“In piedi, dannati della terra”, appunti dalla rilettura di Fanon

Fanon “Inconsciamente, forse (…), non potendo far l’amore con la storia presente del popolo oppresso, non potendosi stupire della storia delle loro barbarie attuali, hanno deciso di andare oltre, di scendere più in basso ed è, non abbiamo dubbi, in eccezionale giubilo che hanno scoperto che il passato non era affatto di vergogna, ma di dignità, di gloria e di solennità.”

È con grande una emozione che ho riletto, a distanza di tantissimi anni, “I dannati della terra” di Frantz Fanon. Un’emozione complessa, somma di più emozioni. Perché ha risvegliato il ricordo di allora, e le emozioni suscitate allora. Era l’inizio degli anni Settanta, avevo venti anni e partecipai per caso – non era del mio corso di studi – a un seminario sulla rivoluzione algerina. Così la chiamavamo, dopo aver visto al Farnese “La battaglia di Algeri“. Erano gli anni delle “vittoriose” lotte di liberazione, della lotta in corso dei vietkong, c’era stata in quei giorni a Belfast “la domenica insanguinata”, il “bloody sunday”, e nella mia camera di ventenne avevo un manifesto di Angela Davis. Un bel cocktail. Certe mattine ci alzavamo alle quattro per andare nei quartieri di Roma dove era atteso l’arrivo della polizia, sempre in orario nel tentativo eseguire gli sfratti e cacciare i baraccati che avevano occupato gli appartamenti vuoti delle grandi società immobiliari.

“I dannati della terra” l’avevo letto come un libro immediatamente politico, allo stesso modo del diario del Che, di “Stato e rivoluzione” di Lenin o di “Stato e anarchia” di Bakunin, tanto per rendere l’idea – “in piedi, dannati della terra” recitano le prime strofe de l’Internazionale – ma non leggevo solo questi a quel tempo, il coktail delle letture era altrettanto variegato. Tendevo però a privilegiare, leggendo questo libro, – mi pare di ricordare ma occorre anche saper diffidare dei propri ricordi – la “tattica”: ci sono nel libro descrizioni mirabili sulle dinamiche politiche, sociali e culturali, complesse, dialettiche – “I dispositivi del potere” – che un popolo affronta nel suo processo di liberazione. Dinamiche mai descritte da Fanon in modo sbrigativo ma ritornandoci più volte, da diverse angolazioni. Mi pare anche di ricordare che allora il capitolo più letto da tanti fosse il primo, sulla violenza, e che l’analisi dell’alienazione la dessimo un po’ troppo per scontata, come uno slogan anziché come un’emozione darivivere sulla propria pelle. Nella lettura attuale, messe da parte “le tattiche” della lotta “quotidiana”, – e che comunque non vanno mai disgiunte dalla “strategia” e dalla visione del proprio futuro – mi sono immerso di più in quelle dinamiche complesse, come se oggi sapessi in che modo è andata a finire e ho bisogno di ricomprenderlo meglio, osservandolo con uno sguardo d’insieme.

Il soggetto della frase citata all’inizio è “l’intellettuale colonizzato”. Probabilmente parlava di se stesso, Fanon. È con questa figura che ora mi sono identificato. Non tanto per l’essere un intellettuale: anche se talvolta attorno a me tendono a darmi questa etichetta, io non sono mai riuscito a sentirmi tale, attribuendo quella parola all’accademico, o al professionista o notabile di classi sociali con una storia ben definita. Io sono figlio diretto di contadini, espressione di una diversa classe, e questa matrice di fondo l’ho sempre rivendicata. L’altro lato del termine, il “colonizzato”, non so bene perché ma riesco a sentirlo più vicino.

Scrive Carlo Levi nel suo “Cristo s’è fermato a Eboli”: “I contadini non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel 1865; erano dunque passati settant’anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci stati, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, com una passione presente e viva (…) Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme (…) non avevano nulla dei romani, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale dai tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente quella più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c’è stata sempre (…) E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di eterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono state le sue guerre nazionali.”

978880618547GRASo che non dovrei fare paragoni sbrigativi, eppure le analogie sono suggestive.
Una dozzina di pagine dopo la citazione che ho riportato all’inizio, Fanon torna su quel pensiero e lo amplia ancora, lo “attualizza”: “non basta raggiungere il popolo in questo passato che non è più, ma in quel movimento ribaltato che esso ha appena abbozzato e a partir dal quale, improvvisamente, tutto sarà messo in discussione. È in quel luogo di squilibrio occulto in cui sta il popolo che dobbiamo portarci, poiché, non dubitiamone, è lì che si accende la sua anima e s’illumina la sua percezione e il suo respiro”. Fanon sta, appunto, parlando del dovere del poeta colonizzato, in questo secondo passo che ho citato. “Siamo entrati in giuoco anche noi” scriveva, qualche anno prima di Fanon, il poeta Rocco Scotellaro, anche lui un po’ intellettuale colonizzato e immerso pienamente tra il suo popolo.

Mi chiedo quanta parte della nostra stessa storia dovremmo rileggerla con uno sguardo più antropologico, la disciplina sociale che forse più di altre somiglia alla poesia e consente di lanciare occhiate più interne. Le lotte contadine, ad esempio, nel dopoguerra, negli stessi anni della decolonizzazione dell’Africa. I meccanismi sociali, psicologici, culturali. La metamorfosi delle coscienze, la consapevolezza di se stessi e della propria storia, il tentativo di cambiare la società e la “società” che trova altre strade per cambiarti ancora una volta, in modi inaspettati.

Ci chiedevamo, una sera chiacchierando quasi per caso – ma il caso non avviene mai per caso – presso la sede dei lucani a Torino, – avuta in prestito per avere un luogo d’incontro tra amici “vecchi e nuovi” provenienti da diverse strade – della solidarietà, riferendoci a un esempio concreto e storicamente dato, quello dei” treni della felicità”. Durante le occupazioni delle terre, capitava che finissero in galera famiglie intere, moglie e marito, o qualcuno restasse ucciso nelle cariche delle forze dell’ordine. Accadde in molti luoghi, purtroppo. Si stima che i contadini passati nelle patrie galere in quegli anni siano stati circa centomila, e i morti o gli invalidi a vita non furono pochi. Allora, per sostenere i figli rimasti soli, si organizzava l’accoglienza, presso altre famiglie di contadini, mezzadri o braccianti del centro e nord Italia, in lotta anche loro e non solo spettatori o filantropi. Li chiamarono i “treni della felicità”. Anche dalle mie parti, ad esempio, furono accolti molti bambini, ho trovato le tracce di quelli di San Severo dalle parti di Ancona o di un gruppo di Montescaglioso dalle parti di Pesaro.  Ci chiedevamo se quel tipo di solidarietà oggi possa essere replicabile, e il nostro pensiero andava alle difficoltà dell’accoglienza di oggi, dei tanti richiedenti asilo in fuga dalle guerre di Africa, di nuovo, o da altri luoghi ancora, sempre da guerre.

Certo, situazioni e contesti storici niente affatto paragonabili, ma il “nucleo” da porre all’attenzione forse va cercato altrove. Quella solidarietà di allora era “congenita” a quel processo di lotta e di ripresa di coscienza di sé, nell’attualità dei propri tempi. La lotta come processo, è questa la dimensione. Forse è più facile che siano gli operai di qualche fabbrica occupata ad accogliere bene i rifugiati, che non la popolazione frantumata di qualche anonimo quartiere di periferia di una città qualunque. Oppure gli abitanti di qualche piccolo borgo “ai margini”, geografici e degli stili di vita, come qualche giorno fa la cena dell’amicizia nel piccolo borgo di Bellissimi, o il più noto esempio di Lampedusa.

Forse, è come dice Fanon quando parla del ruolo del poeta: non basta raggiungere il popolo nel suo passato ma in questo movimento ribaltato che ha appena abbozzato. Qual è il popolo, oggi, e quale il “movimento ribaltato”?

“Soltanto oggi avverto con pienezza il senso drammatico della frattura che quelle generazioni hanno vissuto“, cito questa volta da me stesso. Di solito non si dovrebbe mai citare se stessi, ma non potevo fare diversamente, perché da poco ho portato a termine un lavoro, che dovrebbe essere pubblicato a breve, sulle lotte contadine nel nostro paese. Un ritorno al passato, come scrive Fanon. Un passato prima represso e poi diluito nel benessere, in cambio dell’abbandono della campagna per accettare il lavoro in miniera o alla catena di montaggio, e poi dei figli all’università. Un lusso concesso e che oggi, oggi che lo stesso termine lotta di classe è sparito e si appresta a essere “criminalizzato”, ci stanno togliendo di nuovo. Perché abbiamo la colpa di aver vissuto al di sopra dei nostri mezzi, dicono. “Anche l’operaio vuole il figlio dottore” si cantava un tempo: è forse ora che il figlio del figlio torni a fare l’operaio, o il suo equivalente di oggi? Sembra essere scomparso “il popolo”, ma forse basta guardare un po’ meglio, per vederlo ovunque, pur nella sua diaspora, che reagisce come può, alla ricerca del suo “movimento ribaltato”.

