ho superato solo perché ho fatto un bel tema, anzi, ho avuto il tempo di scriverne due di temi: fosse stato per le altre materie mi avrebbero respinto”. Anche questo intervistato si è iscritto per sua scelta a Scienze Politiche, perché le materie lo interessavano. L’impegno si è dimostrato però troppo gravoso, doveva lavorare per mantenersi da solo agli studi, inoltre, “forse mi sono scoraggiato anche a causa dell’esperienza negativa avuta all’Istituto Tecnico”.
Sono invece otto gli intervistati che hanno interrotto la scuola prima della maturità. Uno di loro era orfano e ha dovuto iniziare a lavorare subito dopo la licenza media, senza neanche attendere la fine dell’ estate ed ora lavora in fabbrica da quasi dodici anni.
Il più giovane degli intervistati, 18 anni, apprendista in una parrucchieria per uomini, ha invece resistito solo tre mesi alle scuole superiori, sino alle vacanze di Natale: preferiva imparare subito un mestiere; la sua famiglia di origine è operaia ed anche il quartiere dove vive è abitato in prevalenza da operai anche se la maggior parte dei suoi amici andava a scuola.
Diversi operai meccanici hanno interrotto la scuola al terzo o quarto anno delle superiori, sempre istituti tecnici: uno era “di quelli che recuperano negli ultimi due o tre mesi dell’anno scolastico”, ha avuto 4 materie a settembre e 7 in condotta e quindi ha smesso; in seguito ha tentato di diplomarsi con un corso serale, spendendo quattro milioni di lire inutilmente perché non ce l’ha fatta e ha smesso di nuovo; qualche anno più tardi ha frequentato un corso di formazione professionale di breve durata ottenendo la qualifica di “operatore informatico”, riconosciuta dalla Regione: “mi sono preso questa piccola soddisfazione personale”.
Un meccanico di 25 anni ha interrotto le superiori al secondo anno: “ho smesso perché a quell’età si ‘capisce molto’; in realtà mi trovavo bene a scuola, io abitavo in un quartiere popolare e sono stato influenzato dai miei amici, lavoravano tutti e guadagnavano 400-500 mila lire al mese, mi sembrava chissà che: a casa volevano che continuassi ma io ho smesso”. Anche questo ragazzo poi ha provato per ben due volte a frequentare corsi serali per recuperare il diploma ma si è rivelata nuovamente un’esperienza troppo difficile: 5 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, in una città vicina e dopo 8 ore di lavoro in fabbrica, quindi ha smesso ma sarebbe pronto a riprendere, forse, se trovasse condizioni più semplici.
Ugualmente negative comunque le esperienze scolastiche degli altri; tutti provengono da famiglie operaie. La scelta scolastica si è rivelata un passaggio molto critico quasi per tutti (9). Una ragazza conclude la sua intervista con un appello, auspicando un maggiore impegno anche da parte del sindacato sui problemi dell’istruzione in genere, “per assicurare una maggiore preparazione professionale e consentire alle persone più chance; penso però anche alla cultura in senso più generale”; occorre aiutare “la persona stessa perché un ragazzo che ha smesso di studiare a quindici anni non ha più interessi, non è sensibile a certi problemi, non legge i giornali e ‘resta con il paraocchi’. Io penso che la preparazione culturale è molto importante e che la dittatura nasce dove la gente non è preparata e non reagisce, non conosce e si adegua”.

3. La scelta del lavoro

Soltanto tre intervistati non hanno ancora un lavoro stabile; anzi, per la ragioniera ritiratasi dall’università c’è piuttosto una situazione di ricerca, condotta alla cieca, senza disporre di informazioni ma rivolgendosi come capita ad amici e conoscenti e basandosi sulle poche esperienze condotte saltuariamente nei periodi estivi. Un secondo ragazzo, come ho già detto, è perito agrario, sta già facendo prime interessanti esperienze ed è certo di sistemarsi nel suo settore appena assolti gli obblighi di leva. Per un terzo ragazzo, diplomato, la situazione è nuovamente complessa, ha accumulato molte esperienze fin dall’età di quattordici anni, durante l’estate o la domenica: ha lavorato in fabbrica (non era in regola e quando veniva l’ispettore del lavoro lo nascondevano sotto al bancone), il cameriere, volantinaggi pubblicitari, il marmista, l’imbianchino, stagionale finalmente in regola in imprese alimentari, ora lavora come facchino ma si tratta di un’occupazione temporanea: è un lavoro troppo faticoso e con problemi di non rigoroso rispetto di norme contrattuali o di orario di lavoro. Le prospettive però appaiono anche in questo caso incerte: “ho ancora le idee confuse; qualche tempo fa stavo per imbarcarmi come mozzo ma me lo hanno sconsigliato, avrei visto i miei amici solo una volta all’anno; vorrei evitare di finire operaio in fabbrica ma vedo la fabbrica incombere su di me come un destino”.
E ora andiamo ai casi opposti. Sono tre o quattro i ragazzi che hanno iniziato subito dopo gli studi lo stesso lavoro che svolgono ora. Innanzitutto il bancario: alla giusta scelta scolastica è seguita subito una soddisfacente occasione di lavoro; non mancano tuttavia osservazioni critiche: l’intervistato ritiene che la nuova normativa sull’età pensionabile penalizzi chi comincia a lavorare prima di 25 anni, disincentivando i giovani dal cercare subito un lavoro stabile.
Anche per la ragazza bancaria si tratta dell’unico vero lavoro cercato, seppure le suscita minore entusiasmo e sebbene tra il concorso e l’assunzione sono trascorsi quasi un paio di anni. Gli altri due che hanno subito intrapreso il lavoro attuale sono la commessa di 25 anni e l’apprendista parrucchiere di 18 anni, esperienze assai diverse ma con in comune la soddisfazione di aver appreso un mestiere e l’aspirazione di avviare in futuro, appena pronti, un’attività autonoma. Per tutti e quattro questi ragazzi il lavoro scelto si è presentato casualmente: il concorso, l’annuncio sul giornale, la conoscenza personale, forse l’unica vera scelta è proprio quella del parrucchiere.

Tutti gli altri, invece, hanno alternato periodi di lavoro e di disoccupazione, seppure brevi. Diversi hanno lavorato in piccole aziende, in alcuni casi al di fuori di ogni tutela contrattuale (“alcuni dipendenti venivano saltuariamente, poi ho capito il perché: non li pagavano, poi anche a me non è arrivata più una lira ed invece è arrivata una lettera del curatore fallimentare”; “ho lavorato un po’ in una ditta di confezioni che poi è fallita: ogni anno chiude, non paga i contributi, cambia nome, licenzia tutti, poi riapre”; “sono stato costretto a venire via da quella ditta per la disperazione: non si osservava alcuna misura di sicurezza, gli aspiratori per la polvere non funzionavano, un giorno mi è caduto un grosso peso su un piede e solo casualmente indossavo scarpe anti infortunistiche, perché il giorno prima un rappresentante ne aveva regalate un paio al padrone: se non era per questo mi avrebbe staccato un piede”; “per un totale di 170 ore di lavoro mi hanno dato solo 800 mila lire, in nero”.
In altri casi il percorso lavorativo è stato meno sconfortante seppure per quasi tutti assai vario ed in qualche caso non semplice: c’è chi ha fatto il muratore, chi l’operaio in imprese di confezioni o in officine meccaniche, chi ha curato le pubbliche relazioni di una discoteca (“è un ambiente affascinante, mi permetteva di stare a contatto con molta gente”), chi il pasticciere, chi il fotografo industriale, chi l’autista, chi la telefonista ai famosi 144, chi ha fatto volantinaggio pubblicitario, chi il giardiniere ed anche lavori più saltuari come il cameriere al ristorante o in pizzeria, oppure la vendemmia o l’operaio stagionale in imprese alimentari: tutte esperienze trovate casualmente e condivise da più persone, spesso senza relazione alcuna con il lavoro trovato dopo; alcuni hanno accumulato più di un’esperienza, talvolta anche piacevoli sul piano della curiosità personale: “lavoravamo alla pubblicità, andavamo in altre città, un gruppo di ragazzi con un accompagnatore, la mattina giravamo le strade in due, poi andavamo a pranzo tutti assieme, abbiamo visitato tutte le città della regione, alcune volte siamo andati fuori regione, pernottavamo in albergo per otto o dieci giorni ed avevamo anche molto tempo libero, mi piaceva viaggiare ed avevamo fatto amicizia tra noi ragazzi, quando si è molto giovani si può fare questa esperienza”.

Nonostante la giovane età tutti hanno già alle spalle diversi anni di lavoro, da un massimo di circa dieci anni per alcuni meccanici ad una media di cinque o sei per tutti gli altri; solo per chi ha da poco concluso o interrotto gli studi l’esperienza è più breve seppure, ripeto, alcuni hanno svolto lavori diversi durante le vacanze. Questa alternanza scuola-lavoro non si presenta come un’ integrazione dell’esperienza scolastica quanto piuttosto un’alternativa, un’esperienza separata, scelta autonomamente e solo in alcuni casi per effettiva necessità economica. Unica eccezione è la studentessa dell’ istituto alberghiero, per la quale il lavoro estivo si svolgeva in albergo ed era collegato alla scuola.
Solo per alcuni la prima esperienza occasionale ha favorito il passaggio al lavoro attuale. Ad esempio un ragazzo ha fatto il saldatore in una grande ditta nazionale del settore degli appalti, e poi, seppure con un intermezzo di un lavoro diverso, è stato assunto con la stessa mansione presso un’ azienda del suo comune di residenza. Le azioni di ricerca di lavoro sono state per lo più casuali, come ben descrive uno degli addetti alla catena di montaggio: “andavo a caso, partivo la mattina, prendevo una strada e mi fermavo in tutte le fabbriche che incontravo, avevo anche presentato la domanda in un importante azienda meccanica, cercavo tutto il possibile”. La casualità, insomma, integrata, o forse è più esatto dire rafforzata, dalle proprie conoscenze ed esperienze personali, sembra dunque l’elemento principale.
Parallelamente alle considerazioni sull’orientamento scolastico emerge dunque un problema di orientamento al lavoro: ho chiesto a diversi di loro se si erano rivolti a strutture pubbliche di orientamento ma nessuno ne conosceva l’esistenza.
Uno di loro, addirittura, lavora volontariamente due pomeriggi a settimana nel Centro Informazioni Disoccupati, una struttura del sindacato. L’attività è organizzata a livelli molto elementari e ai giovani, non molti, che si recano presso il centro vengono offerte informazioni sulle occasioni di lavoro, in genere raccolte dai giornali, dai bandi di concorso, dal “sentito dire” tramite delegati sindacali dipendenti di aziende che forse devono assumere operai con determinate qualifiche. Chi parIa con loro è un giovane operaio con pochi anni di età in più ed un’ interruzione scolastica alle spalle, che come può elargisce anche consigli: “Chiedono di tutto e spesso si tratta di richieste generiche, spesso sono disposti anche a fare gli operai; tra i giovani c’è molta incertezza: io consiglio di scegliere comunque una strada e puntare su quella, non accettare tutto senza specializzarsi mai in niente, lavori saltuari si ma senza interrompere realmente la propria strada, cercare anche corsi di formazione per quel mestiere, piccole officine anche con un rapporto di lavoro precario pur di imparare quel mestiere. Solo pochi hanno le idee chiare” (10).

