Bloody Sunday (30 gennaio 1972)

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30 gennaio, anniversario della “domenica di sangue” del 30 gennaio 1972. Uno degli episodi più tragici della Troubble nord irlandese: circa 3 mila morti in totale, fino agli accordi di pace del 1998. E’ un triste anniversario (coincide, tra l’altro, con un’altra triste ricorrenza, quella dell’uccisione di Ghandi, nel 1948).
Ora pare che nell’Irlanda del Nord ci sia di nuovo qualche problema ed è bene prestargli ancora un po’ di attenzione.
Nel 2006 feci un viaggio, insieme a Giacomo Scattolini, a Belfast e a Derry: ne ricavammo un reportage per Avvenimenti. A quella data, ancora – dopo 34 anni – l’iter giudiziario era ancora aperto e il governo inglese non aveva mai chiesto scusa; lo ha fatto solo di recente il premier Cameron. Ho ritrovato gli appunti che presi durante quel viaggio; riporto qui la parte che riguarda proprio il “bloody sunday”. Aggiungo anche qualche foto, il vero servizio fotografico però lo fece Giacomo, potete trovate un po’ di foto sul suo blog “Immagini fuori fuoco“, insieme ad altri suoi servizi. La mia particolare emozione in quel viaggio fu dovuta all’incontro con alcuni dei familiari delle vittime, anche loro in piazza insieme ai loro cari in quel lontano giorno. Emozione perché erano miei coetanei – potevo esserci anch’io insieme a loro – così mi hanno spinto a ricordare dove ero io quel giorno in quello stesso momento, e sono riuscito davvero a ricordarmelo, per una coincidenza molto particolare. Accadde negli stessi giorni del terremoto di Ancona, e così riuscii a ricordarmi dopo 34 anni dove ero, cosa facevo – avevo venti anni – e anche l’eco che di quel sangue m’era arrivato allora dal Nord Irlanda. Una nota curiosa: nelle ricerche che feci dopo per focalizzare meglio tutta la storia, scoprii, addirittura, che Paolo VI nella preghiera domenicale parlò, insieme, della strage di Derry e del terremoto di Ancona.
Buona lettura.

Unknown“Entro in una libreria e trovo il libro “Bloody Sunday: trauma, pain and politics”, scritto qualche mese fa da due autori, Patrick Hayes e Jim Campbel. Patrick è un clinico sociale cresciuto a Bogside, nella città di Derry che sto visitando in questi giorni di gennaio 2006. Jim è nato da una famiglia lealista e insegna da diversi anni all’Università di Belfast. Insieme si sono occupati del trauma delle famiglie delle vittime del Bloody Sunday, la domenica insanguinata del 30 gennaio 1972, dimenticata e rimossa più volte in questi 34 anni che sono trascorsi, ricordata dagli U2 con una celebre canzone.

Sfoglio il libro e mi accorgo che i due autori hanno svolto le loro interviste negli ultimi dieci anni, e non allora, al tempo dei fatti. Percepisco che l’antica ferita è ancora aperta e il tentativo di rimozione non ha funzionato. Non funziona mai. C’è qualcosa di più forte, nelle storie delle persone, che le sottrae allo scorrere del tempo e le ferma in qualche altro luogo della mente rimasto bloccato.