L’antropologo e il poeta, appunto, ricordando, come sottolinea bene Fanon, che “la cultura non è, tutto sommato, che un aspetto” e che “il primo dovere del poeta colonizzato è di determinare chiaramente il soggetto popolo della sua creazione. Non si può avanzare risolutamente se non si prende per intanto coscienza della propria alienazione. Tutto abbiamo preso dall’altra parte. Ora l’altra parte non ci da niente senza, con mille raggiri, piegarci nella sua direzione, senza, con mille artifizi, centomila stratagemmi, attrarci, sedurci, imprigionarci.” Forse, dovremmo decolonizzare la nostra stessa Storia!

In questa epoca presente in cui il personaggio numero uno dei telegiornali è lo spread, insieme agli indici di borsa, alle troike, agli indici di bilancio e ai rating, c’è un passaggio del libro in cui Fanon parla del linguaggio: “il ricorso a un linguaggio tecnico significa che si è decisi a considerare le masse come profani. Questo linguaggio dissimula male il desiderio dei conferenzieri di ingannare il popolo, di escluderlo. L’impresa di oscuramento del linguaggio è una maschera dietro la quale si profila una più vasta impresa di spoliazione. Si vuole al tempo stesso togliere al popolo i suoi beni e la sua sovranità. Si può spiegare tutto al popolo, a patto tuttavia che si voglia davvero che egli capisca.”

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Partizanska bolnica Franja

Ho visitato, qualche giorno fa, il Partizanska bolnica Franja, l’ospedale costruito dai partigiani sloveni e italiani nella gola di Pasica, nel dicembre 1943 e attivo fino a maggio 1945. L’entrata era nascosta nella foresta, e l’ospedale poteva essere raggiunto soltanto attraverso passerelle sul torrente che venivano tolte quando c’era pericolo. I pazienti venivano bendati durante il trasporto verso l’edificio; l’ospedale era protetto da campi minati e postazioni di mitragliatrici, gli alberi e gli edifici camuffati impedivano agli aerei di passaggio di vedere l’ospedale. Era stato progettato per fornire cure e assistenza necessarie per un massimo di 120 pazienti alla volta, ma arrivò ad ospitarne fino a dieci volte tanto. Tra i materiali appesi alle pareti di legno delle varie baracche, .per ricreare il clima di allora, ho visto anche un manifesto della razza, di propaganda fascista, in lingua italiana: giusto per ricordarci che anche propagande odierne in tal senso non nascono dal nulla ma hanno radici lontane, strumentali e sempre organizzate. Si dice che il razzismo nasca dalla paura, e invece nasce di più da chi la paura la inventa e poi la alimenta. Ci voglione sempre delle regie a indirizzare e sostenere le campagna xenofobe o le pulizie etniche.

Visitare l’ospedale è stata una vera emozione: costruito nel mezzo di una guerra feroce che insanguinava tutta Europa, condotta da governi che per fortuna furono sconfitti, vedere questo luogo ricorda la capacità infinita di reazione e ricostruzione, di resistenza anche delle intelligenze, che è possibile mettere in campo.  È quasi impossibile immaginare davvero cosa significhi trovarsi lì, immersi in un contesto storico che sembra sempre sul punto di sovrastarti. Tra le tante cose scritte su questo episodio della Storia, c’è anche un romanzo, che ho avuto occasione di leggere qualche anno fa: “Come la foresta ama il fiume“, di Anna Laura Biagini.

(le altre foto)

  

  

 

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Il filo dei dettagli che unisce la Storia (da Bisacquino a Staffolo)

Il filo dei dettagli che unisce la Storia. Riflessioni a margine, dalla commemorazione dell’eccidio della Valle del Musone. Non so, ma ogni volta che partecipo a qualche 1cerimonia di commemorazione per onorare delle vittime, mi sorprendo sempre a riflettere sul carattere non “episodico” dell’agire storico ma piuttosto della sua sistematicità. Ciò che sembra un caso fortuito, lo è molto spesso soltanto per la sua vittima, che aveva altre “temporalità” da seguire: ad esempio, se ne stava lì sul suo campo a falciare il grano, perché era la stagione, la fine di giugno, e invece un drappello di soldati tedeschi lo preleva, se lo porta in giro per un po’ e poi, venendogli a mancare altre persone da fucilare, fucilano lui, sulla piazza del paese, tanto uno vale l’altro e la vita di entrambi non vale nulla.
È tutto sistematico, dietro ci sono le grandi strategie e le grandi guerre che le vite dei singoli non le vedono; ci sono gli stati maggiori che segnano croci sui simboli di città e contrade, ci sono capitali che investono e industrie che sfornano quantità enormi di esplosivi poi da smaltire. Nessuno può sfuggire davvero a questa “sistematicità”.

Durante la seconda guerra mondiale, non c’è un solo angolo del nostro paese, fino alla più remota contrada, che sia rimasto davvero escluso. Tutti coinvolti sotto il tritacarne, e tutti mescolati insieme, strappati dai propri luoghi e sbattuti su e giù per il mondo di allora. Che alla fine doveva sembrare piccolo, perché vi si incontravano genti di tutti i paesi e di tutti i destini.
Dalle nostri parti, il corpo di liberazione del comando alleato era rappresentato dall’armata polacca. Basta già la sola citazione per rendere l’idea. Ma anche per i civili è la stessa cosa. Le vittime civili sono diverse decine di migliaia. Molte finite nelle “rappresaglie”. Rappresaglia, parola ingannevole, e mistificante. Volta a gettare discredito sulla vittima e non sul carnefice. Il dizionario Treccani la definisce così: “Azione o misura punitiva violenta e disumana, indiscriminata, adottata dalla potenza occupante nei confronti della popolazione del territorio occupato”. Azione violenta e disumana, appunto. In realtà, usata quasi sempre in funzione “preventiva” dalle truppe di occupazione. E in quanto tale, “sistematica”, congenita alle guerre, soprattutto quelle moderne, che più di altri si accaniscono sui civili (basti pensare ai 50 milioni di profughi attuali stimati nel mondo).

11539069_1854876974736713_5903802838971992363_oLe commemorazioni, come quelle di parte Anpi a cui ogni tanto partecipo, si concentrano dunque sugli episodi e sulle date più significative, raggruppando insieme le vittime. Se dovessimo cercarle tutte, le vittime, dovremmo fare una commemorazione ogni giorno, probabilmente, ma non ce la faremmo anche perché di solito si è in pochi a commemorare – probabilmente siamo anche ridicoli, agli occhi “degli altri” – e quindi non basteremmo. O forse, occorre trovare altri modi? Domenica scorsa ci siamo andati in bicicletta (vedi foto di Anna Rita, di Roberta e di Matteo ), sfidando il caldo implacabile di questi giorni, per tre soste in altrettanti punti dell’eccidio. È già qualcosa, significa “recarsi dentro”, purché non comporti il cadere in un’altra retorica, pericolo sempre incombente, da cui guardarsi. Nessuno è mai davvero immune.

È il senso profondo della Storia quello che forse dobbiamo imparare a riconquistare, della Storia fatta però dei tanti dettagli che siamo noi, le nostri genti che l’hanno “attraversata da dentro”. L’epoca attuale purtroppo è sempre più appiattita sul presente e il senso della Storia vi si disperde. Sto scoprendo, invece, partecipando qualche volta a queste cerimonie – tra le ultime, quella per i martiri del 20 giugno a Jesi, o in maggio sulle montagne della Valsusa a Maffiotto di Condove – anche il senso dei luoghi. I luoghi dove gli avvenimenti accadono e i destini delle persone s’incontrano, i luoghi anche così diversi e lontani da dove quelle persone sono venute, e quelli dove i loro discendenti s’incontreranno di nuovo.

La Storia è anche Geografia, si potrebbe banalmente dire. Mi soffermo così a leggere le date e i luoghi di nascita, per immaginarmi quella persona con la sua età e il suo viaggio alle spalle. Domenica scorsa mi ha colpito Antonio Alesci, ventiquattro anni, di Bisacquino. È un paese vicino Corleone, un nome che evoca subito padrini e clan mafiosi, luoghi perduti e fuori dalle vicende storiche. Non è mai così. Di Corleone era anche Placido Rizzotto, che nel ’44 era partigiano in Carnia e quando tornò in paese per diventare segretario della Camera del Lavoro, lo chiamavano “il vento del nord”, e lui aiutò quei contadini a organizzarsil per occupare le terre, e così li chiamarono “il vento del sud”. Chissà quanti altri ragazzi della zona di Corleone dopo l’8 settembre si trovarono sbandati come gli altri, lontani da casa, e si aggregarono alle brigate partigiane? Oppure finirono nei campi di concentramento? Come toccò ad Antonio, chiuso in quello di Sforzacosta, vicino Macerata, e prelevato per essere poi fucilato sulla piazza di Staffolo.