4. Il lavoro attuale

Dieci intervistati sono operai metalmeccanici, di cui quattro addetti alla linea di montaggio, tre saldatori e tre svolgono mansioni diverse; lavorano in sei stabilimenti di versi della regione, tutti di media dimensione e con una tradizione sindacale all’interno. Come elemento di soddisfazione nel lavoro tutti sottolineano la stabilità del posto di lavoro, e dunque dello stipendio, e il rispetto, in generale, del contratto collettivo di lavoro; la maggior parte ha in precedenza avuto esperienze più precarie e talvolta poco tutelate sindacalmente. Non mancano in ogni caso i problemi, soprattutto riguardo alla salute e al rispetto delle norme di sicurezza.
Parlano di questo soprattutto i tre saldatori, addetti in due diverse aziende: “quando si fa la saldatura si sprigiona fumo e allora bisogna usare le sostanze adatte a seconda del luogo o del tipo di lavoro; certe volte si fanno lavori in posti chiusi che si riempiono subito di fumo, allora capita che a qualcuno gira la testa o sviene; si sprigionano temperature molto elevate, si dovrebbero indossare delle tute speciali ma d’estate non è facile resistere a lungo”. Ho provato a chiedere se le sostanze usate, giudicate nocive, sono consentite per legge ma nessuno di loro ha saputo rispondere, soltanto uno ha riferito che fino a qualche anno fa l’uso di certi materiali era escluso, in alcuni tipi di lavorazione, da accordi sindacali che per qualche motivo sono stati modificati. Uno di loro esprime così il suo disappunto: “quando siamo stati assunti sapevamo che il lavoro era nocivo e che queste pause non erano riconosciute ai nuovi assunti ma solo ai più anziani”: si tratta insomma di problemi irrisolti ed aperti.
Ci sono anche altri problemi che riguardano la sicurezza e che accomunano l’esperienza dei saldatori a quella di tutti gli altri meccanici; alcuni addirittura mi hanno descritto possibili modifiche da apportare alle macchine per facilitare date operazioni e diminuire, oltre alla fatica fisica, anche la causa di possibili incidenti.
Curioso a proposito il modo con cui un ragazzo mi ha risposto quando gli ho chiesto se sono frequenti gli incidenti nella sua fabbrica: “No, capita qualche volta che a qualcuno salta via qualche piccolo pezzo di dito ma non si tratta mai di nulla di grave”.
Più in generale si tratta di problemi di salute, legati alle polveri, al rumore, alla umidità oppure danni alla vista, in molti casi rimediabili, appunto, secondo gli intervistati, applicando più rigorosamente le norme di sicurezza o introducendo migliorie nei macchinari. Al tempo stesso non appare semplice il modo di reagire degli operai: “sulla sicurezza sono indifferenti alle misure da adottare, dicono che me ne importa di indossare le scarpe antinfortunistiche, sono scomode, tanto non mi faccio male; così anche per le polveri,o le altre questioni”.
Parlare della sicurezza e della nocività introduce dunque ad un discorso più complesso sui comportamenti dei giovani e dei lavoratori in generale, sul loro diverso modo di reagire alle situazioni. Quattro degli intervistati sono coinvolti in prima persona in questo tipo di problematiche essendo stati nominati, dalle strutture sindacali aziendali, delegati alla sicurezza, ma non si tratta ancora del ruolo previsto dalle nuove disposizioni della legge 626 che da alcuni mesi dovrebbe regolamentare la materia in Italia; solo due di questi quattro delegati inoltre finora ha avuto occasione di frequentare riunioni informative, organizzate dal sindacato, per iniziare a conoscere la legge.
Nonostante i problemi di salute appena descritti o la consapevolezza delle scarse opportunità di carriera, nessuno dei meccanici intervistati cerca attivamente un lavoro alternativo. La possibilità di cambiare è piuttosto remota (“se capita l’ occasione”); poche le eccezioni: un ragazzo, magazzini ere ed autista, se ne avrà l’occasione farà il concorso per diventare autista presso il Comune (un’aspirazione verso un’ulteriore tranquillità); un diplomato alla catena di montaggio invece mi racconta il suo progetto, forse ancora generico ma comunque già discusso con alcuni amici, di avviare un’attività commerciale in proprio, ad esempio una libreria.

4.1. Il lavoro come opportunità di realizzazione?

Oltre ai meccanici vi sono altri quattro o cinque intervistati che hanno raggiunto una posizione di relativa stabilità nel lavoro; alcuni, oltre alla stabilità, sottolineano anche altri motivi di soddisfazione.
Ad esempio uno dei due bancari, che dopo esperienze in diverse città d’Italia è rientrato nella sua città di residenza con una mansione che gli consente un certo grado di autonomia organizzativa e di frequentare periodicamente corsi di formazione, nonché la possibilità di leggere e aggiornarsi anche durante l’orario di lavoro.
Discretamente soddisfatti anche la commessa ed il parrucchiere: i progetti che i due hanno di avviare un’attività in proprio non è una fuga da situazioni difficili ma una specie di naturale evoluzione della loro professione.
Riferisce la commessa: “mi piace stare in mezzo alla gente, conoscere, prima ho lavorato in un ufficio ed era monotono”. Il rapporto con la clientela costituisce per alcuni una vera occasione socializzante e formativa della propria identità personale; racconta il nostro giovane parrucchiere: “quando ho smesso la scuola potevo andare in fabbrica ma mi piaceva di più qui, sento parlare molte persone, del loro lavoro, ci sono molti clienti che viaggiano, si spostano, fanno esperienze e allora viene anche a me la curiosità di muovermi e vedere le cose che sento raccontare”.
Per altri, che hanno già concluso le fasi di formazione adolescenziali, il contatto con i clienti rimane comunque un elemento che arricchisce il lavoro, rendendolo più piacevole e vario, come riferisce un’impiegata: “Noi abbiamo più di 900 clienti tra abituali ed occasionali, dobbiamo chiamarli, aggiornarli sulle normative, organizzarci, i problemi sono tanti e spesso diversi, così noi tre impiegate che lavoriamo qui -tutte giovani- abbiamo una nostra autonomia nell’organizzarci, andiamo molto d’accordo, ognuna cerca di apprendere le incombenze dell’altra, è un’esigenza dovuta alle piccole dimensioni ma rende anche il lavoro più vario ed interessante e ci rende consapevoli dei problemi dell’azienda”.
Non è una novità che la variabilità dei compiti arricchisce il lavoro e questo è un elemento che viene apprezzato dai giovani che hanno l’occasione di questa esperienza. Meno noto invece è forse quanto sottolinea la commessa: “Molti pensano che la commessa sia una poveraccia, con l’unico compito di stare al pubblico e vendere, invece ci occupiamo di tutto, fino all’allestimento o all’amministrazione, l’azienda ci forma tramite corsi e ci coinvolge in tutta la gestione del negozio e questo da soddisfazione”.
Si tratta però di un’azienda ben affermata, le cose non si svolgano nello stesso modo in tutte le realtà: “ci sono molte situazioni brutte nei negozi della zona, certi proprietari si fanno forza sull’ignoranza delle ragazze che assumono”.
Le relazioni con la clientela sono fonte di soddisfazione ma richiedono pazienza e competenza: “c’è tanta gente cafona e bisogna fare sempre la ‘faccia buona’; si comportano così anche tante giovani che magari si fanno sfruttare dieci ore al giorno dal professionista di turno che non le tiene neanche in regola e poi vengono a sfogarsi con noi; molta gente quando entra in un negozio non si rende conto che le commesse lavorano lì per sette ore, dove lavoro io è più semplice perché la società è seria, ma per altre, che non sono rispettate neanche dal padrone del negozio che le tratta male e non le tiene in regola, quando anche il cliente le tratta male diventa proprio dura, uno deve stare zitto e soffre perché non può rispondere”.
Ed infine: “qualcuno ti chiama addirittura Ragazza”. Non sono tutti così i clienti: “c’è anche tanta gente brava, qualcuno passa anche solo per salutarti perché si è affezionato, soprattutto le persone più umili e che si danno meno arie”.
Alle relazioni con i clienti si associano i rapporti nell’ambiente di lavoro con i colleghi o con i superiori, che quando sono buoni costituiscono certamente un elemento di soddisfazione. Per alcuni intervistati che lavorano o hanno lavorato in piccole aziende del commercio e della ristorazione le esperienze sono state negative; non mancano però le esperienze positive (“stavo bene, mi sentivo come in famiglia”), che quando ci sono state hanno anche stimolato a progettare iniziative in proprio.

4.2. II lavoro in fabbrica e le relazioni con i colleghi

I rapporti con i colleghi ci riportano ai meccanici, che ne riferiscono in termini vari e complessi. Dice un diplomato alla catena di montaggio: “mi trovo bene sia con gli altri operai che con i dirigenti, non credevo fosse così, ero abituato diversamente al mio paese, quando non so fare qualcosa subito l’operaio vicino mi aiuta”.
E’ una testimonianza che tuttavia altri riferiscono in termini più problematici; le differenze forse dipendono anche dalla diversa situazione esistente negli stabilimenti. In alcuni c’è una presenza prevalente di giovani sotto i trenta anni (in un caso circa l’80%), una situazione inedita per lo stesso sindacato; ovunque comunque sono ben identificabili dei consistenti gruppi di giovani; in un caso c’è quasi una polarizzazione tra operai al di sopra dei 45 anni ed operai al di sotto dei 30, a causa dell’ interruzione delle assunzioni durante un lunghissimo periodo di crisi aziendale, ora superato.
Solo alcuni intervistati affrontano però il tema dei rapporti generazionali: “Mi trovo bene, è una specie di paese in miniatura, però c’è distacco tra giovani ed anziani; tra i giovani ad esempio se uno rimane indietro su un lavoro, un altro lo finisce senza nessun problema, ma se arriva un operaio più anziano, invece di aiutare si mette a fare scene e non pensa di aiutarlo: è come il nonnismo sotto il servizio militare”.
“Gli anziani sono più menefreghisti”, sostiene un altro, aggiungendo un forse e spiegando poi: “c’è chi farebbe chissà che cosa per fregare dieci minuti oppure al contrario altri (“per fare bella figura”) lavorano come matti rinunciando alle pause, in entrambi i casi mettono in difficoltà chi vorrebbe lavorare bene ma anche in condizioni normali”; infine propone questa spiegazione: “forse sono più menefreghisti perché ne hanno viste troppe, spesso si saranno impegnati senza nessun riconoscimento e alla fine si sono stancati: secondo me è la mentalità dell’azienda che piano piano ha modificato in peggio la mentalità di questi operai”.
Il riferimento evidente di questo ragazzo è al senso di solidarietà e di unione tra gli operai, nella volontà di lavorare bene con serietà ma anche nelle condizioni adeguate a cui l’azienda dovrebbe porre più attenzione. Un altro operaio conferma: “mi aspettavo di più come specializzazione nel lavoro: all’inizio abbiamo frequentato un corso di due mesi per otto ore al giorno -non eravamo pagati, ci hanno assunto dopo- ci hanno spiegato la Qualità totale, ci hanno fatto credere che dovevamo diventare chissà quanto specializzati, dopo è stato tutto il contrario, interessava solo la quantità, spesso in cattive condizioni e con una qualità non sempre buona, soprattutto nelle lavorazioni meno importanti e sottoposte a minori controlli”; ed infine auspica che “anche il sindacato si occupi di questi problemi, un modo per partire alla grande e riscuotere di nuovo un po’ di fiducia, perché con la qualità ci può essere anche più soddisfazione per gli operai”.
Una concezione del lavoro che dunque non è esclusivamente di tipo strumentale.

