Praga, pensieri sparsi

kafkaQuella descritta da Kafka mi sembra una realtà sospinta dall’irrealtà, e la sua scrittura ne è il punto di contatto, dove i due piani si riuniscono ma come in un sogno capovolto. Quale dei due piani sia più reale dell’altro, non è affatto scontato, non si può conoscerne uno senza prestare una precisa attenzione anche all’altro. La sua scrittura non è un sospingersi attraverso la notte nei panni di un doppelgänger, per poi ritrarsi all’alba e tornare a sé; il doppelgänger è dentro di noi ed è un tutt’uno con noi, non esiste altrove o separato, è la nostra stessa sintesi, lo sguardo che va oltre o sotto, e rovescia i punti di vista. Nel 1916, mentre Kafka scriveva i racconti raccolti sotto il titolo Il medico di campagna, l’Europa era una contorta e infinita trincea dove l’umanità si stuprava o usciva di senno. Mi pare che Kafka scrisse che la guerra aveva trascinato tutti dentro una labirinto di specchi deformanti. “Botte da orbi” scrive il suo contemporaneo Hašek, nel romanzo antimilitarista Il buon soldato Sc’vèik. In quel periodo Kafka si recava, per scrivere, nella minuscola abitazione del vicolo d’oro, o degli alchimisti, incastrata tra le strette mura del Castello. Aveva bisogno di un luogo congeniale, lontano dal frastuono della città o dal disordinato vociare rumoroso dei vicini. Visitare Praga oggi, dopo cento anni, è più che un paradosso, trascinati nei gorghi delle fiumane turistiche; è assai più placida la corrente della Moldava, maestosa, possente e profonda.  Era una casa piccolissima e nascosta quella al vicolo d’oro, come le casette della barbie, o dei modellini giocattolo. Mi pare che Kafka vi andasse solo per scrivere. Arrivava alla sera, si chiudeva dentro a chiave, mi pare che avesse solo un tavolo e lo stretto necessario, poi nel cuore della notte o al mattino presto, se ne usciva e tornava giù in città, nell’altra abitazione, o al suo lavoro presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro (in proposito, mi pare anche che disse, degli operai: “Che modestia, vengono qui e chiedono a noi, invece di entrare e fracassare tutto”).  Una vita doppelgänger, in quei vicoli incontrava se stesso, e raggiungeva le bassure dello scrivere, come diceva, perché si può scrivere solo così, solo in un contesto simile, con una tale apertura completa del corpo e dell’anima. Io non sono sceso giù al vicolo, troppa era la calca dei turisti, mi sono limitato a osservarlo dall’alto, dalle finestre del museo del gioco, mentre ero accanto, appunto, alle casette in miniatura per i giochi dei bambini delle famiglie alto borghesi di inizio novecento. Quelli delle classi proletarie, vi abitavano, in ambienti più spogli però, solo la dimensione era analoga. Il museo sorge in quella che nei secoli passati era la torre dei supplizi e delle torture, e delle esecuzioni. Tutto qui, a stretto contatto, come un altro tipo di doppelgänger. Le casette nel vicolo di sotto sono da lillipuziani, immagino che Kafka, di statura alta, arrivasse al soffitto. Durò meno di un anno l’idillio di Kafka con questo luogo ma fu un anno fecondo, come se un gorgo imprevisto, oppure programmato, avesse rimescolato tutto. Il suo sentirsi nel mondo e il sentire stesso di quel mondo. Nel vicolo d’oro, o degli alchimisti, a scrivere e scrivere,  cercando tra le pieghe dell’anima le reazioni chimiche capaci di aprire a chissà quali metamorfosi. Troppo grande per me, oggi, la fiumana di gente turistizzata fatta affluire nel vicolo, come una diga quando cedono le paratie, ma la città è ampia, assai ampia, e profonda, piena di angoli e anfratti, sotterfugi, sorprese, forse è capace di lasciarsi invadere, esserne all’altezza, in fondo l’ha già fatto più volte, rinascendo. Altre città immagino che sopporterebbero più rassegnate, come Venezia ad esempio, nel suo lento e inesorabile affondamento. Qui si respira una magia più solida, annidata in tanti punti nascosti, puoi tentare o fingere di esserne all’altezza solo se non vai di fretta, e comprendi che tanto non riuscirai a toccarla davvero. È già molto il solo sfiorarla, e poi ripassarci di nuovo. Sai che qui non bastano pochi giorni. Nemmeno una