Rizzotto fu ucciso il 10 marzo del’48, comandava i carabinieri della zona un giovane ufficiale di nome Carlo Alberto della Chiesa, che individuò subito i veri colpevoli, ma non bastava questo perché la giustizia facesse davvero il suo corso fino in fondo. Alla camera del lavoro arrivò, a sostituire Rizzotto, un giovane ventenne di nome Pio La Torre. Fu in quel contesto che i due, il futuro onorevole e segretario del Partito in Sicilia e il futuro generale, divennero amici. Per essere poi uccisi nel 1982, ad appena quattro mesi di distanza uno dall’altro, nel periodo in cui in Sicilia si costruivano le bassi missilistiche a Comiso.

Il 10 marzo del ’50, nel secondo anniversario dell’assassinio di Rizzotto – il cadavere sarà ritrovato solo sessanta anni dopo – i contadini di mezza Sicilia, e di mezza Italia, stanno occupando le terre; Pio La Torre é a Bisacquino, uno dei feudi che al tempo dei fasci siciliani, finiti nel 1894 sotto la sanguinosa repressione dell’esercito, era stato risparmiato dalle occupazioni: immaturità di alcuni settori del movimento, che si erano lasciati infiltrare e deviare. Nel ’50 c’è un’altra maturità, molti giovani sono stati militari, hanno visto il mondo duro della guerra, alcuni sono stati con i partigiani, non si lasciano ingannare. Quel giorno, il 10 marzo, la polizia spara, per fortuna non muore nessuno, ci sono però feriti e molti arrestati, tra cui Pio La Torre, che verrà trattenuto per più di un anno all’Ucciardone.

Ecco, dal semplice nome su quella lapide, che abbiamo onorato depositando una corona, il filo degli avvenimenti che si dipana e riporta al senso di “sistematicità” della Storia. E per fare questo, ho seguito un solo nome, il più “forestiero” qui al centro delle Marche; gli altri sono della regione, ma nessuno del luogo, tutti portati da fuori sbattuti qua e là, e sono sicuro che scavando, troveremo ugualmente un intrico di storie. La stessa dinamica dell’eccidio del Musone, il nome con cui vengono ricordate le uccisioni di quei giorni, è già tale, un eccidio diffuso nella zona, a tappe, itinerante, a ridosso delle linee del fronte che arretrano e dei corpi alleati che avanzano. Rimando, per una documentazione più generale, a quanto disponibile sul web nel sito dell’Istituto di storia delle Marche nel Novecento.

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Addio a Luca Rastello (“saltellando come un eschimese sui ghiacci”)

195102111-c85959af-66cd-489b-b014-a1c01fb332ecHo conosciuto Luca Rastello innanzitutto attraverso il suo libro “La guerra in casa” (Einaudi) del 1998, quando insieme all’amico Giacomo Scattolini dovevo rimettere in ordine gli appunti di alcune storie raccolte in Bosnia e poi pubblicate, l’anno dopo, nel libro Izbjeglice; poi l’ho incontrato nel 2011, per una lunga chiacchierata con il registratore acceso, da cui poi è nato il capitolo “Il fallimento virtuoso”, inserito nel libro Jugoschegge (Infinito edizioni, del 2011), curato di nuovo insieme da me e Giacomo Scattolini.
Ogni tanto ci scambiavamo qualche email di saluto, l’ultimo poco più di un mese fa: era in giro, a presentare il suo ultimo libro, “I BUONI”, il cui tema è già presente anche nel capitolo “Il fallimento virtuoso”, di cui riporto un breve passaggio:

“… a poco a poco il modello organizzativo si struttura su una logica di marketing, si lanciano messaggi emotivi che catturino l’emotività dei donatori, allontanandosi sempre più sia dalla società su cui si interviene, sia dalla società a cui si chiede la solidarietà per intervenire.
Alla fine si crea un meccanismo di finzione, riproducendo anche un secondo mercato del lavoro sfruttato, simile al modello d’impresa che si cerca di criticare. Si arriva ad accettare una logica conciliatoria del tipo: “Ci siamo noi che siamo Buoni e quindi questa società è sopportabile”. E invece non è sopportabile per niente. Dobbiamo affrontare questo paradosso, altrimenti restiamo nell’accettazione del mondo così com’è, limitandoci a correre ogni volta dietro all’ultima emergenza.
Come se ne esce fuori? Non lo so! Innanzitutto non concedendosi mai alla retorica dell’identità soddisfatta, che sopravanza sempre l’intervento e diventa il fine.
Forse se ne esce fuori lentamente, saltellando. A me piace l’immagine dell’eschimese sorpreso dalla primavera sui ghiacci, che si salva saltellando di continuo da un pezzo di ghiaccio all’altro.
Ogni volta che un’azione politica si ossifica su un’identità virtuosa è ora di abbandonarla, perché limita la possibilità di azione e chiede di difendere se stessa, immobilizzando il proprio target nell’immagine che ha di sé, evitando di porlo di fronte a contraddizioni. Occorre lusingarlo perché si creda migliore solo per il fatto di sostenerti. Tutto questo crea appartenenza a tribù di consumo – in questo caso di pace, bellezza, virtù politica – che consumano invece di creare cambiamento.
È un cammino lungo, per affrontarlo occorre saper accettare di essere minoranza, etica e non politica, che è una maggioranza travestita da minoranza. Occorre non cercare di essere rappresentati ma agire direttamente, con un continuo sguardo critico su ciò che si sta facendo, sempre disposti ad abbandonare una cosa e partire per un’altra. Non è detto che ciò sia sufficiente, però è necessario, per non ripetere gli stessi errori.”

Luca era giornalista di Repubblica, di seguito l’articolo uscito poche ore fa su repubblica on line:

Luca Rastello non c’è più. Lo scrittore e giornalista di Repubblica è morto attorno alle 19, per colpa del cancro contro cui lottava da anni. Si è spento nella sua casa di San Salvario, a Torino. Lascia la compagna Serena, la moglie Monica e le figlie Elena e Olga. Giovedì avrebbe compiuto 54 anni.
Originario di Pont Canavese, laureato in filosofia, è arrivato al giornalismo dopo aver attraversato negli anni 70 e 80 i movimenti e la passione politica, mai abbandonata. E’ stato inviato di Diario, ha diretto “Narcomafie”, prima di approdare nel gruppo Espresso, in cui ha lavorato per l’Espresso, per “D” e per le redazioni di Repubblica di Milano e di Torino. E’ stato anche a capo dell'”Indice”.
Negli anni 90 ha vissuto sulla sua pelle come reporter e come cooperativista il conflitto in Jugoslavia, da cui ha tratto il suo primo libro “La guerra in casa”. Da allora il suo rapporto con i Balcani è stato sempre molto stretto, anche grazie alle tante persone che aveva contribuito a salvare dal conflitto portandole in Italia e, in particolare nel Canavese. Ma Luca Rastello era un ottimo conoscitore anche del narcotraffico, tema su cui scrisse “Io sono il mercato”, e dei diritti dei rifugiati, su cui incentrò “La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani”. Ma Luca, “esploratore” instancabile aveva viaggiato anche nel Caucaso, in Asia Centrale, in Africa e in Sudamerica e nemmeno al malattia che lo aveva colpito dieci anni fa era mai riuscita a fermarlo.
In “Piove all’insù”, il suo primo romanzo, aveva invece descritto forse meglio di chiunque altro gli anni 70 italiani e torinesi e il clima che si respirava in quei tempi.
Negli ultimi anni aveva dedicato parte dei suoi sforzi alla Torino-Lione e all’alta velocità ferroviaria, di cui contestò l’utilità in “Binario Morto”, reportage scritto assieme a Andrea De Benedetti. Nel suo ultimo romanzo, “I Buoni”, Luca Rastello ha invece raccontato i tanti compromessi cui vengono costretti i “professionisti” del bene.