4.3. Alcune esperienze particolari di lavoro

Uno degli intervistati è un operatore sociale addetto alla assistenza domiciliare a soggetti disabili o a minori “socialmente difficili” segnalati dalle scuole o seguiti dai servizi sociosanitari. Si tratta di un’esperienza molto coinvolgente anche se emergono condizioni di lavoro non ottimali. L’intervistato non ha una specifica preparazione scolastica, ha solo avuto, alcuni anni prima e in occasione del servizio civile sostitutivo degli obblighi di leva, un’esperienza di un anno presso una comunità terapeutica (a sua volta già conosciuta grazie alle adolescenziali esperienze di scout).
Gli aspetti positivi, di soddisfazione, si alternano a quelli negativi, di frustrazione. I casi da seguire certe volte “non sono stimolanti perché è semplice assistenza: andavo lì la mattina, dovevo solo vestirlo quel ragazzo, lo sedevo, lui neanche parlava, la prima ora andava via così, la madre gli faceva fare colazione, poi per un’ora e mezzo accendevo lo stereo e la mattina finiva”.
Situazioni limite, spesso affrontate quasi da soli: “Seguiamo un paio di corsi di formazione all’anno, il resto dipende solo da noi stessi: ogni giorno devi inventare qualcosa di nuovo per andare avanti e capire ciò che fai, le motivazioni che spingono i ragazzi che segui a comportarsi così e cercare di trovare il modo di aiutarli, intaccare i comportamenti che hanno radicati dentro, introdurre dei cambiamenti”; ma si tratta di un lavoro che richiede costanza, pazienza e non è immune da dubbi: “ho sempre molti dubbi sui cambiamenti da ottenere, mi chiedo se sono legittimi”, e quindi, parlando di un caso di difficile inserimento scolastico, questo operatore cerca di spiegarmi meglio: “ricordo ancora le difficoltà che avevo quando andavo io a scuola, credevo che dipendessero da me, oggi mi rendo conto che dipendono da come lo studio è strutturato, tutti i giorni lì, la professoressa, le lezioni, il rispetto dei programmi e basta, senza fornire alcuna capacità critica. Quindi penso a questo ragazzino, al suo rifiuto della scuola e alla sua devianza: ci vorrebbe un tipo di lavoro che non sia una modificazione della personalità o delle idee della persona ma che sviluppi una capacità di critica: non il rifiuto totale come ha ora, che lo esclude, ma un rifiuto critico, consapevole, che possa anche diventare positivo, far capire che se ci sono cose che non vanno bisogna cercare di ragionarci sopra, trovarne i motivi e pensare alle soluzioni; lo studio è importante come occasione di conoscenza e di crescita e non solo come rendimento e voto.”
Sono riflessioni che ci rimandano anche a quanto descritto nel paragrafo precedente, sulle esperienze scolastiche degli intervistati. In ogni caso il lavoro di operatore sociale “è interessante perché fa stare a contatto con la gente, non è come lavorare in fabbrica o alla catena di montaggio”, aggiunge con involontaria ironia nei confronti dei suoi colleghi intervistati, tanto più che in un altro passo dell’intervista specifica: “Il nostro lavoro ci rende isolati tra operatori; ognuno vive da solo in contatto con la famiglia assegnata, non è come in ufficio o in fabbrica dove si lavora assieme ai colleghi, spesso sei solo e questo rende difficile lavorare”. E allora “ci siamo organizzati da soli, siamo circa 15 o 20 operatori, meno della metà di quanti lavorano nella nostra zona però ogni settimana ci riuniamo, confrontiamo le nostre idee e ci scambiamo le esperienze, parliamo anche di come sono organizzati i servizi e vengono gestiti i contratti di appalto con gli Enti Locali, ma soprattutto discutiamo del nostro lavoro”.
Un’ altra esperienza curiosa è quella di una ragazza che ha lavorato alle linee telefoniche 144.
L’azienda che le gestisce opera da 5 o 6 anni ed ha assunto in breve dimensioni di rilievo, con circa 400 dipendenti tra personale fisso e collaboratori saltuari, con tre sedi di cui l’ultima inaugurata dal Sindaco della città, trattandosi oramai di una delle più grandi aziende cittadine. Molti sono i servizi offerti con la sola esclusione delle linee telefoniche erotiche. Uno dei servizi principali è la lettura dei tarocchi, per il quale le addette devono prima frequentare un corso di formazione interno di circa un mese e superare poi una specie di esame.
Nel suo insieme è una realtà dalle caratteristiche assolutamente nuove e totalmente estranea alle dinamiche più tipiche del lavoro dipendente nelle realtà tradizionalmente sindacalizzate. L’esperienza della nostra giovane ex-telefonista è interessante. All’inizio la società aveva istituito una “linea amica”, per far conversare (“parlare del più o del meno”), al prezzo più iva ovviamente convenuto per ogni minuto di conversazione, chi avesse avuto dei problemi. “Chi decide di raccontare i suoi problemi ad un’operatrice dell’ 144”, commenta l’intervistata, “già per questo non è una persona messa molto bene”. Erano molti gli utenti:”persone sempre sole in casa, con problemi personali qualche volta incredibili, senza nessuno con cui parlare e che telefonano nelle ore più incredibili, alle tre di notte, in ogni momento”: insomma un repertorio vasto di umanità, spesso socialmente invisibile, alla quale le operatrici dell’ 144 devono “dare consigli, ascoltare, parlare, certe volte non si sa proprio cosa dire”. La ragazza intervistata si era accostata a questo lavoro per curiosità, con un generico desiderio di fare un lavoro utile agli altri, “alla fine però diventava proprio pesante”.
La stessa società -ma l’intervistata non ne è sicura- alla fine si è posta il problema se continuare o meno questo tipo di servizio, proprio perché si è trovata di fronte ad una quantità e tipologia di telefonate non prevista, ponendosi il problema di organizzare qualche corso per le telefoniste oppure di selezionare studentesse universitarie di Pedagogia o Psicologia, onde gestire meglio le richieste dell’utenza e quindi riprendere a offrire un servizio assai richiesto.