vita, direbbe l’autore di Praga magica, Angelo Maria Ripellino, anche perché nel frattempo la città non se ne sta ferma ad aspettarti, è in perenne metamorfosi, la sua storia ti circonda con gli stucchi barocco e rococò disseminati in ogni palazzo di ogni angolo. La cultura è una parola che sintetizza ciò che sfugge, e vive a strati, come specchi che si rimandano tra loro gli sguardi, spostando gli oggetti, le prospettive, gli avvenimenti. E di avvenimenti questa città ne ha avuti tanti, molti già turistizzati dalla nostra epoca, come gli stessi percorsi di Kafka, presenti su tutte le guide, citati anche frettolosamente, per il piede svelto del turista, appena il tempo di una foto e via. Miliardi di foto e triliardi di selfie ovunque, davanti alle sinagoghe, sui ponti, sotto al monumento a Kafka nei pressi della sinagoga spagnola, ma anche in una galleria commerciale o sulle scale mobili della metro, ogni posto è buono, si cerca un senso anche dove non c’è e se c’è è sicuramente un altro ma non importa, non è quello che si cerca. A Terezin, un’ora di corriera fuori Praga, ne ho visti perfino che si scattavano selfie davanti alle celle degli ebrei deportati, anche loro ridotti a selfie, senza nemmeno un doppelgänger. Terezin, o il suo senso, in realtà, doveva già essere nell’aria quando Kafka scriveva venti anni prima: lui morirà nel ’24 di tisi, le sue tre sorelle moriranno tutte e tre in un campo di sterminio. Terezin era un campo di transito ma vi morirono ugualmente a decine di migliaia, molti i bambini. Chi non moriva lì, di stenti o malattie, lo inoltravano ai campi di sterminio veri e propri. Anche la data di morte di molti artisti ebrei di Praga, tanti, è bloccata a quegli anni. Il macellaio di Praga, o di Hitler, così era chiamato già al suo tempo il governatore nazista Reinhard Heydrich, fu ucciso in un attentato dai partigiani cecoslovacchi con il supporto di incursori inglesi nel ’42. Era il numero due dopo Himmler, il più alto in grado ucciso in un attentato durante tutta la guerra. Grazie a una spia il commando fu poi braccato e preso, o forse si uccisero per non essere presi, nei pressi di una chiesa dedicata a Cirillo e Metodio. C’è una lapide con dei fiori ancora oggi. Qui nessun selfie in agguato, anzi, ho faticato un po’ a scovare la lapide. I nazisti per vendicare il macellaio sterminarono un intero paese, Lidice, alla periferia di Praga, e poi per ricordarlo gli dedicarono l’Operazione Reinhard, il piano per la costruzione dei primi tre campi di sterminio di Treblinka, Sobibór e Bełżec. Terezin era già stata una fortezza e una prigione, era morto lì in una cella, nel ’18, Gavrilo Princip, che nel ’14 davanti alla Vijećnica di Sarajevo aveva ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie. Non ho visto scattare selfie nemmeno davanti alle lapidi che ricordano Jan Palach e Jan Zajíc in piazza San Venceslao. Forse perché le due lapidi sono a terra, troppo in basso per un selfie, o magari ero io a essere distratto e qualche selfie me lo sono perso. Anche queste lapidi ho faticato un po’ a trovarle ma la città è grande e profonda, capace di conservarle insieme al loro ricordo, di conservare tutto questo e tanto, tanto altro, che si può scoprire procedendo adagio, ai margini delle fiumane, attardandosi, fermandosi, o nelle ore insolite, aspettando pazienti che i suoi angoli si aprano da soli, o anche soltanto i loro echi. Scegliendo tranquilli tra la miriade dei suoi musei, gallerie d’arte, concerti musicali, i tanti teatri, librerie, le esposizioni di tutto dove nessun particolare è a caso, le porcellane, i cristalli, minuterie, marionette e giù giù fino alle cianfrusaglie, non ne ho mai viste di tanta varietà, accatastate in angoli o in fondo a vicoli impensabili, e poi caffè di tutti i tipi, gallerie, ritrovi, birrerie, piazze, parchi, isole, ponti, la Praga in alto e la Praga in basso ce n’è per tutti i gusti, i tanti giovani presso gli ostelli, la Praga a strati, a grovigli, luminosa e misteriosa, alle prese con la sua invasione turistizzata, che la sorvola, ci scivola dentro, fa il pieno di selfie, e chissà di che altro.

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