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“I foreign fighters che non vengono mai dal nulla” (articolo di Mario Boccia)

(Articolo pubblicato il 27 giugno 2015 sulla pagina FB di Mario Boccia).
L’inchiesta dei colleghi greci sulla presenza di combattenti dell’estrema destra greca nella guerra in Bosnia, in particolare nella caccia all’uomo dopo la caduta di Srebrenica, è molto interessante: http://ilmanifesto.info/strage-di-srebrenica-cera-alba-dor…/
Per quanto mi riguarda posso testimoniare di avere incontrato volontari greci anche a Sarajevo, nel quartiere di Grbavica, ma non c’erano solo greci nelle recenti guerre balcaniche.
11219130_1616913018577948_5190127843027115892_n11012192_1616913298577920_5666460536811611345_n11667423_1616913841911199_5685431906602748959_n11060934_1616914105244506_5017079297519173082_n1896945_1616914498577800_5880564151224948133_nRiassumo brevemente una storia già raccontata. Nella foto il primo da destra, con la maglietta bianca a strisce azzurre è un volontario greco. Quello accanto a lui, in nero, con il crocefisso al collo, è un cittadino americano. Nato a New York da famiglia di “cetnici” esuli dopo la seconda guerra mondiale. E’ venuto in Bosnia per combattere “in nome di Dio e per la Patria” (l’antico motto dei guerrieri cetnici).

Sulla parete è appeso il ritratto di Draza Mihailovic, comandante delle formazioni cetniche (“Armata Jugoslava in madrepatria”) nella seconda guerra mondiale.
Monarchici, anticomunisti e nazionalisti grandi-serbi, i cetnici sono stati responsabili di crimini di guerra e pulizia etnica contro cattolici e musulmani, oltre che acerrimi nemici dei partigiani comunisti di Tito. Per combattere i partigiani Mihailovic collaborò spregiudicatamente sia con i fascisti italiani che con i nazisti tedeschi, che avevano occupato il regno di Jugoslavia. Inizialmente i cetnici avevano l’appoggio del re jugoslavo Pietro II Karadjordjevic (in esilio a Londra) e le simpatie di Churchill e degli americani per il loro anticomunismo. Solo dopo il 1944 (appello del re Pietro II alla unità contro gli invasori, riconoscendo la leadership di Tito nella resistenza) gli alleati scaricarono Mihailovic, che ormai combatteva solo contro l’esercito di liberazione jugoslavo. Fu catturato dai partigiani a Ravna Gora, processato e fucilato nel 1946.

Il 14 maggio 2015, Draza Mihailovic è stato riabilitato dall’alta corte di Belgrado che ha annullato la sentenza del processo del 1946 che lo condannò a morte per tradimento. Gli americani hanno preceduto di 67 anni la sua riabilitazione. Il presidente Truman gli concesse la “legion of merit” già nel 1948. Nel 2005 (amministrazione George Bush) quell’onorificienza è stata consegnata nelle mani di sua nipote Gordana Mihailovic.
L’americano nipote di cetnici nella foto del 1993 aveva quindi ragione a non sentirsi fuori posto, sparando sulla gente di Sarajevo. La sua presenza era nel segno di una continuità storica.
Il greco mi accompagnò in prima linea, accanto al cimitero ebraico, dove mi raccontò che si esercitava la mira sparando alle croci di David incise sulle lapidi. Mi parlò anche di una sua teoria: i codici a barre impressi sulle merci erano la prova di un complotto giudaico-imperialista di controllo dell’economia mondiale (non provai nemmeno a contraddirlo).
Nella caserma di Lukavica (appena fuori Sarajevo) incontrai un ufficiale di collegamento russo, che si occupava di coordinare l’arrivo dei volontari sul fronte (aveva un suo ufficio a Mosca). Tramite lui riuscimmo ad incontrare un gruppo di volontari russi che combattevano a settembre del 1993 contro i musulmani nella zona di Praca. Queste sono alcune delle foto che feci. Sulla tomba di uno di loro caduto in combattimento si può leggere il nome. Altre sono scattate in prima linea o in caserma. Le loro storie erano interessanti. Mi colpì la naturalezza con la quale uno di loro disse che non sentiva contraddizione nell’aver combattuto nell’armata rossa in Afghanistan e seguitare a combattere in Bosnia, dopo la conversione alla religione ortodossa. “Vengo da una famiglia di militari” – disse ai giornalisti presenti – “e sono orgoglioso di aver combattuto nell’esercito più forte del mondo”. “Ora il comunismo è finito e seguito a combattere contro i musulmani in nome di Dio, della mia patria Russa e della mia fede”. Amen.

Il fenomeno dei foreign fighters, non è nato con l’ISIS. Rimanendo nei Balcani, ne ho incontrati molti già nel 1991 in Croazia, sia sul fronte croato (i volontari della brigata internazionale di Eduardo Rosza Flores) che su quello serbo (i cetnici australiani di Sydney a Novi Grad), tutti di estrema destra, anche se potevano trovarsi a combattere su fronti opposti. Non solo l’ideologia, ma anche gli slogan erano identici. Dio, Patria e Famiglia, le parole più abusate (i miei amici credenti direbbero “bestemmiate”). E’ sui confini da attribuire alle diverse “Patrie” che salta la solidarietà ideologica e ci si spara addosso tra fascisti. Questo sarebbe il male minore se poi, da una parte e dall’altra, non si dedicassero soprattutto agli omicidi agli stupri e alle razzie dei beni di civili disarmati.
Poi c’erano i volontari islamici, superiori di numero agli altri gruppi appena citati. Ma questa è un’altra storia. Per ora limitiamoci a quelli che uccidevano con la croce al collo.

(pubblicato il 27 giugno 2015 sulla pagina FB di Mario Boccia)

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I martiri del XX giugno (1944-2015)

20 giugno 1944 – 20 giugno 2015, 71° anniversario dell’eccidio di via Montecappone, che costò la vita a Armando e Luigi Angeloni (fratelli, 25 e 18 anni), Mario Saveri (23 anni), Alfredo Santinelli (18 anni), Francesco Cecchi (18 anni). Enzo Carboni (20 anni, di S. Eufemia d’Aspromonte) e Calogero Graceffo (carabiniere, di Agrigento).
Anche quest’anno una partecipata cerimonia.  L’intervento commemorativo ufficiale di Daniele Fancello si può leggere per intero sul sito dell’ANPI di Jesi; un discorso ampio e articolato, con la ricostruzione storica di quei 1 2 3 4 5 6 7 8tragici avvenimenti, il ricordo degli altri jesini che hanno perso la vita in quelle settimane, e il significato di quelle battaglie e dell’impegno di quelle vite, visto dai problemi e dalla situazione di oggi:

“Spesso ci chiediamo: perché bisogna essere, ancora oggi, antifascisti? Perché, a distanza di 71 anni da quei fatti dolorosi, bisogna ancora ricordare la Resistenza? Tutti gli oratori che mi hanno preceduto negli anni scorsi hanno affrontato questi quesiti, trovando, ognuno, un senso alla nostra presenza qui, oggi. Le risposte sono state diverse, legate a motivazioni storiche, sociali, emozionali. La Resistenza ci ha insegnato la solidarietà, a non dover odiare per forza, a cercare di poter vivere tutti rispettando le regole della Democrazia che lasciano spazio a tutti, anche a chi combatteva contro di essa”.

L’anniversario dell’eccidio coincide con la giornata mondiale del rifugiato, e una parte ampia della relazione di Daniele è stata dedicata proprio a questo tema: “La questione dei migranti ne è l’esempio più evidente. I profughi e gli emigranti sono sempre esistiti nella storia dell’umanità, ma quanto sta accadendo in questi ultimi anni è un fenomeno assolutamente nuovo, per quantità e qualità, ma è certo che quanti oggi abbandonano il proprio Paese, lo fanno spinti dall’idea che sia l’unica possibilità per sopravvivere. La disperazione, la fame, la speranza di vivere meglio non conoscono frontiere e non rispettano i confini degli stati ed ecco i barconi che attraversano lo stretto di Sicilia carichi di disperati che si sono messi nelle mani di gente senza scrupoli, che ha trovato negli espatri clandestini una nuova e ricca fonte di guadagno. E questa è la conseguenza della politica coloniale prima, e neocoloniale oggi dei Paesi europei che considerano l’Africa soltanto come un serbatoio inesauribile di materie prime, i cui prezzi vengono fissati a Londra o a New York.”

Come ogni anno, in chiusura i presenti hanno intonato spontaneamente Bella ciao, accompagnati da un bel suono di tromba, per sottolineare anche la dimensione di condivisione corale di un importante momento identitario della nostra città.

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L’imbroglio nascosto

Il testo che segue è la parte conclusiva del testo di Paolo Rumiz, che a sua volta conclude gli interventi elaborati e raccolti nel libro Jugoschegge (Infinito edizioni) del 2011; mi è capitato di leggere questo brano un paio di mesi fa, in un incontro pubblico dedicato a riflessioni sulla pace, non commemorative di qualcosa oramai andato ma “attualizzate” ai nostri giorni. Quando più di quattro anni fa ebbi occasione di dialogare con Paolo Rumiz  e decidemmo poi di pubblicare il testo in questa forma, temevamo un po’ che fossero riflessioni troppo legate all’attualità di quello specifico momento (le 3“primavere arabe” e l’intervento militare occidentale in Libia), e quindi destinate ad essere superate da altre eventi, come accade purtroppo di questi tempi, e invece, un paio di mesi fa, quando cercai da Jugoschegge il testo più adatto da leggere in quell’occasione, trovai queste riflessioni ancora, purtroppo, tremendamente attuali (tra le stragi in mare, i profughi respinti a Ventimiglia, il muro che l’Ungheria vorrebbe ai confini con la Serbia, il default a cui l’UE sta spingendo la Grecia, ecc.). Come i versi dal suo La cotogna di Istanbul, che Rumiz mi aveva citato per condensare meglio il senso di quelle riflessioni. La frase in chiusura – dopo il 38 c’è il 39 – veniva invece dalla nuova introduzione alla ristampa nel 2011 al suo libro Maschere per un massacro; 0038 era il prefisso telefonico della Jugoslavia, 0039 è quello dell’Italia.