5. Il sindacato

Sono nove gli intervistati iscritti al sindacato (11), di cui cinque lo scorso anno sono stati eletti delegati sindacali aziendali e altri due sono il punto di riferimento del sindacato nella loro piccola azienda, usufruendo talvolta anche di permessi; altri due intervistati invece di recente hanno restituito la tessera ma forse la riprenderanno; alcuni sicuramente si iscriveranno appena troveranno un’occupazione stabile oppure appena avranno concluso il periodo di fomazione e lavoro e saranno assunti a tempo indeterminato.
Altri sei o sette lavorano in contesti nei quali il sindacato non esiste e in alcuni casi nulla ne fa venire in mente la necessità; tre di loro hanno solo sentito parlare vagamente del sindacato da qualche familiare che ha avuto in passato vertenze da risolvere.
Altri, inseriti ugualmente in realtà lavorative non sindacalizzate, esprimono invece critiche sul ruolo svolto nel nostro paese dal sindacato. La maggior parte identifica piuttosto il sindacato con il patronato o l’istituzione che aiuta a preparare una vertenza, trovare un avvocato, far riconoscere almeno parzialmente i diritti contrattuali, anche se non tutti però, in presenza di problemi, sanno a chi rivolgersi.
Sostiene ad esempio una ragazza: “il sindacato deve farsi vedere di più nei piccoli luoghi di lavoro, anche una semplice presentazione ‘noi siamo del sindacato, se avete dei problemi ci trovate a questo indirizzo’, perché, soprattutto i più giovani hanno paura di rivolgersi al sindacato quando ne hanno bisogno”.
Un altro ragazzo conferma, raccontando di un grave incidente: “un mio amico è caduto da un tetto mentre lavorava senza alcuna misura di sicurezza, si è salvato perché è caduto addosso ad un collega che è morto subito dopo; quando sono andato a trovarlo in ospedale, c’erano altri ragazzi che gli raccomandavano ‘non dire niente al sindacato perché altrimenti il padrone ti licenzia”.
Ciò che queste testimonianze confermano non è una novità; è noto che la presenza del sindacato è assai problematica in molte piccole realtà lavorative; tuttavia per molti giovani che non sanno bene cosa sia il sindacato, alcuni vi si rivolgono spontaneamente: “io non mi sono iscritto per appartenenza alla stessa area politica ma perché nel lavoro precedente ho subito dei torti, mi sono rivolto al primo sindacato che ho incontrato, non conoscevo neanche l’indirizzo, ed un bravo sindacalista mi ha aiutato, impegnandosi molto; ora ho altri problemi, mi sono rivolto allo stesso sindacato, seppure ad una diversa persona, e mi sono anche iscritto”.
Per quasi tutti gli iscritti il primo incontro è avvenuto appunto in occasione di una difficile situazione aziendale. Un sindacato che insomma emerge nelle crisi o nelle difficoltà, a tutela dell’ occupazione già trovata oppure per ottenere, in mancanza di meglio, una qualche forma di risarcimento; solo alcuni aggiungono che comunque, prima o poi, appena le condizioni lo avessero permesso, si sarebbero iscritti spontaneamente sulla base delle proprie convinzioni politiche. La formalizzazione dell’adesione avviene dunque per quasi tutti con l’ingresso nelle aziende dove esiste già un normale sistema di relazioni industriali anche se per alcuni ciò non comporta anche una scelta di tipo politico: “lo non sono né di destra né di sinistra e non ho un’ opinione sul ruolo del sindacato nella società, mi interessa di più ciò che fa per i problemi concreti sul lavoro, tutti dovremmo iscriverci per avere più forza e ottenere miglioramenti”.
Tra gli iscritti vi sono cinque meccanici eletti lo scorso anno delegati sindacali, diverse tra loro le esperienze fatte: “Non abbiamo una funzione reale, è più un ruolo di facciata. La considerazione che la direzione aziendale ha di noi è minima; non è semplice fare il delegato”. Invece specifica un altro: “è una bella esperienza, mi piace conoscere cosa è la vita di un lavoratore; mi aiuta a capire quando l’azienda mi impone delle cose senza alcun diritto, mi consente di tutelarmi e di esprimere quello che penso”, anche se non tutto è facile, “qualche volta ho dei problemi in più con la direzione aziendale e anche gli altri lavoratori non sempre ‘ci vedono bene’, perché siamo più giovani e perché usufruiamo delle ore di permesso, non capiscono che la nostra preparazione dipende anche dai permessi”, e comunque “il dialogo con i lavoratori è in genere buono, anche se talvolta hanno idee diverse”.
In alcune delle aziende meccaniche i giovani costituiscono la maggioranza dei dipendenti e questo ha favorito l’ingresso di alcuni nelle nuove Rsu; tra coetanei comunque il dialogo non è sempre facile: “si discute molto, i giovani oggi vedono diversamente la vita, forse hanno più aspettative, sperano chissà in quale carriera, così si interessano più dei loro problemi”, ed un altro specifica: “aspirano a lavori migliori e non vogliono restare qui, è difficile interessarli al sindacato o ai problemi della comunità, certe volte mi sento emarginato”.
All’impegno che questo giovane delegato mette, segue anche la consapevolezza dei propri limiti: “Le mie parole non sono eloquenti, non riesco e ad un certo punto mi blocco, dovrei essere aiutato a risolvere queste cose, invece nei corsi e nelle riunioni sindacali si parla d’altro, di organizzazione del lavoro, di contratti, non come abbiamo parlato ora, di persone che lavorano, come valutare e comprendere il loro modo di pensare, che intenzione hanno, capire come dobbiamo comportarci, come trovare delle parole più umane”.
La freschezza di questa espressione propone una riflessione assai interessante. Qual è la concezione del lavoro dei loro colleghi coetanei, con i quali tentano di discutere? “I giovani aspirano ad un’altra professione, il rappresentante, il funzionario, il manager” e non deve essere facile spiegare “che anche il lavoro operaio è interessante”. Seppure con diversità tra loro, per questi delegati la vita sindacale in azienda procura comunque soddisfazioni, li spinge a un impegno costante, alla ricerca di una maggiore collaborazione degli operai, li stimola ad un maggiore interesse anche a questioni sociali e al tempo stesso li fa misurare con la difficoltà di risolvere i più immediati problemi aziendali.
In questo impegno si sentono seguiti da un sindacato che organizza corsi e riunioni e si tiene disponibile, anche se non mancano osservazioni critiche: “Io contesto il meccanismo di elezione dei delegati perché è più rappresentativo delle diverse sigle sindacali che non degli operai indipendentemente dal sindacato al quale sono iscritti”.
Critiche analoghe vengono espresse anche da altri, in un caso in maniera molto decisa: “ero iscritto e ho restituito la tessera dopo un accordo aziendale, non ho fiducia nei delegati, sono burattini manovrati sia dalla direzione con cui fanno compromessi da scandalo, ma soprattutto dal sindacato esterno”. Tuttavia, nonostante la radicalità del dissenso, la cui soluzione mi sembra giusto rimandarla al dibattito interno ai lavoratori, tale critica non determina un allontanamento dal sindacato in quanto tale, anzi: “credo che mi iscriverò di nuovo; se me lo proponessero sarei disposto a candidarmi alle prossime elezioni per le rappresentanze di base, ci vorrebbe qualche giovane in più tra gli eletti”, ma non si tratta di una scelta facile, infatti “fare il delegato non è semplice, il sindacato dovrebbe aiutare chi è disponibile ma non se la sente, deve incoraggiarlo, informarlo, addestrarlo, spiegargli come si deve fare”.
La stessa richiesta viene avanzata da alcuni dei delegati che, se fosse loro proposto, sarebbero disposti a diventare funzionari sindacali, a condizione però di essere aiutati ad acquisire la preparazione per svolgere bene il proprio compito.

6. La politica

Nessuno degli intervistati partecipa alla vita politica attiva, neanche quei sette o otto che si dichiarano di sinistra e neanche gli unici due -entrambi iscritti al sindacato- che sono iscritti ad un partito di sinistra, i quali si limitano a partecipare più o meno occasionalmente a iniziative pubbliche (12). Uno dei due, una ragazza, auspica però una maggiore attenzione del suo partito a “pensare spazi per i giovani e iniziative culturali o sociali, come la presentazione di un libro o di un film, dei dibattiti, degli spettacoli, aperti anche a chi non ha maturato ancora una sua scelta politica, perché non si può pretendere che un giovane maturi da solo un interesse per la politica e poi partecipi direttamente alle riunioni di partito sui temi più strettamente politici”, ed infine spiega che anche a lei sarebbe così più facile partecipare a tali attività.
L’unica eccezione alla partecipazione attiva è costituita da due ragazzi che fanno parte di un centro sociale autogestito, però, dalla discussione assai interessante avuta con entrambi, è emersa l’immagine di un’attività che solo con qualche forzatura può essere assimilata ad un impegno politico di tipo “tradizionale”, nell’ambito di un partito. Ne parlerò dunque più avanti.
Alcuni intervistati, anche gli iscritti al sindacato ed alcuni delegati, preferiscono non schierarsi politicamente. Ad esempio uno di loro sostiene “che alle elezioni si deve innanzitutto valutare le idee del candidato e solo dopo il suo partito, senza avere pregiudizi se è di destra o di sinistra”. Nella sua breve esperienza confessa di essersi già ingannato perché purtroppo i risultati si vedono solo dopo, però non riesce a individuare un criterio migliore di scelta. Voglio sottolineare che questo ragazzo non si presenta come una persona di interessi scarsi o confusi; sul piano sindacale è approdato alla Cgil “perché era portato verso una certa area e per simpatia nelle persone che glielo hanno proposto”, ed ha dimostrato durante l’intervista una forte sensibilità verso la solidarietà tra i lavoratori, auspicando una maggiore partecipazione dei giovani.
In altri casi, il discorso assume sfumature diverse: “non mi piace essere coinvolta politicamente, dovrei essere schierata troppo da una parte o dall’altra, non credo di avere la preparazione adatta per impegnarmi in politica”. La politica è insomma una dimensione lontana; altri intervistati dicono esplicitamente di non avere opinioni e di non interessarsene, uno di loro fornisce un giudizio estremamente drastico: “lo vado a votare solo per rispetto a mio padre che me lo chiede, ho una concezione talmente schifata di quello che oggi è lo Stato che della politica me ne frego altamente, questo mio atteggiamento riguarda qualsiasi forza politica e personaggio, nessuno escluso, ed è iniziato due o tre anni fa, quando le cose hanno cominciato a degenerare in Italia; per modificare opinione dovrei prima verificare nel paese un cambiamento notevole e concreto, non solo le parole”.
Questo è senz’altro l’effetto più evidente creato dagli avvenimenti politici degli ultimi tre anni. Se le indagini Iard, prima del terremoto tangentopoli, indicavano un interesse dei giovani verso la politica in leggera ripresa e maggiormente orientato verso le posizioni di centro o comunque meno estreme, alcuni intervistati di questo gruppo particolare con cui ho discusso non rientrano nella casistica individuata:
“I giovani sono divisi tra destra e sinistra, in fabbrica più di sinistra forse perché sono operai, però quando la domenica vado allo stadio vedo molti ragazzi che si professano di destra, simpatizzano per i naziskin, anche se è una specie di moda e non si rendono conto di ciò che fanno”. Questa tendenza ad aggregarsi in gruppi di amici anche per una affinità politica viene confermata anche da altri.
Significativo il racconto, forse limite, di una ragazza: “nel mio gruppo siamo quasi tutti di sinistra, molti leggono libri, conoscono tutto di Che Guevara, siamo andati tutti insieme al comizio di Bertinotti, al bar accendiamo sempre la televisione per seguire il telegiornale e i dibattiti, diversi acquistano anche i giornali di sinistra”, e alla mia domanda se fossero stati influenzati dalla famiglia oppure se quale esponente di partito li avesse contattati, mi risponde: “no, non so le loro famiglie ma per il resto abbiamo fatto da soli, ci vediamo al bar, non conosciamo nessuno che fa parte di questi partiti”. I componenti di questo gruppo sono in maggior parte sui ventitré o ventiquattro anni, iscritti agli ultimi anni dell’università.
Con una modalità forse “più tranquilla” la stessa cosa si verifica in altri gruppi, ad esempio in un paese della costa, dove il luogo di ritrovo è sempre il bar e l’attività prevalente comunque è il gioco del calcetto, oppure in un paese dell’ entroterra, dove il gruppo di amici, tutti di sinistra, in questo caso si diverte suonando musica rock e blues degli anni ’60 e ’70 e, quando ce n’è l’occasione, esibendosi in pubblico. I componenti di questi ultimi due gruppi sono invece in misura maggiore operai.
La situazione appare dunque complessa e varia, l’interesse per la politica non è molto diffuso e quando c’è non si esprime nella partecipazione alla vita di qualche partito o nell’impegno in qualche istituzione, ma si manifesta nel gruppo di amici, integrandosi con le attività ricreative, e solo in pochissimi casi partecipando più o meno occasionalmente a iniziative pubbliche.
La stesse motivazioni sul perché si è “di sinistra”, fornite dai sette o otto interessati, sono assai varie e talvolta generiche. Ricorrono di più giustificazioni storiche di carattere generale (checché se ne dica dello sdoganamento dei post fascisti) oppure l’ambiente familiare ed anche gli amici, un po’ meno motivazioni di carattere generale alla solidarietà o all’impegno sociale; in due o tre casi si può parlare di un effetto Berlusconi alla rovescia.
Tuttavia, se anziché le opinioni esplicitate da questi giovani osserviamo i loro comportamenti, le differenze tra gli schierati e gli altri tendono in alcuni casi a scomparire.
Alcuni, pur non sentendosi schierati, si interessano ugualmente degli argomenti politici leggendo i giornali, anche se in genere è l’influenza dell’informazione televisiva che appare predominante, nello stimolare la discussione: “magari si ascolta per caso una notizia alla televisione e la sera se ne discute”.
Gli effetti sono diversi e le reazioni forse più istintive, lontane da veri approfondimenti; ad esempio, un ragazzo del gruppo schierato a sinistra riferisce: “di solito parliamo di sport, occasionalmente di politica, quasi mai di questioni sociali o ecologiche, un argomento che invece ora sentiamo molto è questo della guerra in Bosnia, abbiamo visto questa estate un sacco di servizi in televisione, siamo stati contenti quando finalmente la Nato è intervenuta contro i serbi”. Un altro ragazzo invece trae un’altra valutazione: “sulla Bosnia nel nostro, gruppo c’è un totale menefreghismo, ci riesce difficile capire dalle informazioni che arrivano cosa stia succedendo veramente, sono tutte notizie contrastanti che non ci aiutano a discutere”.
Questi ultimi due esempi sono tratti dalle interviste svolte dopo l’estate; prima dell’estate invece le discussioni tra amici riguardavano maggiormente l’accordo tra sindacati e governo sulle pensioni oppure i referendum. La discussione “politica”, quando c’è, segue da vicino gli ultimi avvenimenti, quelli di attualità e più presenti nei notiziari televisivi, e tra questi principalmente le vicende di politica interna: cosa fanno i partiti, cosa dice Berlusconi, la Lega e così via, assai meno altri argomenti.
In genere dunque, si è visto, si discute poco di politica, sia tra amici e anche nei gruppi qui definiti schierati a sinistra, e si discute poco in genere anche sui luoghi di lavoro ed in fabbrica con gli altri operai. Uno di questi operai riferisce, parlando non solo dei giovani ma anche degli anziani: “un tempo qui erano tutti rossi, ora sono sfiduciati, magari sostengono lo stesso partito di prima ma con stanchezza, credono che tutto sia inutile, che qualsiasi partito quando va al potere diventi come gli altri”. Si prefigura quindi un problema di partecipazione politica che va al di là dei confini generazionali.