Leggo gran parte del libro nelle prime ore dopo l’acquisto, disteso nel letto dell’ostello in cui alloggio insieme all’amico Giacomo, ad un passo dal quartiere di Bogside, dove avvenne la strage. Siamo già stati a visitare il luogo e a fotografare i murals che ricordano la battaglia di Bogside, avvenuta qualche anno prima, quando nell’agosto del ’69 i manifestanti tennero il quartiere per alcuni giorni e decretarono la libera repubblica di Derry.
Le prime cose che mi sembra di capire, leggendo il libro, riguardano il trauma delle famiglie e il fatto che non può trattarsi solo di un dolore individuale, della perdita di un proprio caro. E’ qualcosa di più, un dolore collettivo, pubblico, quello di un torto più grande della storia ma compiuto da uno Stato che si professa addirittura democratico, che per di più non si è mai preoccupato di riparare al torto, chiedere scusa. L’ufficiale che guidò quel battaglione di paracadutisti inglesi mi pare sia diventato generale, dovrebbe aver guidato i soldati di sua maestà in Kossovo e poi a Bassora. Tutto è sospeso, la ferita è ancora aperta, giustizia non è stata fatta.
Credo di capire per la prima volta come uno stress postraumatico in realtà ha bisogno di una dimensione politica per sciogliersi e liberare quei familiari dal ruolo pubblico a cui per tanti anni si sono trovati legati, costretti a testimoniare al mondo l’ingiustizia che hanno subito. Gli stessi autori del libro ad un certo punto citano l’esperienza del Sud Africa di Mandela e della commissione di riconciliazione, quando gli autori degli antichi torti iniziarono a chiedere davvero scusa.
“Come si fa a far finta che non sia successo nulla”, raccontava a me e Giacomo circa dieci anni fa una signora bosniaca incontrata a Stolac, nella zona di Mostar, il cui marito durante la guerra aveva perso la vita a causa dei torti subiti dai suoi stessi concittadini. E’ vero, non si può banalizzare il perdono, ci vuole qualcosa di più. Questo concetto del “chiedere scusa” mi piace, e le scuse non possono che essere sincere, altrimenti non valgono. Chi ha commesso un torto se le deve guadagnare le scuse.

Poi nel corso della serata, appena qualche ora dopo, senza che potessi neanche immaginarlo, incontro proprio alcune delle persone di cui si parla nel libro. Certo non siamo capitati lì per caso.
Il museo per ricordare il Bloody Sunday si trova al primo piano di un palazzo e si entra attraverso una scala stretta. E’ un posticino all’apparenza dimesso, anzi, è dimesso sul serio. Le porte e le finestre sono protette da fitte grate di ferro, per proteggerlo. Entriamo. Lungo le scale ci sono i manifesti dei trenta e più anni di manifestazioni, uno ogni anno, per ciascuna ricorrenza. Sono realizzati con grafiche anche molto diverse tra loro, un riflesso del tempo che evolve, o che dovrebbe farlo. Alcuni solo colorati, altri più a lutto, alcuni con le foto della manifestazione di allora, altri disegnati. Sicuramente, se conoscessi dall’interno la storia di questi anni sarei in grado di associare il tipo di grafica agli umori e alle vicende esatte di ogni specifico anno. Potrebbero essere loro stessi, questi manifesti, un racconto storico.

bloody1Entriamo. Si tratta di una sola stanza piena di fotografie della giornata di allora. Ci sono due persone. Una è Jean Hegarty, sorella di Kevin Mc Elhinney, ucciso all’età di diciassette anni. Jean ci dice che le grate alle finestre servono solo per proteggersi da teppisti politici e che la situazione con i protestanti in realtà è calma da molto tempo. Dice anche che non importa se il museo è piccolo e altri musei di Derry (noi ne abbiamo visitato uno poche ore prima) sono molto più belli e hanno più soldi. Tra qualche mese si trasferiranno in un altro locale, nuovo, a Bogside, più grande, e ci sarà una cerimonia di inaugurazione. Nelle guide turistiche che qualche giorno fa ci avevano distribuito all’Ufficio Turistico questo nuovo museo, che ancora non c’è, è già indicato. Infatti ieri seguivamo le indicazioni della guida ma non riuscivamo trovarlo: lo abbiamo chiesto a diverse persone, abbiamo fatto un’involontaria promozione del nuovo museo, solo alla fine uno dei passanti, più informato degli altri, ci ha spiegato che il museo che cercavamo si trovava ancora nella vecchia sede.