(da “L’imbroglio nascosto” di Paolo Rumiz):
A proposito di Europa e Balcani, mi viene in mente il discorso pronunciato dal generale dei Caschi blu Philippe Morillon alla gente di Srebrenica sotto assedio serbo bosniaco, quando nel marzo del 1993 fu letteralmente preso in ostaggio dalla popolazione come pegno della loro salvezza. Il generale contribuì all’accordo che portò alla consegna delle armi da parte degli assediati, e alla risoluzione 819 dell’Onu che dichiarava Srebrenica “area protetta”. Due anni dopo si concluse con l’eccidio di oltre 8.000 bosniaci musulmani. Morillon in quel mese di marzo disse agli assediati, “Tranquilli, sarete protetti”, e quando gli offrono il loro pane miserabile fatto di corteccia di nocciolo, decise di fingere ancora. “Salubre, ottimo per la digestione”. Questo è un grande monumento alla nostra ipocrisia europea.

Nel mio libro La cotogna di Istanbul (Feltrinelli), una ballata in versi ambientata tra Istan-bul, Sarajevo e Vienna, c’è un personaggio di nome Afan, un pittore pazzo, dozzinale, strano. Mentre si ubriaca in compagnia del personaggio principale della storia a un certo punto, per rica-pitolare un po’ la situazione bosniaca, gli faccio dire che non ne può più di questa parola vuota – l’Europa – che invece di capire la lezione si balcanizzava:

E poi, sì, c’era un’altra cosa ancora:
quella parola pomposa, “Europa”,
l’Occidente, che invece di capire
l’imbroglio nascosto dietro la guerra
a vista d’occhio si balcanizzava.

Oggi lo scenario non comprende più soltanto l’Europa e i Balcani ma l’intero Mediterraneo, con i Paesi del Nord Africa che ci stanno dando una lezione incredibile, con la loro capacità di ribellarsi a un potere corrotto. Come ho detto si tratta di territori che face-vano parte di un unico impero e questo aspetto lo ritengo molto interessante.

Credo però che le società nate dalla dissoluzione jugoslava non abbiano la forza e l’energia per potersi permettere una rivolta simile a quella dei Paesi del Nord Africa. Anche perché in vent’anni, in particolare durante la guerra, sono state depauperate delle risorse locali oltre che delle migliori intelligenze finite a creare una diaspora enorme.

Semmai, c’è da domandarsi che cosa potrà accadere da noi in Italia, soprattutto nelle regioni del meridione, dove molte persone dicono: “Avessimo noi il coraggio di fare come a Tunisi, al Cairo o a Damasco”. Provano una grande ammirazione verso la capacità che ha avuto la gente del Nord Africa di ribellarsi a quello stesso potere corrotto e malavitoso che tiene in ostaggio anche le loro regioni e che ha un grande peso in tutto il Paese.

Non è detto che non accada una rivolta simile, perché l’Italia del sud si sta avviando a uno stato di disperazione totale. Sono arrivati al capolinea dal punto vista economico e della semplice sopravvivenza, con gente costretta a rovistare nell’immondizia. E quando la gente non ha più nulla da perdere non ha più paura nemmeno della ‘Ndrangheta. Penso potrebbe accadere e sarebbe come rompere una diga.

Occorre far capire che il problema attuale non è quello dei migranti che arrivano a Lam- pedusa ma il fatto che l’Italia è un Paese tangentizio. Dove una grossa minoranza di evasori e sfruttatori vive a spese della maggioranza e che a causa loro il Paese – nel suo insieme – vive al di sopra delle sue possibilità.

È questa la vera crisi da affrontare, con aspetti simili alle crisi dei Balcani o del Nord Africa. Appunto, dopo il 38 c’è il 39.

(“L’imbroglio nascosto” di Paolo Rumiz è pubblicato in “Jugoschegge, storie e scatti di guerra e di pace” di Tullio Bugari e Giacomo Scattolini”, Infinito edizioni.)

(nella foto, l’università di Tunisi nel marzo 2013, durante il Forum Sociale Mondiale: il lungo lenzuolo steso sulla barca e oltre la barca, contiene in ordine cronologico i nomi delle vittime della strage continua nel Mediterraneo; in questi due anni quel lenzuolo ha continuato ad allungarsi)

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I “migranti forzati” (qualche numero)

Intanto, le prime basi, qualche numero per capire di che stiamo parlando. Leggo dal “Global trend 2013” dell Unhcrr e dal “Rapporto sulla protezione internazionale in Italia“che i “migranti forzati” nel mondo nel 2013 hanno raggiunto la cifra record di 51,2 milioni, un numero che è triplicato negli ultimi dieci anni e che in passato è stato raggiunto soltanto alla fine della seconda guerra mondiale; di questi 16,7 mln erano rifugiati, 1, 1 mln richiedenti asilo e il resto sfollati.
185021737-a679b472-7288-4991-96f9-50429dac36a0 tiburtina 3 tiburtina 2Tra i paesi di partenza dei rifugiati, i primi tre, nel 2013, erano Afghanistan (oltre 2,5 mln), la Siria (2,4 mln) e la Somalia (1,1 mln).
I primi tre paesi di accoglienza erano a quella data il Pakistan (1,6 mln), l’Iran (860 mila) e il Libenao (850 mila). Nessun paese europeo figurava tra i primi dieci. Come rapporto % sul PIl, tra i primi tre paesi vi è sempre il Pakistan, seguito da Etiopia e Kenia; invece, in % sulla popolazione, i primi tre paesi di accoglienza erano Libano, Giordania e Ciad. Gli sfollati all’interno del proprio paese sono oltre trenta milioni; tra i primi tre paesi troviamo di nuovo la Siria (con oltre 6 milioni di persone) seguita da Colombia (oltre 5 mln) e Congo (quasi 3 mln).

Nel corso del 2013 sono state presentate ai governi o all’Unhcr almeno 1.067.500 richieste individuali per ottenere l’asilo o lo status di rifugiato, in ben 167 paesi e territori diversi; si tratta del livello più alto degli ultimi 10 anni, in aumento del 15% rispetto all’anno precedente; un dato, inoltre, che ha continuato a crescere nel periodo più recente. I rapporti indicano anche quali sono nel mondo le direzioni principali dei flussi, da quale paese a quale paese; quelli che interessano l’Italia hanno origine in primo luogo dalla Somalia, e dall’Eritrea, due ex-colonie.

Tra le domande registrate per la prima volta nel 2013 presso l’Unhcr o negli stati a livello mondiale, 64.300 sono state presentate da cittadini siriani – ovvero, in media, una domanda ogni 14. Ci sono stati nuovi richiedenti asilo siriani in più di 100 paesi e territori, a dimostrazione della portata globale del fenomeno.
Tuttavia, se si esclude il Medio Oriente, dove i siriani godono di una forma di protezione temporanea, il maggior numero di richieste di asilo da parte di siriani si è concentrato in Europa, in particolare Svezia (16.300), Germania (11.900), Bulgaria (4.500) e nei Paesi Bassi (2.700).I richiedenti asilo provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo si sono classificati secondi per numero di nuove domande (60.400), seguiti dai cittadini provenienti da Myanmar (57.400), Afghanistan (49.100), Iraq (45.700), Federazione Russa (39.800), Somalia (35.300), Eritrea (35.000), Serbia e Kosovo (34.700) e Pakistan (33.600). Tra i primi dieci paesi di provenienza per le domande di asilo, otto stanno attualmente attraversando condizioni di guerra, conflitto, o di gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia, queste cifre dovrebbero essere considerate come indicative, perché talvolta il paese d’origine di alcuni richiedenti asilo è sconosciuto o non reso noto da parte di alcuni membri.