7. Attività sociali

Nonostante lo scarso interesse nella discussione, la partecipazione ad attività sociali interessa un po’ di più gli intervistati. Più sopra ho riferito dei due che fanno parte da alcuni anni di un centro sociale autogestito.
Sinceramente non ho capito se è più esatto definire questa attività “sociale” oppure “politica”, riguardando la gestione di uno spazio nel quale non avvengono soltanto riunioni politiche ma anche diverse attività di tempo libero o culturali in senso lato, tra cui feste, concerti, dibattiti. Periodiche riunioni di coordinamento servono a decidere insieme le diverse attività da avviare, tra le quali possono di volta in volta figurare anche iniziative politiche su particolari temi condivisi dai partecipanti.
In questi casi la collocazione politica scelta, se per comodità vogliamo tornare agli schieramenti, tende molto nettamente verso la sinistra. Che cosa è comunque un centro sociale e cosa significa questo impegno per la crescita personale di un ragazzo? E’ difficile spiegarlo; cercherò di fornire almeno un’idea parziale attraverso le parole di uno di loro: “All’inizio, avevo circa 17 anni, eravamo come bambini ai quali se lasci una stanza vuota a disposizione fanno scarabocchi, confusione, poi però iniziano a sentire quello spazio come il loro: non serve chi interviene e spiega cosa fare, solo col tempo uno capisce la situazione e assume quel senso di responsabilità che non ha avuto occasione di assumere a casa; la mia è una generazione fragile, io mi reputo fortunato di non essere finito in certe storie, non ci sono luoghi per i giovani, l’unica alternativa erano e sono le discoteche dove la ‘roba’ gira abbondante e i prezzi sono inaccessibili, ci sono ragazzi che iniziano ‘a farsi’ a 14 anni, è facile per un ragazzo avere momenti di debolezza; ai nostri concerti c’era posto sempre per tutti, non era come in discoteca, si poteva parlare, c’era anche rumore ma c’erano pause, molti venivano solo per avere un posto dove stare, parlare e discutere, poi qualcuno partecipava anche alle nostre iniziative, la pace o l’adozione a distanza di bambini palestinesi o anche corsi gratuiti di chitarra; ci sono anche ragazzi che prima ‘si facevano’ e poi venendo qui hanno iniziato ‘a non farsi più; ci riuniamo ogni settimana per discutere il da farsi e tutti possono partecipare; i concerti e le altre iniziative ci hanno piano piano legittimato, oggi è più facile essere accettati: ho visto ragazzi di diciotto o venti anni spendere molto del loro tempo libero per lavorare, attrezzare la sede, curare il loro spazio”.
Da un lato una generazione fragile (13) e dall’altro il concetto del luogo di riferimento: anche altri intervistati tornano su questo argomento, seppure in modi diversi. Un’esperienza interessante è stata vissuta da un altro ragazzo in un diverso contesto, un centro sportivo nato nell’ambito dell’ Azione Cattolica (non era però un’attività religiosa, specifica l’intervistato) che aveva messo a disposizione dei locali ove alcuni ragazzi facevano una specie di assistenza volontaria a “minori a rischio” (ragazzi un po’ “strippatelli” li chiama l’intervistato) giocando con loro, organizzando gite e feste, partecipando a corsi di formazione a sostegno della loro attività: “la politica va a finire sugli schieramenti, divide anziché socializzare, ti confronti solo con chi la pensa come te, invece questa attività mi interessava di più”.
Impegnato sul fronte sociale troviamo un volontario della Croce Rossa, a disposizione in determinati orari per gli interventi anche più ordinari, del tipo accompagnare un anziano ad una visita medica; anche una ragazza ha svolto tale attività in passato ma ora, per problemi di orario di lavoro, non ha più tempo.
Anche per altri emergono esperienze precedenti, più o meno occasionali: due ragazzi hanno svolto il servizio civile presso comunità terapeutiche per soggetti portatori di handicap, un altro ha avuto una collaborazione occasionale con la Caritas, assieme alla propria madre che invece vi presta una collaborazione continua.
Una ragazza ha organizzato con delle amiche una festa, devolvendo l’incasso per beneficenza all’Aido: “A me piace molto andare in palestra, gioco a tennis, organizzo gite e viaggi con altri, quando posso organizzo con i miei amici delle feste, una volta ci siamo offerti di organizzare una giornata in beneficenza per l’Aido, è riuscita bene, se c’è da fare qualcosa lo faccio, anche se non in un’associazione specifica di volontariato”.
Troviamo poi altre attività sociali in settori diversi. Ho già descritto l’esperienza dell’ “orientatore” del centro informazioni disoccupati; un altro ragazzo è socio del WWF, ma abita lontano dalla sede e quindi la sua attività è limitata e saltuaria.
In totale, sono circa la metà degli intervistati i ragazzi che hanno avuto esperienze in attività sociali; alcuni sono iscritti al sindacato o schierati a sinistra, altri no.
In generale, non sono riuscito a individuare una qualche relazione tra la partecipazione al sindacato, l’interesse o il disinteresse per la politica o l’impegno in attività sociali; non ho sufficienti elementi per individuare una tipologia di persone generalmente impegnate o all’opposto generalmente disimpegnate. Nei soggetti intervistati queste diverse dimensioni si intrecciano tra loro in tante combinazioni diverse, a seconda delle situazioni e fornendo un quadro assai vario e che diventa ancora più ricco quando esaminiamo gli interessi culturali e le attività ricreative.