Derry2L’altra persona è John Kelly, fratello di Michael, anche lui ucciso all’età di diciassette anni.  Molti di quei ragazzi avevano solo diciassette anni.  John era il fratello maggiore di una famiglia numerosa, c’è una foto che li ritrae tutti insieme, ce la mostra. John allora aveva 23 anni e suo fratello appena 17, lo si può vedere lì con una faccia veramente da ragazzino, che in quella foto sorride timido, ha i capelli corti e neri. E una vita davanti, ma solo per poche ore. Guardiamo le foto di quella giornata, i soldati con i fucili puntati, le persone cadute a terra ferite o già colpite a morte. Ci sono anche le foto degli uccisi nella loro vita precedente a quel giorno di morte. John ci dice che molte delle foto che vediamo sono del giornalista italiano Fulvio Grimaldi, che quel giorno era andato a Derry per riprendere la marcia per i diritti civili.

Nel museo un paio di anni fa un gruppo di ragazzi quindicenni ha realizzato un plastico, con del semplice cartone e legno leggero, pitturato in modo semplice, per riprodurre la scena di Bogside di quel giorno. Vi sono riprodotti anche i palazzi che non oggi ci sono più, e le strade dove l’esercito ha attaccato il corteo. Ci sono le foto degli uccisi collocate nel punto in cui furono uccisi. Jean e John raccontano come si svolsero i fatti e ci indicano dove sono morti i loro fratelli, il posto dove anche John si nascose per sfuggire alla strage. John racconta tranquillo e preciso, come se i suoi ricordi fossero stati sottoposti a un operazione di restauro continua, per mantenersi freschi ed essere percepiti con immediatezza. Sono trascorsi 34 anni e parla come se fosse accaduto ieri. Quest’anno faranno ancora una nuova manifestazione. Ancora aspettano che sia resa giustizia.

Jean è una donna piccola, con un viso sorridente e comunicativo. Quando Giacomo gli chiede se può fotografarla vicino alla foto di suo fratello lei lo fa ridendo tranquilla, come se si trattasse di una foto qualunque, si schermisce come qualsiasi donna che per vezzo deve esorcizzare un po’ il fatto di essere fotografata. Mi colpisce questo modo. Sicuramente in questi anni glielo avranno chiesto già decine di volte, come se il tempo non fosse passato e lei fosse ancora la ragazza ventenne di allora. O forse proprio noi siamo il segno che ancora esistono persone che si interessano a una vicenda non del tutto dimenticata. Mi colpisce ugualmente la sua tranquillità.
Certo, sono trascorsi 34 anni e quindi il dolore è da un pezzo che è stato riassorbito, che si è sedimentato sotto agli sguardi di tanti.
Come si rielabora un lutto, una frattura? E in  quanto tempo? E quali tracce comunque lascia, indelebili? Quanto è grande e di che materia è fatto il rimosso delle nostre storie, che da sotto ci spinge, ci rende traballanti, rende incerto il suolo su cui poggiare il piede?

bloody-sunday-locandinaPiù tardi, quella sera a Derry,  di nuovo nella mia camera, continuo a leggere il libro che ho appena comprato e che parla proprio di loro, dei familiari, anche di Jean e John. Le parole si sovrappongono alle immagini, a quelle dei murals di Bogside, a quelle delle foto sulla tragedia di allora, a quelle del film di Paul Greengrass sulla giornata del “Bloody Sunday”, bello da vedere e tragico da immaginare davvero. Ricordo, nel film, quelle persone che cantano una canzone di pace, “We shall overcame”, come in tanti nel mondo cantavamo in quegli anni. Vedo i blindati e le prime scene di autodifesa, di donne e ragazzi che scappano. Vedo le prime scene di guerriglia, la popolazione che si barrica dentro la libera repubblica di Derry, nel quartiere di Bogside. Molti furono i feriti. I morti 14 – i loro volti sono dipinti insieme sulla parete di una casa. La maggiorparte di loro diciassettenni. Diversi colpiti alle spalle. Tutti disarmati.”
Derry, 6 gennaio 2006

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