Al primo posto per domande di asilo registrate nel 2013 troviamo la Germania (109.600), quasi il doppio rispetto all’anno precedente e in aumento continuo negli ultimi 6 anni. Seguono nell’ordine gli Stati Uniti (circa 85 mila), il Sud Africa (ca 70 mila), la Francia (ca 60 mila), la Svezia e la Malesia (ca 55 mila ciascuno), la Turchia (ca 40 mila) il Regno Unito (ca 30 mila) e l’Italia (poco meno di 30 mila). Certo sarebbe assai interessante confrontarli con i dati aggiornati alla data attuale, si può tuttavia già constatare come si tratti di un fenomeno mondiale, sia riguardo ai paesi di fuga che a riguardo a quelli di arrivo finale.
I rifugiati presenti in Europa al 2013 sono poco meno di 1 mln; i primi quattro paesi sono nell’ordine: la Francia (ca 230 mila), la Germania (ca 190 mila), il Regno Unito )ca 125 mila) e la Svezia (ca 115 mila); l’Italia a quella data era al quinto posto (ca 80 mila).
Idem per le richieste di protezione internazionale, che sono state ca 400 mila, quasi il 30% in più sugli anni precedenti: i paesi che accolgono le domande sono nell’ordine Germania, Francia, Svezia, regno Unito e Italia al quinto posto.

Si tratta, certo, di una situazione statica, dati al 2013; ciò che è importante per la capacità di accoglienza è anche la dinamica; nel solo 2014 si è avuto un aumento negli arrivi dal mare, attraverso il Mediterraneo: in totale circa 220 mila arrivi, di cui 170 mila in Italia e 45 mila in Grecia; anche in questo caso si tratta però di valutare in modo corretto i dati e le dinamiche registrabili di momento in momento, comprendendone la cause originarie che mettono in moto tali “migrazioni forzate”: cause sulle quali nessuno si sofferma mai a ragionare, preferendo lasciare il fenomeno ingovernato, cioè abbandonando al proprio destino chi scappa,  o strumentalizzandolo per fini particolari.

(nelle foto, lo sgombero nei pressi della stazione Tiburtina di Roma l’11 giugno)
(altri miei interventi sullo stesso argomento)

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L’innesco pericoloso

(L’innesco pericoloso, articolo di Chiara Saraceno pubblicato su la Repubblica del 13 giugno 2015.)
Fenomeno largamente ingovernato e lasciato a soluzioni trovate sul momento, il continuo flusso di arrivi di migranti rischia di trasformarsi nell’innesco di un processo di frantumazione sociale.
130813770-67709c06-860c-4467-8549-2372b1476482-1Ma anche di sfiducia prima ancora che di de-solidarizzazione, di grandi proporzioni, con esiti imprevedibili per la coesione sociale. Tanto più che i vari populismi soffiano sul fuoco di legittime paure, enfatizzano i rischi (oggi la scabbia, ogni giorno la criminalità e la violenza), chiamano alla rivolta contro gli invasori e contro un governo indicato come imbelle. La cautela con cui si muovono, i distinguo che operano, anche gli amministratori di sinistra e i candidati al ballottaggio di domani testimoniano di come i politici più vicini ai territori siano consapevoli di stare su una polveriera su cui hanno scarso controllo. Il fatto è che tutti sanno che la miccia è accesa. Mancano però i pompieri e l’acqua.
Manca una organizzazione, una regia, che indichi una strada praticabile non solo nel giorno per giorno, che non si comporti come se l’emergenza di questi giorni non fosse prevedibile e perciò non ci si potesse attrezzare per tempo, sia per accogliere chi arriva, sia per convincere i partner europei a fare la loro parte. Dopo l’ennesima tragedia di Lampedusa sembrava che il governo italiano e l’Alto commissario europeo agli affari esteri fossero riusciti a imporre all’Unione europea una assunzione piena di corresponsabilità. Ma poi l’accordo dato per raggiunto si è via via ridotto, prima nei numeri (e tempi) dei richiedenti asilo che gli altri paesi erano disposti ad accogliere, poi nella trasformazione di un impegno vincolante in pura discrezionalità volontaria, senza che dal governo italiano si sia sentita una protesta, forse per timore di perdere quel po’ di flessibilità sul bilancio faticosamente ottenuta. Come se il contraccolpo di una crisi forte della coesione sociale e della vittoria dei populismi non rappresentasse un pericolo più grave, anche per le finanze. Quanto all’Alto commissario Morgherini, se ne è persa traccia. In compenso, diversi paesi hanno sospeso Schengen, ritornando ai controlli alle frontiere per tutti. La Lega si è affrettata ad applaudire, chiedendo che sia sospeso anche in Italia, come se ci fossero migranti che premono ai confini francese o austriaco per entrare nel nostro paese e non, invece, per lasciarlo.
Chiudere le frontiere interne avrà poco effetto sia sugli arrivi in Italia, sia sui tentativi di chi arriva di lasciare il più presto possibile il nostro paese, non lasciandosi identificare, per andare in altri, dove si trovano già parenti. Persone che hanno passato mesi e talvolta anni per arrivare in Europa, non si faranno facilmente dissuadere da controlli, respingimenti alle frontiere, condizioni di vita miserabili, come quelle di chi si accampa nelle stazioni. Avrà invece l’effetto di esasperare ulteriormente il rapporto tra autoctoni e migranti.
È compito del governo e delle sue articolazioni territoriali agire con fermezza perché la responsabilità sia condivisa da tutte le realtà territoriali, garantire i sostegni, economici e organizzativi e non lasciare che si creino condizioni di vita incivili dentro e fuori i centri di accoglienza. Condizioni che oltre a essere inaccettabili in un paese che si vuole civile e democratico, non fanno che attizzare il fuoco del malcontento e della insicurezza nella popolazione autoctona, specie in quella che per forza di cose vi è più a contatto, esattamente come avviene per i campi rom lasciati nel degrado nelle periferie più povere. Il lassismo con cui si lascia che la stazione metropolitana di Milano sia colonizzata da venditori abusivi è simile a quello per cui si lascia che migranti alla ricerca di un passaggio fuori Italia si ammassino alla stazione di Milano e Roma fino a quando diventano troppo visibili e allora arriva o un presidio medico o una carica della polizia. Monitorare per tempo questi fenomeni aiuterebbe a contenerne l’inaccettabilità per i cittadini. Ma è compito del governo anche far sentire la propria voce anche in Europa e all’Onu, rifiutando scelte unilaterali, magari proponendo una visione meno disumanizzante di quella che vede i profughi e richiedenti asilo come oggetti da spostare da un posto all’altro a prescindere dalla meta che loro desiderano raggiungere.
Se questa azione non è possibile, se l’Italia e ancor più la Grecia sono chiamate a Bruxelles solo per rispondere dei compiti loro assegnati da chi veramente comanda nella UE e non anche per chiedere che i confini non siano permeabili solo alla concorrenza, ma anche agli esseri umani, e che la solidarietà non riguardi solo la salvaguardia degli interessi forti, il rischio per l’Europa appare più grande di quello costituito dall’uscita della Grecia dall’euro. Se l’Europa, infatti, è solo quella della austerità imposta ai più deboli e della solidarietà non condivisa, davvero non si capisce a che cosa serva ed è sempre più difficile difenderla anche agli europeisti.

(La foto è tratta dalla pagina “Siria, migliaia di rifugiati a piedi verso l’Iraq”)

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Verso est, oltre l’est

Raccontare la guerra ai bambini. È più facile o più difficile? Mi chiedevo questo ieri sera mentre osservavo Matthias seduto di fronte a un bel gruppo di bambini di 6, 7 anni o poco più, a mostrare le sue foto scattate in Siria, Ucraina e altri luoghi sulle cronache di questi tempi. Eravamo al campo di rugby di Falconara, questo il titolo dell’incontro: “Verso Est, mini laboratorio di disegno narrativo con Matthias Canapini; il giovane rugbista, esploratore, scrittore coinvolgerà i mini atleti in un epico racconto di paesi lontani”.

5 4 3 2 1Verso Est, come il titolo del suo primo libro, autoprodotto per essere più veloci, perché Matthias già riparte, dopo domani, questa volta si spingerà ancora più a est, attraverserà Croazia, Bosnia e Serbia, poi Romania, Ucraina e ancora, fino all’India e al Nepal. Conta di rientrare verso ottobre o novembre.

È arrivato “il viaggione”, quello grosso, che progettava già da un paio di anni, me ne aveva parlato una sera mentre eravamo su alla veglia notturna alla diga del Vajont, nel 50° anniversario di quella strage. Per prepararsi “al viaggione” non si è limitato a studiare carte geografiche, linee ferroviarie, modalità di ingresso nei vari paesi, ma si è documentato sulle situazioni politiche, ha cercato di individuare dove operano ong, ha socializzato il suo progetto con gli amici e con la sua città,  e soprattutto si è allenato a viaggiare, viaggiando già per i Balcani, la Siria, l’Ucraina, la Georgia, la Turchia e altri paesi ancora. “Verso Est”, il suo libro, da richiedere direttamente a lui, raccoglie questi primi “appunti di viaggio”, a contatto con tante realtà diverse, di quelle che si incontrano quando il viaggio è sì preparato ma non è ingabbiato da una rigida programmazione, si muove invece libero attorno ad un canovaccio che lascia spazio agli incontri con i singoli.