8. Il tempo libero

Risultano molto importanti le attività sportive, per alcuni soltanto individuali come l’andare in palestra, passeggiare in montagna o fare jogging; per altri invece comporta una vera attività sociale.
Due operai sono impegnati con le rispettive squadre di calcio, con regolari allenamenti settimanali e partita tutte le domeniche, un altro ragazzo è un nuotatore che partecipa a gare sportive di livello nazionale: in questo caso il nuoto ha rappresentato un’importante esperienza formativa, consentendo all’interessato di viaggiare sin da bambino in diverse città, conoscere persone e ambienti diversi e, durante le prime esperienze di lavoro lontano dalla sua città di residenza, di integrarsi più velocemente nei nuovi ambienti cittadini.
Vi sono poi altre attività interessanti. Un operaio fa il cantante in un gruppo rock che si esibisce ogni tanto in pubblico.
Un altro operaio, è forse il caso più curioso, è appassionato di numismatica, trascorre i giorni liberi in giro per musei e biblioteche a fare ricerche e nel periodo dell’intervista stava scrivendo un articolo per una rivista specializzata nel settore.
Un altro ragazzo fa il fotografo, ha frequentato corsi di formazione professionali ed uno stage a Parigi, inizialmente ha lavorato come fotografo ma la fotografia industriale gli sembrava troppo monotona e condizionata da committenti poco creativi, così ha preferito cambiare lavoro e dedicarsi alla fotografia per hobby: poco tempo fa ha esposto la sua prima mostra pubblica.
Un operaio meccanico dice: “mi piace disegnare, quando posso prendo il cavalletto e vado da qualche parte a pitturare”. Un altro intervistato va spesso in montagna e svolge funzioni di guardia ecologica e al tempo stesso è appassionato di beni architettonici ed archeologici e visita musei e pinacoteche (ha anche frequentato un corso di formazione professionale della Regione, sempre per hobby); un altro operaio suona la chitarra (“mediamente suono una o due ore ogni giorno”).
Altri hanno attività meno specifiche; vi è un operaio che si organizza dei viaggi: “mi piace soprattutto evitare i circuiti turistici più conosciuti e visitare i piccoli centri dove la gente è più vera, non mi interessano le città con più benessere”. Dagli hobby passiamo gradualmente alle attività ricreative del tempo libero. In genere non è molto presente la discoteca, anche se, chiedendo meglio, ho scoperto che alcuni intendono per bassa frequenza l’andare in discoteca una volta al mese, “soprattutto d’inverno, quando è più difficile stare ai giardinetti e chiacchierare tra amici, di solito però ci piace di più stare all’aperto’.
La questione di uno spazio ove incontrarsi, giocare, organizzare feste e concerti è sentita, in fome diverse, da molti. Chi ha già qualche anno in più o abita nelle città più grandi, sembra si organizzi meglio, ma anche in questi casi alcuni sottolineano la carenza di strutture nel proprio quartiere.
Di cosa parlano quando sono tra loro questi amici? Di un po’ di tutto: del più o del meno, di sport, di auto, nei gruppi solo maschili si parla di ragazze, solo raramente, come ho già detto, di argomenti politici o sociali, quando magari qualcuno ha sentito una notizia alla televisione. Per lo più sono occasioni ricreative in senso stretto, senza uno scopo culturale, ad eccezione delle poche esperienze già citate: il centro sociale autogestito, qualche occasionale esperienza di volontariato, il gruppo rock che fa concerti e poche altre occasioni.
Con diversi intervistati si è parlato anche di politiche giovanili (14); molti hanno lamentato la carenza di iniziative ed alcuni l’esclusione dei giovani dalle attività, soprattutto nei paesi più piccoli, di poche migliaia di abitanti, svolte ad esempio dalle tradizionali pro-loco.
Gli altri “consumi culturali” sono presenti in forma assai diversa: il teatro è quasi assente, il cinema è un po’ più frequente ma solo per pochi costituisce un vero hobby, così anche l’ascolto della musica o la partecipazione a concerti; riferisce un po’ per tutti una ragazza: “A teatro vado ogni tanto, quando organizzano spettacoli’ ad esempio d’estate, il problema è di organizzarmi con la mia amica perché non mi va di andare da sola: è difficile trovare compagni perché in genere ai ragazzi della mia età non piace andare a teatro; la musica, sì, ne ascolto tanta e sempre, anche con il walkman, tutti i generi: funky, classica, jazz; i concerti no, non mi attirano, più di tutto mi piace andare al cinema, vado sempre e vedo qualsiasi tipo di film, seguo tutte le rassegne, si trovano film più interessanti alle rassegne che al cinema, in questo caso è più facile organizzarmi, ho un’amica che viene sempre con me”.
Infine, che dimensione è la lettura per questi ragazzi? In misura maggiore leggono libri quelli che hanno completato gli studi superiori. Le letture sono di vario genere. Alcuni preferiscono i giornali ai libri oppure letture che definiscono “leggere”, quali fantascienza o horror; in 2 o 3 casi prevale la lettura di saggi di storia, moderna o antica, mentre due ragazze preferiscono libri di psicologia, “che parlano dei comportamenti e dei problemi delle persone, per conoscere me stessa”, specifica una delle due.
Un ragazzo considera “la lettura dei libri fondamentale, in certi periodi leggo molto, in un romanzo puoi trovarci tutto, è un racconto ma è scritto e pensato in un certo modo, ci ritrovi situazioni di vita e delle persone, quello che pensano, come vedono le cose. Un periodo mi piaceva la letteratura americana, soprattutto Kerouac ed Hemingwai, la loro dimensione del viaggio rispecchiava il mio modo di vedere le cose, il viaggio come crescita, poi ha iniziato a piacermi anche la letteratura francese”.
Anche una ragazza è un’accanita lettrice di romanzi (” sin dalle scuole elementari “), mentre una delle due lettrici di saggi psicologici dice, a proposito dei romanzi: “devono essere storie individuali, di vita vissuta”. La lettura costituisce una dimensione importante per circa un terzo dei ragazzi di questo gruppo e coinvolge comunque anche un altro terzo di intervistati.
Alcuni lamentano il poco tempo a disposizione: “quando andavo a scuola ho letto la Metamorfosi di Kafka e Il ritratto di Dorian Gray, questo è ciò che mi piaceva di più della scuola perché venivo a conoscere un certo libro e poi avevo la curiosità di comprarlo, adesso mi manca la lettura ma ho meno stimoli”.
Una ragazza invece dice: “mi piace molto Nietzsche, l’ho studiato a scuola, mi è piaciuto ma non sono mai riuscita ad acquistare un libro di Nietzsche, forse per pigrizia non sono mai andata in libreria a cercarne uno”. Tra i non lettori, che costituiscono circa la terza parte di questo gruppo, troviamo invece queste giustificazioni: “di solito arrivo a casa alle 17, alle 19 ho gli allenamenti, torno a casa verso le 21,30, faccio la doccia, ceno ed arrivo così alle 23 che è ora di andare a letto e a quell’ora è un po’ difficile prendere in mano un libro”; ed un altro ancora: “non leggo libri impegnativi, mi piacerebbe farlo ma non so perché, forse non sono attratto oppure -aggiunge- mi manca l’abitudine”.
Alcuni alternano, ed altri sostituiscono, alla lettura dei libri quella delle riviste o dei quotidiani; due o tre hanno occasione di leggere, o consultare, sul posto di lavoro le riviste e i giornali ivi presenti.
Nel totale solo due o tre intervistati -sono tutti delegati sindacali- affermano di leggere i quotidiani tutti i giorni, soltanto un delegato segnala un quotidiano di partito; altri intervistati, tra cui alcuni delegati, leggono i quotidiani soltanto saltuariamente (“non ho tempo, cerco di rifarmi leggendo i settimanali”).
Inoltre, di tutti questi lettori più o meno abituali, solo alcuni preferiscono i quotidiani nazionali, altri i quotidiani locali oppure quelli sportivi. Il mezzo di informazione principale resta la televisione, con i notiziari seguiti spesso assieme alla famiglia (“Sono più informato di ciò che accade tramite la televisione; tanto le notizie che riportano i giornali sono le stesse ascoltate la sera prima in televisione”).
Qualche altro al contrario, a proposito dei mezzi di informazione in genere specifica: “ogni tanto leggo qualche settimanale, i quotidiani poco, mi informo soprattutto ascoltando il telegiornale, ma anche questo saltuariamente, la cronaca non mi interessa molto, gli argomenti principali li seguo, la politica poco”; ed un altro aggiunge: “io non guardo molto la televisione e quindi ho del tempo libero per leggere libri”; ed un altro ancora: “non ho una buona opinione dei giornali, non li leggo, non mi danno niente, leggo solo qualche rivista, sono abbonato ad Airone, per ciò che riguarda le problematiche ambientali o la conoscenza dei popoli”. Airone compare nel racconto di tre o quattro ragazzi; una ragazza approfitta della pausa mensa – è costretta a rimanere nei locali del suo ufficio- per leggere anche riviste economiche oppure specializzate nel settore di attività della sua azienda, o “al limite, se non ho nulla da leggere, faccio ‘la settimana enigmistica’: tengo allenata la testa” .

9. Alcune brevi considerazioni finali

Non so quanto potranno apparire utili le storie raccontate dai ragazzi intervistati, attraverso di me e nel modo in cui sono stato capace di rendermene interprete, e quanto di nuovo aggiungano a ciò che altre indagini hanno già evidenziato negli ultimi anni.
A prima vista emergono cose già conosciute: si tratta di giovani sindacalizzati solo quando lavorano in situazioni di consolidata tradizione sindacale e/o perché hanno avuto difficili situazioni vertenziali e/o, ma solo in pochi casi, perché provenienti da famiglie di tradizione operaia o già orientata politicamente verso il sindacato. Ricca di potenzialità appare comunque la disponibilità di alcuni a lavorare attivamente nelle strutture sindacali di base. La loro breve esperienza li vede già confrontarsi con i temi della partecipazione, non solo nei confronti dei loro coetanei ma anche dei più anziani, ed anche nei confronti del sindacato, dal quale vorrebbero in certi casi un sostegno maggiore e più occasioni per discutere, confrontarsi, apprendere come affrontare i problemi aziendali e gestire le relazioni umane con gli altri operai.

Diversi intervistati, anche tra gli iscritti al sindacato e tra i delegati, preferiscono non schierarsi politicamente a destra o a sinistra mentre neanche chi si colloca a sinistra mostra interesse verso la politica attiva; l’unica eccezione è costituita da una ragazza che però auspica nell’ambito del suo partito un maggiore spazio alle dimensioni culturali e sociali; altri intervistati manifestano invece un vero e proprio disinteresse o rifiuto verso la politica in generale.
Leggermente più elevato l’interesse verso iniziative sociali, ma anche in questo caso il legame con ideali “politici” di partecipazione è complesso; qualcuno piuttosto vive, o ha vissuto, queste esperienze, quasi in contrapposizione (“la politica ti fa schierare, divide, invece in questi interventi ci apriamo”).
Poco felice, quasi per tutti, è stata l’esperienza scolastica o con il mondo della formazione in genere e stimolanti sembrano le riflessioni o testimonianze che diversi di loro propongono. Emerge così, come assai problematica, la questione dell’orientamento, sia verso le scelte scolastiche che per l’inserimento nel mondo del lavoro.
Rispetto al lavoro, alcuni hanno una visione più strumentale (la stabilità, lo stipendio), altri invece hanno avuto occasione di apprezzare maggiormente aspetti di soddisfazione. Gli elementi che arricchiscono l’esperienza sono l’autonomia organizzativa nell’ambito dei compiti assegnati, la variabilità di tali compiti, il grado di competenza richiesto, i rapporti diretti con i clienti, in alcuni casi un mestiere appreso e che potrà consentire di avviare attività in proprio: ovviamente è diverso il mix con cui questi elementi sono presenti nei diversi intervistati e diverso è anche il grado di soddisfazione o la combinazione, in qualche caso, con altri elementi più negativi.
Anche coloro che hanno un rapporto strumentale con il lavoro, tuttavia, non mancano di sottolineare esigenze di qualità del lavoro e di maggiore valorizzazione della professionalità, quali elementi importanti da non trascurare.
Critica appare la dimensione del tempo libero; per alcuni è importante la lettura dei libri, il cinema o le passeggiate in montagna e per qualche altro vari hobby -alcuni assai interessanti- o impegni sportivi. Al di là di queste esperienze, comunque, i luoghi di ritrovo in cui incontrarsi con gli amici, per stare insieme, chiacchierare e divertirsi, si limitano al bar, alla discoteca, ai giardinetti quando non è freddo; alcuni sottolineano esplicitamente l’esigenza di maggiori strutture o luoghi di riferimento, per ritrovarsi, organizzare feste, discutere tra persone che condividano interessi. In un caso, quello del centro sociale autogestito, c’è l’esperienza di chi il luogo di riferimento ha cercato di realizzarselo autonomamente, a costo di affrontare difficili situazioni di contrapposizione ed investendo in questo progetto, oltre a molte energie, anche una propria visione politica, non tradizionale, che cerca una sua collocazione a sinistra.

Diverso è l’orizzonte culturale di molti altri intervistati che tuttavia sottolineano, seppure ognuno in modo diverso, esigenze analoghe e a seconda delle situazioni auspicano maggiori spazi anche nell’ambito di iniziative più o meno tradizionali, ad esempio le Pro-Loco oppure nell’ambito di iniziative degli enti locali, o anche iniziative da parte di privati, fino ad auspicare una maggiore offerta di iniziative culturali o anche ricreative. Leggermente diversa appare la sensibilità a questi problemi tra chi è più vicino ai venti anni e chi è sui venticinque o ventisei anni; uno di questi ultimi sottolinea così la definitiva fase di passaggio al mondo adulto: “Ci vediamo sempre più raramente al bar, oramai lavoriamo tutti, alcuni si sono sposati ed anche io tra poco metterò su famiglia”.

La sfera della politica tradizionalmente intesa esce “con le ossa rotte” da queste interviste e dunque alle istituzioni e alle altre organizzazioni (sindacati, enti locali, istituzioni varie preposte all’orientamento e alle politiche giovanili, la scuola, le organizzazioni tradizionali dell’associazionismo, i mezzi di informazione e il sistema della cultura) si ripropongono, nuovamente e mentre questi ragazzi entreranno nella vita adulta ed altri prenderanno via via il loro posto di giovani, numerose richieste di un più proficuo lavoro (15). Mi auguro dunque che la ricchezza delle esperienze messe a disposizione da questi venti ragazzi possa stimolare ulteriori attenzioni, indagini, riflessioni e iniziative su questi temi, che consentano anche un miglior dialogo e – come diceva uno di questi ragazzi – aiutino a “capire come dobbiamo comportarci, come trovare delle parole più umane.”

NOTE

1. Patrizi T., I giovani, la partecipazione, il lavoro, Prisma n. 28, dicembre 1992; per l’occasione furono raccolti 470 questionari, 280 di di maschi e 90 di femmine, compilati da lavoratori con meno di 30 anni di età e occupati presso il settore meccanico, edile, calzaturiero, alimentare, del mobile e nelle banche; in totale erano 299 operai e 111 impiegati. Le aree indagate hanno riguardato il lavoro, valutazioni e percezione, la partecipazione sindacale, politica e sociale, gli orientamenti di valore, le relazioni interpersonali, il tempo libero e i consumi giovanili,

2. Secondo la terza indagine Iard (Cavalli A. e de Lillo A., a cura di, Giovani anni 90, Il Mulino, 1993), svolta a livello nazionale e rivolta anche a studenti e giovani disoccupati,
i sindacalisti occupavano invece una posizione significativamente più bassa della graduatoria proposta in quella ricerca, che includeva un maggior numero di categorie. La posizione dei sindacalisti risultava più elevata soltanto rispetto ai funzionari dello Stato, al governo, e agli uomini politici che occupavano anche in quel caso l’ultimo posto. Tra le categorie con un valore più alto troviamo invece nell’ordine la polizia, gli insegnanti, i carabinieri, le banche e i sacerdoti, questi ultimi con un giudizio solo parzialmente positivo, e quindi con un giudizio via via più negativo i giornalisti, i militari di carriera, gli industriali, i magistrati, i sindacalisti, i funzionari dello stato, il governo ed i politici. Le differenze più significative con la nostra indagine riguardano l’opinione sui sindacalisti e, in parte, sui magistrati; il primo risultato è senz’ altro influenzato dal fatto che nel nostro campione mancano i giovani, in particolare gli studenti, sotto i venti anni di età, e inoltre i questionari sono stati compilati solo da lavoratori inseriti in realtà sindacalizzate, seppure molti non iscritti al sindacato; nel caso dei magistrati si può ipotizzare che siano state le prime vicende di tangentopoli a far aumentare sensibilmente l’indice di gradimento di questa categoria (le interviste della terza indagine Iard sono state eseguite prima di questo evento e le nostre dopo).

3. Cavalli A. e De Lillo A., a cura di, Giovanni Anni ’90, Il Mulino, 1993.

4. Gli autori di una recente ricerca sui giovani condotta in Emilia Romagna spiegano invece così i loro obiettivi: ‘Tanti (assai meglio di quanto avremmo potuto fare noi) hanno raccontato la famiglia, il mondo della scuola o quello degli amici, nelle loro tipologie e nelle loro dinamiche interne e di relazione. Ma poco ci si è interrogati su un punto: quanto questi mondi incidono poi nel determinare le opinioni e il modo di pensare e di agire dei ragazzi? Qual è la loro capacità di costruire consenso?”; Franchini R. e Guidi D., Supennarket Paradiso, viaggio tra i giovani dell’Emilia /Vssa, Ediesse, 1995. Nel lavoro che presento qui e che segue la nostra indagine di tre anni fa, l’attenzione principale è invece rivolta non agli studenti ma a chi già lavora; inoltre, una differenza ancora più significativa è costituita dall’età, nel nostro caso compresa tra i 20 ed i 26 anni e nell’indagine emiliana tra i 16 ed i 18 anni.

5 Il quotidiano “la Repubblica” del 26 settembre 1995 (servizio di Marina Cavalieri), riporta i dati di una recente indagine del Ministero della Pubblica Istruzione sugli studenti al quinto anno delle scuole superiori: su 100 iscritti al primo anno di scuola media, 3,5 non arrivano neanche alla licenza media e solo 80 si iscrivono al primo anno delle superiori ed appena 47 si iscrivono al quinto anno. Alla fine del 1994 su una popolazione totale in Italia di 836.966 diciottenni, erano solo 450.612 quelli che frequentavano il quinto anno della secondaria. Solo il 19% dei liceali al classico e il 22% allo scientifico non arriva alla maturità, il 32% all’Istituto Tecnico Commerciale e il 44% all’Istituto Industriale. Conclusa la scuola solo il 44% progetta di laurearsi (non tutti però vi riescono), gli altri per una metà si mettono a cercare lavoro e per l’altra metà si iscrivono comunque all’università, per ingannare l’attesa. Il 70% degli iscritti all’università accetterebbe un lavoro, se gli fosse offerto, trascurando gli studi; il 51 % dei diplomati accetterebbe anche un lavoro manuale pur di lavorare.

6. Cfr. Cavalli e de Lillo, op. cit., “Le cifre parlano da sole e indicano non l’attenuazione ma il rafforzamento delle determinazioni socioeconomiche e socioculturali, proprio al livello della scuola secondaria superiore ( … ) rivelando l’incapacità della scuola di far fronte a una nuova domanda di formazione e di integrazione sociale ( … ) svolgendo semplicemente un’azione di consolidamento dei valori propri del nucleo familiare di appartenenza”. Secondo questa indagine, nella stessa percezione dei giovani l’esperienza lavorativa appare nettamente contrapposta a quella scolastica: il lavoro risulta molto importante nella vita per il 67%, la scuola solo per il 35,2%.

7. Gli operatori del Centro di Documentazione, lavoro ed orientamento della Provincia di Ancona, funzionante oramai da sette o otto anni, mi hanno confermato questa situazione: scelte scolastiche mal consigliate talvolta dagli insegnanti stessi o dalle famiglie, entrambi non in grado di dare i giusti consigli perché le informazioni al riguardo sono difficili da reperire, mentre in altri casi si tratta anche di carenza di offerta formativa adeguata, quando di fronte ad una prematura rinuncia scolastica si potrebbe ravvisare la necessità o utilità di adeguati corsi di formazione professionali, oppure corsi di specializzazione utili per integrare le conoscenze talvolta non sufficienti che si conseguono con il completamento delle scuole superiori. La situazione è aggravata dalla mancanza di coordinamento tra le diverse strutture (Pubblica Istruzione, Ministero del Lavoro, Regione, eccetera). Secondo il parere degli operatori molti ragazzi finiscono con lo scegliere a caso, senza una coscienza di ciò che troveranno e senza conoscere bene neanche le loro aspirazioni. Spesso sarebbe utile, oltre a dare informazioni adeguate agli interessati, anche suggerire in qualche modo la metodologia con cui affrontare le proprie scelte personali. In ogni caso, l’attività di orientamento non può esaurirsi con singole conferenze o singoli consigli offerti occasionalmente a chi ne fa richiesta, occorrerebbe al contrario un’attività costante, prevista nell’ambito stesso dei programmi didattici e con un coordinamento costante tra le diverse istituzioni preposte.

8. Secondo l’indagine Iard (Cavalli e de Lillo, op. cil .. ), nei confronti degli insegnanti il punto critico maggiormente evidenziato dai giovani (il 61,7%) risulta l’incompetenza relazionale piuttosto che disciplinare, soprattutto da parte dei giovani che meglio hanno affrontato la carriera scolastica, mentre da parte dei più esclusi il punto maggiormente critico è la disciplina: segue poi al secondo posto, nell’elencazione dei punti critici, l’incompetenza e l’impreparazione nella materia. Tale giudizio critico nei confronti degli insegnanti viene espresso indipendentemente dal valore riconosciuto all’insegnante rispetto ad altre categorie sociali e istituzionali. “l giovani vedono dunque la scuola ( … ) come ambito di socializzazione tra pari e acquisizione di un cultura piuttosto generica dove i rapporti con gli adulti restano comunque problematici e l’acquisizione di capacità professionali si rivela ancora una volta il vero punto debole del sistema di istruzione” e dunque chiedono una scuola più educativa ed anche maggiore competenza disciplinare, didattica e relazionale, maggior rispetto e considerazione per la personalità degli allievi. Secondo l’indagine emiliana (cfr.nota4), l’atteggiamento verso gli insegnanti degli studenti sedicenni/diciottenni è comunque di “distacco”: il 54,9% risponde che i professori “fanno il loro mestiere” e soltanto il 29,8% riferisce che sono preparati e disponibili, anche se poi il 46,2% risponde che gli insegnanti sono comunque importanti per il formarsi delle proprie opinioni.

9. Secondo un’indagine curata da Elena Gregori del Centro di Documentazione della Provincia di Ancona, in collaborazione con il distretto scolastico n. 8 di Jesi, su 495 iscritti nell’anno 94/95 all’ultimo anno delle scuole superiori del distretto in esame, il 30,9% afferma che, se dovesse ricominciare, opererebbe una diversa scelta scolastica; le punte più alte si hanno all’Istituto Tecnico indirizzo elettronico (il 55,8%), all’Istituto Tecnico indirizzo telecomunicazioni (il 50%), all’Istituto Tecnico Commerciale (il 47,2%), all’Istituto Tecnico indirizzo tessile – abbigliamento (45%), all’Istituto Professionale Alberghiero (il 44,5%), all’IPSIA (il 41,7%); valori elevati si hanno anche presso l’Istituto Magistrali e l’Istituto Tecnico indirizzo informatico. Inoltre, nel totale, solo il 52,8% proseguirà gli studi; le percentuali più elevate, attorno all’ 80/90%, riguardano solo i licei; nonostante ciò soltanto il 24% afferma con chiarezza di sapere cosa esattamente fare appena ‘conquistata la maturità; insomma, dopo cinque anni di scuole superiori, appare come un dato un po’ allarmante.

10. Questo ragazzo è in pratica “un’autodidatta” che per imparare ha avuto solo qualche riunione preliminare con l’analogo operatore di un centro simile del sindacato in un’altra città (“ora non so se lì funziona ancora, credo di sì ma non ci siamo più sentiti”); ugualmente scarsi se non assenti i contatti con altre strutture pubbliche (“non sono mai andato al centro di orientamento della provincia, invece una volta sono andato all’Agenzia Regionale per l’Impiego”); insomma, sembra un po’ poco: “dovremmo ‘buttarci a capofitto’ in questa attività ed invece ancora abbiamo fatto poco di tutto quello che avevamo in mente, ora stiamo pensando di aprire oltre ai due pomeriggi a settimana anche una volta durante la mattina”. La banca dati delle richieste di lavoro è costituita in realtà da un piccolo archivio cartaceo, non esiste un computer. In ogni caso: “ho comunque la piccola soddisfazione di avere aiutato qualche ragazzo, che so che poi è riuscito a trovare lavoro”. In seguito ho verificato che nell’altra città citata dall’intervistato, il Cid esiste ancora e forse in maniera più stabile; anche in questo caso il lavoro è prestato volontariamente da alcuni giovani disoccupati o con occupazione recente, che dunque vengono nel loro tempo libero, con un orario non sempre regolare; ciò crea forse qualche problema all’utenza, che comunque continua a rivolgersi a loro. In questo caso inoltre esiste un collegamento un po’ più stabile con il locale “Informagiovani” ed inoltre c’è il tentativo di fornire anche informazioni su altre questioni, come i diritti sul lavoro, il funzionamento di istituti come il part-time o i contratti di formazione e lavoro o sui corsi di formazione: insomma, una specie di ‘prima accoglienza’ per i giovani, da indirizzare eventualmente, per gli approfondimenti, ai funzionari del sindacato competenti sui singoli problemi. Anche questi operatori lamentano però un’attenzione non sufficiente alla loro attività ed il pericolo di rifluire di continuo ad un livello di servizio troppo precario; scarso inoltre il coordinamento con altri settori del sindacato ed anche con gli altri Cid esistenti nella provincia, quasi nessun collegamento inoltre con i Cid esistenti nel resto della regione.