Matthias è anche un giocatore di rugby, ha sperimentato la mischia e il contatto e come destreggiarsi nelle situazioni di gioco; il rugby è uno sport unico; Marco Paolini gli dedica uno spettacolo intero. Matthias è anche molto giovane, 22 o 23 anni o giù di lì; tra lui e i mini atleti (per i quali qualche tempo fa ha realizzato anche un video:  il rugby visto dal basso) che ieri sera aveva davanti c’erano appena 15 anni di differenza, quasi un niente e magari tra loro ne esce fuori tra pochi anni un  altro pronto a viaggiare così.

Vedere Matthias con le sue foto in mano, o con i libretti dei suoi disegni e dei disegni di altri ragazzini incontrati in viaggio, come un cantastorie che disponga di pannelli mobili, e dialogare fittamente con i ragazzi, mi faceva tornare in mente quando una venticinquina di anni fa frequentavano le classi elementari per parlare dell’intifada insieme ad alcuni amici palestinesi, e poi della guerra in quella che ancora chiamavamo Jugoslavia, e qualcuno di quei ragazzi l’ho incontrato di nuovo, più maturo negli anni, che mi invitava nel suo Liceo, organizzatore e narratore a sua volta. L’essenza del viaggiare probabilmente è in questa voglia di afferrare racconti che ci parlino di questo nostro mondo, cercare di comprenderli, e poi condividerli per provare a comprenderli ancora meglio. Non lo so se è più facile o più difficile raccontare la guerra ai bambini, certamente è più interessante e vale la pena provarci.
Intanto buon viaggio, per” il viaggione” in partenza (e a chi vuole seguirlo, occhio alla pagina FB).

VERSO EST, Appunti di viaggio, di Matthias Canapini
richiedere il formato cartaceo direttamente a Matthias: canapini.matthias@gmail.com 
oppure, scaricare il formato ebook sul blog di Altrovïaggio.

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“Simone delle colline”, di Catherine Cipolat

11076728_853036678120587_3468654546447562327_oTitolo: Simone dalle colline. Biografia immaginaria di Simone Massi
Autori: Catherine Cipolat
Casa editrice: Ventura edizioni

(Intervista all’autrice Catherine Cipolat, a cura dell’editore, pubblicata in data 5 maggio 2015).
Da dove spunta l’idea di dedicare un racconto a Simone Massi?
Lo spunto è casuale, e solo successivamente si trasforma in un progetto e in un esperimento narrativo consapevole.
Alla fine del 2012 contatto Simone per porgli domande in merito alla sua attività artistica. Per il personaggio di un nuovo romanzo, un artista contemporaneo, giovane e maschio, cerco informazioni di prima mano, tecniche ma anche private.
Simone risponde subito ed è disponibile.
L’impulso a scrivere scatta quando mi racconta l’episodio che rivela il suo talento precoce, l’episodio della riproduzione fedele dell’asso di denari.
Scrivo quel capitolo inventando il contesto, il momento, i personaggi.
Seguono due constatazioni: Simone non è l’uomo giusto per il personaggio del romanzo, ma l’esperimento che si sta profilando merita attenzione. È colmo di promesse. Invio il capitolo a Simone con la proposta di raccontare la sua storia secondo questa modalità.
Simone accetta il gioco della finzione.

Come hai affrontato i problemi di realismo e invenzione, tenendo conto che parti da una biografia reale per trasformarla in “biografia immaginaria”?
Il sottotitolo “biografia immaginaria” racchiude il piccolo segreto di questo esperimento. Si suppone solitamente che una biografia tracci un quadro chiaro della vita e delle opere di un personaggio, mentre definirla immaginaria rimanda all’invenzione, alla fantasia.
In realtà esistono molte biografie, biografie meticolose, scientifiche, romanzate, ma anche biografie non autorizzate, a volte tendenziose, ecc.
Il tentativo di comporre tra reale e irreale, tra vero e non vero è stato un gioco sperimentale. TengoLaPosizioneIl racconto segue esclusivamente il filo dei ricordi di Simone, mia unica fonte raccontata da lui per iscritto, per poi contestualizzare, elaborare, inventare, narrare, interpretare.
Questo esperimento è stato possibile perché Simone è persona ironica e distaccata che accetta di leggere la propria storia raccontata in modo diverso. L’ha definita una seconda vita.
Torna alla mente la riflessione di Calvino che diceva: “io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò i dati biografici non li do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità, di questo può star sicura.”
Il meccanismo di questa collaborazione ha funzionato subito e senza intoppi nei due mesi in cui, parallelamente allo scambio di email, è stato scritto il racconto. Il non conoscerci ha lasciato maggiore libertà. Ognuno ha rispettato le regole non dette, Simone non è mai intervenuto nel merito della narrazione, ha solo a volte corretto dettagli che potevano snaturare la realtà. Lui deponeva la materia prima al centro di un foglio bianco e io, attorno, nello spazio vuoto, elaboravo il racconto.

Quanto sono importanti i dettagli, i particolari, nella elaborazione di una storia?
Sono fondamentali. È spesso un dettaglio riferito, intravisto, vissuto che fa luce su un tema e dà inizio alla narrazione.
I dettagli danno consistenza a ciò che si vuole dire, sono il lato palpabile dell’idea. Sono i dettagli, spesso allusivi, indiretti che affiorano e hanno il compito di rivelare una tesi generale rimasta sottotraccia.

Ci puoi spiegare il termine “flangetta” che nel libro assume quasi una funzione magica?
È un oggetto minuscolo, misterioso e sovraccarico di senso. Racchiude in sé il prima e il dopo nel racconto di formazione di Simone Massi, unendo i due periodi. È una lamina di metallo lunga e larga come un dito mignolo che segna le giornate del giovane operaio metalmeccanico e ricompare nel metodo di lavoro dell’artista. Ha una funzione strutturale. Serve, nei due casi, a vivisezionare il tempo che, credo, sia la chiave di lettura dell’opera di Simone Massi.

Come si inserisce questo racconto nel tuo percorso di scrittura?
È la domanda più difficile, perché è difficile avere uno sguardo critico che abbracci la propria sm015-stefano-massi-470x470scrittura, alla ricerca di un significato generale. Potrebbe essere “prima scrivo e poi rifletto” oppure “parlo sopra le mie stesse parole”. Un raddoppio.
Il racconto assume la forma di una favola (storica, politica, sociale, umana, artistica) divisa in capitoli, ognuno con un titolo e i disegni di Simone che sembrano fuoriuscire dalle parole stampate. In questo caso la trama era già pronta e c’era pure il lieto fine. Si trattava di andare a cercare la materia viva (il lungo tempo contatto in flangette, le mani ferite, l’orizzonte oscurato, i sogni inverosimili, la vita interiore compressa) per filtrarla tramite la narrazione. È la stessa storia raccontata altre volte, con sembianze diverse.

Come è nata la conoscenza del lavoro di Simone Massi?
Circa quindici o forse vent’anni fa passavo davanti al televisore acceso che nessuno guardava, c’era un servizio del TG3. Sullo schermo scorrevano immagini che mi hanno inchiodata: tragiche, oniriche, cupe. Erano opera di un tizio di Pergola. Poi mi sono allontanata pensando a quanti tesori e quanta ricchezza nascondeva una regione discreta e appartata come le Marche.

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Biografia immaginaria, dove ‘immaginaria’ non significa invenzione gratuita ma trasfigurazione nell’immaginazione, reinterpretazione del senso, e della poetica che traccia il cammino che l’autore attraversa; un cammino niente affatto banale, dove ogni dettaglio concorre ad un tutto che non è mai definitivo; invenzione nel senso che la realtà a volte tocca un po’ inventarla per comprenderla davvero. Un po’ come fanno i meccanismi della nostra memoria, che rielaborano di continuo la nostra storia, mantenendone vivo il senso, come una manutenzione continua del nostro essere nel tempo. Ho seguito sabato scorso a Macerata, alla Fiera editoria Marche libri, la presentazione del libro; l’autrice sottolineava l’importanza del TEMPO nel lavoro di Massi, dove il tempo non è più un concetto ma una dimensione, un modo del raccontare, un luogo, uno spazio che siamo noi stessi, ricordando l’artigianalità del lavoro di Massi e come  da settecento disegni, eseguiti ciascuno con rigorosità nella sua completezza – il dettaglio – nasca un minuto di animazione, e in quel minuto, mi viene da aggiungere, la realtà dei disegni vive ma al livello della sua immaginazione. Le settanta pagine della biografia immaginaria di Simone Massi mi sono apparse allora, mentre le leggevo, come quel minuto di animazione, con lo stesso tocco di magia.
Personalmente, ho avuto occasione per la prima volta di apprezzare il lavoro di Simone Massi ad una serata dedicata all’eccidio di Monte Sant’Angelo, nel corso della quale fu proiettato il suo “Animo Resistente”: “A ridosso del maggio ’44 sul Monte Sant’Angelo una casa s’addormenta e prende a sognare”.