11. Oltre ai dati sulla sindacalizzazione riportati nella premessa di questo articolo, possiamo ricordare, dall’indagine lard già citata, che: “in una lista di quindici organizzazioni, gruppi, associazioni ed iniziative collettive, il sindacato viene all’ultimo posto nell’interesse degli intervistati, dopo i club di tifosi, gli scout e le associazioni turistiche. Questi dati sono in linea con quanto emerge dall’Eurobarometro del 1990, dedicato ai giovani dei paesi della Cee (…) mentre i paesi più sindacalizzati raggiungono appena il 10% come in Germania Occidentale ed in Gran Bretagna. Nel panorama europeo di declino della partecipazione sindacale i giovani rappresentano la componente più critica. La situazione è particolarmente grave in Italia, perché a tassi di sindacalizzazione complessiva stimabili attorno al 40% nella seconda metà degli anni Ottanta, la sindacalizzazione giovanile è particolarmente bassa, simile a quella di paesi come la Francia e la Spagna, il cui tasso di sindacalizzazione complessivo risulta più basso in assoluto, attorno al 15% (…) i sindacati in Italia sono rimasti estranei al secondo miracolo economico degli anni Ottanta, quello che ha permesso a molti giovani di oggi di entrare nel mercato del lavoro. Il sindacato infatti ha sempre difeso l’occupazione delle grandi aziende, dove le assunzioni di giovani sono state marginali negli ultimi dieci anni ed ha visto svilupparsi la piccola impresa diffusa e del terziario come una vittoria deregolativa e neo conservatrice del grande capitale. Anche nelle grandi fabbriche la rappresentanza sindacale di base è rimasta a lungo impermeabile al ricambio della forza lavoro, a causa di una diffusa incapacità di rinnovare i consigli dei delegati, rimasti a lungo espressione delle leve anziane della forza lavoro ( … ) i sindacati si sono posti tradizionalmente obiettivi concreti di tutela del salario, di riduzione dell’orario e di miglioramento delle condizioni di lavoro ( … ) i giovani non sono insensibili a questo, poiché i tassi di sindacalizzazione aumentano significativamente tra coloro che condividono una concezione strumentale del lavoro, ma è anche vero che questa concezione tende ad essere sostituita dal lavoro come opportunità di realizzazione”: A. Cavalli e A de Lillo, op. cit.

12. Secondo la nostra ricerca di Ires Cgil Marche di tre anni fa, solo il 2,8% degli intervistati si interessava di politica e solo il 5, l % era iscritto ad un partito politico: secondo le diverse indagini Iard la percentuale di giovani che si considerano attivamente impegnati nella politica oscilla dal 3.3% del 1983 al 12,3% del 1987 al 3.3% del 1992; secondo l’indagine emiliana (cfr. nota4), gli studenti sedicenni/diciottenni che preferiscono seguire gli argomenti politici alla televisione o sui giornali sono appena il 6,6% mentre il 60,7% afferma comunque che non esiste un’informazione vera e solo il 9,2% ritiene che un’informazione è vera se la dice la TV; il massimo riconoscimento di verità lo raggiungono i genitori con un misero 15,8% di consensi.

13. Nel 1994 in Italia i minori denunciati per i quali l’Autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale (periodo gennaio-ottobre) erano 21.300, di cui 636 nella nostra regione; nel 1992 i minorenni condannati erano in Italia 1.897. “A partire dai primi anni ’80 il discorso di recupero della qualità della vita viene a cessare e le politiche giovanili si orientano con forza in direzione della prevenzione del disagio. Il mondo adulto ha smesso di occuparsi dei giovani e si preoccupano solo per le conseguenze di alcuni comportamenti “a rischio”. Il fenomeno delle tossicodipendenze ha fortemente contribuitola spostare l’attenzione sulla prevenzione, pure necessaria ma certo non in grado di soddisfare le esigenze e le aspettative del mondo giovanile. Con la Legge 216 il modello di azione preventiva si è esteso ai fenomeni di microdelinquenza (…) tutti i progetti giovani nascono per ‘evitare che’, quando erano nati da presupposti molto più ampi (…) nessun altro tipo d’intervento nei confronti dei ragazzi che non esprimono le proprie difficoltà in modo così dirompente è stato intrapreso. Le popolazioni giovanili si sono sentite abbandonate, hanno percepito l’area delle politiche giovanili come estensione dell’area del consenso sociale e se ne sono allontanati, aumentando il loro distacco dal mondo degli adulti, alimentando sottoculture esclusive. Questo è ancora più evidente nei meccanismi della trasgressione: oggi si trasgredisce non rispetto ad un mondo adulto percepito oramai totalmente estraneo, ma spesso contro le culture giovanili dominanti, nella scelta dell’abbigliamento diverso, della musica underground, di locali in ‘controtendenza’. Gli adulti spariscono totalmente dal panorama di riferimento del mondo giovanile, non rappresentano più neppure la contrapposizione”; Duccio Scatolero, intervista a cura di Giorgio Morbello. Politiche giovanili e criminalità minorile, contenuta nell’inserto “Suole di vento”, rivista dell’intervento sociale La Terra vista dalla Luna, luglio-agosto 1995 (anche i dati citati all’inizio della nota sono elaborati dalla redazione di ‘Suole di vento’).

14, Quasi nessuno degli intervistati tuttavia ha discusso di tali questioni in termini di “politiche”, limitandosi più che altro ad esprimere esigenze più o meno personali: la richiesta di uno spazio, di un centro sociale che non c’è, più iniziative culturali o sportive, un locale in più, ecc., indirizzando più o meno tale richiesta alle istituzioni, qualcuno auspicando magari un’alternanza nella guida dell’amministrazione locale; solo in un caso un intervistato aggiunge in modo più esplicito: “Il Comune esiste perché la gente va a votare, fa il suo lavoro e va bene però è anche miope, non si rende conto che certi atteggiamenti o iniziative non vanno, cerca solo di inglobare o trovare consenso (…) è sempre pieno di cavilli e burocrazia, organizzare una cosa semplice diventa un ‘monumento’, non è più una passione ma un mestiere (… ) si preoccupa solo quando i giovani vanno fuori dai binari (…) un Comune è qualcosa di astratto, ci vuole dietro una comunità che partecipa e lo sorregge (…) bisogna offrire ai giovani gli spazi e gli strumenti per farli partecipare in prima persona ( … ) non basta organizzare una rassegna di film”.
In ogni caso, negli ultimi anni in Italia sono state proposte da un numero crescente di Enti locali e di associazioni diverse iniziative conosciute come “politiche giovanili”; tra queste gli osservatori segnalano il successo crescente degli “Informagiovani” e in molti casi sono stati avviati progetti educativi per gli adolescenti tra i 12 e i 18 anni di età, coinvolgendo sia le associazioni storiche (Arciragazzi, Agesci, ecc.) che le istituzioni, quali la scuola. Gli operatori più impegnati lamentano tuttavia la mancanza a livello nazionale di un coordinamento, quale ad esempio un Osservatorio sulle politiche giovanili o un dipartimento per le politiche giovanili; scarse negli ultimi anni anche le ricerche sui giovani e sulle iniziative condotte, così che diventa problematico anche tracciare una valutazione delle esperienze già tentate; recenti ricerche -ad esempio del Gruppo Abele- stimano che un Comune ogni tre con meno di diecimila abitanti ha avviato negli ultimi anni “progetti giovani”. Sarebbe interessante poter verificare e valutare le attività avviate, anche nella nostra regione: discutendo con alcuni operatori e amministratori locali si ha l’impressione che spesso ci si muova in modo ancora “sperimentale”, con coordinamenti solo tra poche realtà, sulla base di conoscenze più o meno personali di amministratori di altre città e basandosi su uno scambio generico di informazioni, seppure non mancano occasioni di esperienze formative o di scambi più approfonditi. “In molti progetti non risultano sufficientemente esplicitate le premesse, le finalità e le strategie che presiedono alla realizzazione dell’intervento. Non essendo chiari i riferimenti – anche teorici – del progetto, risulta assai spesso difficile interpretare il significato delle singole azioni progettuali”, (Piergiorgio Reggio, La qualificazione metodologica delle azioni progettuali, in Roberto Maurizio (a cura di), “Politiche Giovanili”, rivista di Animazione Sociale, gennaio 1993). “Il futuro delle politiche giovanili va ripensato tenendo presente una ripresa che riguardi l’assunzione delle seguenti capacità: (…) analisi della situazione tenendo a riferimento i giovani ma non isolandoli dal contesto ( … ) avere come destinatari non solo i giovani ma anche gli adulti ( … ) perdere i connotati troppo specifici e diventare trasversali alle politiche formative. del lavoro, dei servizi (…) non avere la pretesa di insegnare ‘chi sono i giovani’ e ‘cosa vogliono’ ma stimolare nella comunità locale il senso di ascolto (…) un’attitudine alla modestia, per cui i Progetti Giovani non devono autoperpetuarsi, ma porsi obiettivi e tempi limitati, ritirandosi nella misura in cui il soggetto acquisisce autonomia e responsabilità” (Marco Orsi, Le politiche giovanili come Supporto alla transizione verso la vita adulta. in Roberto Maurizio, a cura di, cit.).

15. Un coordinamento delle politiche giovanili risulta necessario anche a livello locale; le Regione Marche a questo proposito ha varato in data 8 marzo, poco prima della fine della precedente legislatura, una Legge Regionale che prevede un coordinamento a livello provinciale delle iniziative avviate a vario titolo dagli Enti Locali, affida alla Giunta Regionale il compito di predisporre un piano triennale delle attività e prevede l’istituzione in un Osservatorio dei bisogni giovanili. La somma stanziata per il 1995 è prevista in lire 400 milioni complessive, mentre per gli anni successi vi deve essere stabilita sulla base di successive delibere: non sembrano grosse cifre. Inoltre la legge non specifica le modalità né vincola in termini precisi le scadenze e gli impegni. Sarà ovviamente compito del nuovo Governo regionale attuare tali disposizioni, ed anche delle Province, considerato il loro ruolo di coordinatori provinciali.

Una risposta a I giovani e la partecipazione

  1. Pingback: La politica (ieri, oggi e …) | tulliobugari

Lascia un commento