La copertina e la grafica del libro sono di Simone Massi; il libro contiene anche dei disegni di Simone; i due disegni riportati in questa pagina sono tratti invece dal sito di Simone Massi e dal sito Tricromia; l’immagine che ho usato per la copertina del libro, è tratta dalla pagina FB di Simone Massi.

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pubblicato anche su ALTROVÏAGGIO

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“Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro”, di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni


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Titolo: Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro
Autori: Alessandro Pertosa, Lucilio Santoni
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

«La Repubblica è fondata sul lavoro. Viva il lavoro. Non importa quale. Non importa dove. Non importa come, con chi e perché».  Inizia con questa citazione del cantautore Enzo Del Re, sul lavoro inteso come un fine, o sul lavoro come ci viene proposto normalmente, il lungo dialogo tra i due autori, che hanno preferito alla modalità del saggio, distaccato e scientifico, la forma più amichevole, appunto, del dialogo. Un po’ come i dialoghi pedagogico filosofici dei momenti cruciali, tipo il “Fra Contadini” di Errico Malatesta, o il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei, o il “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” di Giacomo Leopardi.

Li sparo troppo forti i paragoni, scomodando questi classici? È un’esagerata adulazione nei confronti dei due autori? Non mi pare proprio che aspirino all’adulazione. Li ho incontrati una sera per chiacchierare sul libro, in uno di questi posti che Marc Augé definirebbe “non luoghi”, ma che ai giorni nostri stanno diventando la maggioranza: un bar all’ingresso di un centro commerciale a sud di Ancona non ricordo più nemmeno quale, tra gente che andava e veniva e una musica non proprio di sottofondo, comodo però per essere raggiunto facilmente in auto da diverse direzioni. Continua a leggere

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La linea sottile del disagio (tra 25 aprile e 1 maggio, in bicicletta sulla Linea Gotica)

Dove sottile non sta per leggero o effimero, ma per insinuante, penetrante, inafferrabile. L’insostenibile leggerezza del disagio, potrei dire, parafrasando Kundera.
imageTento di trarre un mio bilancio personale dalla pedalata nel mezzo dell’Italia che abbiamo appena concluso, cercando di scovare dentro e far venire alla luce quel sottile filo di disagio che mi ha accompagnato, e che si era insinuato in me già nei giorni precedenti la partenza (“Le memorie in senso lato”).
Non ha nulla a che fare con la Staffetta, il cui bilancio mi sembra invece assai positivo, per il senso di vitalità che ancora prevale, e di cui, in ogni caso, aspetta agli organizzatori trarre le conclusioni, e individuarne gli stimoli per ulteriori sviluppi – che sono già presenti, e non solo quelli “potenziali”, per i nuovi interessi e apporti esterni che si sono aggiunti quest’anno, come la partecipazione di Letteratura Rinnovabile e i contributi degli scrittori protagonisti delle serate a Scarperia, Casola Valsenio e Castagno d’Andrea, o come l’intervento di “Land Art”- il secondo consecutivo in due anni – dell’artista Ivano Cappelli,  ma anche quelle “reali”, per le attività già in sviluppo direttamente dall’interno della Staffetta, che sono tante e ora organizzate anche nella nuova associazione “Fuori dalle vie maestre”.

Quello che tento di fare qui è un discorso personale e del tutto “a margine”, e riguarda di più ciò che accade fuori di noi. Ancora prima della grande strage del Mediterraneo, avevo scritto “Dedichiamo il nostro 25 aprile a chi fugge dalle guerre”; poi il 23 aprile ho 10360338_10205238702301028_8344178257369899212_npartecipato al presidio in piazza ad Ancona, organizzato insieme ai sindacati, per fermare le stragi in mare – riporto sotto, in allegato, l’intervento che ho letto quelle sera, e che a causa della partenza per la Staffetta, non avevo avuto tempo di pubblicare (durante le serate della Staffetta, comunque, è stata cantata da Francesco anche una canzone, musicata da lui e scritta da Doriano, dal titolo Parto, dedicata proprio a chi attraversa il mare fuggendo dalle guerre).
Nel mio intervento, citavo l’articolo 10 della Costituzione (“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”), di questa Costituzione che due anni fa la neo Presidente della Camera definiva la più bella del mondo, e che ora invece rischia d’essere manomessa, nell’indifferenza dei più.
Mentre noi pedalavamo – per carità, eravamo lì non per un dovere faticoso da assolvere ma anche per nostro diretto divertimento, immersi in paesaggi magnifici e a nostro agio nei luoghi della memoria –  in Parlamento si discuteva di riforma elettorale e di voti di fiducia. Chi rappresenta chi? Qual è il valore delle Memorie, rispetto a tutto questo?

Ho sempre pensato che le memorie appartengono al presente, siamo noi qui oggi le nostre memorie,  ma “questo oggi” ora mi sfugge un po’ di mano. Le memorie appartengono al presente come noi apparteniamo alla Storia, ma forse è “questo oggi” che sta sfuggendo un po’ alla Storia. Come un legame che si spezza.
“La Resistenza è un processo storico”, diceva Simona Baldanzi nella serata della Staffetta a Scarperia. Un processo che si compone di tante realtà, e persone, e che nasce molto prima che i partigiani salgano in montagna, e coinvolge e ha coinvolto anche tante persone che non hanno mai avuto nessuna notorietà per la loro testimonianza, e spesso non hanno visto neanche i risultati, perché sono scomparse prima. È al processo che dobbiamo pensare e non solo ai singoli eventi. Un processo che dura anche oggi e ha una sua continuità nei problemi di ogni giorno. Simona faceva riferimento al Mugello, la sua terra e la terra ove in quel momento eravamo, con gli sfasci e i colpi che ha subito. Un processo storico, però, che è fatto non di eroi ma di persone normali, come noi. “È importante sottolineare gli aspetti di normalità, – diceva Simona, – non per sminuire ciò che di eroico quelle persone hanno fatto, quando le vicende storiche le ha costrette in questa strettoia, ma perché comunque loro non si percepivano come eroi. I toni delle lettere dei condannati a morte, rivelano un linguaggio preciso, chiaro e forte, ma mai al di sopra delle righe”.

Condivido. È in questo senso che dico che le nostre Memorie siamo noi, nella nostra normalità. La retorica ce lo fa dimenticare, e se lo dimentichiamo non avvertiamo più lo strappo che c’è tra la Storia e “questo oggi”. Che cosa è diventato oggi l’articolo 1 della Costituzione? Il lavoro è un diritto, ma se è un diritto in cosa deve consistere la sua sostanza? Perché se si tratta solo della fatica, dell’alienazione di cui parlava Marx o dello sfruttamento, allora diventa una condanna. Oppure si svuota, diventa un lavoro senza retribuzione e riconoscimento, come avviene troppo spesso in “questo oggi”.

E arriviamo al 1 maggio, in questa moderna sovrapposizione di date (mi pare ci sia stata anche una manifestazione dei sindacati aPozzallo, per ricordare i rifugiati, ma lo so perché me lo hanno detto di persona, non ne ho trovato traccia sui giornali). Quest’anno il 1 Maggio ha coinciso addirittura con l’apertura dell’Expo sponsorizzato da Mc Donald e Coca Cola. Il movimento No Expo è stato bruciato nel giro di due ore, così come tre anni fa, il 15 ottobre, fu bruciato il movimento degli Indignati a Piazza San Giovanni – la stessa piazza del concerto del 1 maggio. È stato bruciato o si è bruciato? I black block di allora e i Riot di oggi, come vengono definiti, non vengono da Marte, vivono tra i buchi della società di “questo oggi”: non saremo mica noi a diventare un poco alla volta anacronistici, nel riproporci sempre negli stessi modi? Cosa finisce dentro questi buchi che si aprono?

La mattina del 30, durante una sosta della Staffetta in un bar di Poppi – appena scesi dal monte Falterona, costeggiando, tra gli altri luoghi, la località di Vallucciole, la strage di cui fu testimone Carlo Levi – discutevo con Francesco, mentre su una tv scorreva un telegiornale, sulla manifestazione, in corso in quel momento, degli studenti a Milano, e mi era venuto da commentare: “Perché ogni tema serio, in questo caso il complesso degli interessi di potere dietro l’Expo, anziché diventare un processo politico da costruire nel tempo, è destinato a bruciarsi nell’immediato, diventando subito un simbolo. Tutto diventa simbolo e la realtà non la raggiungi più. Una lotta che si trasforma immediatamente in un simbolo, prima ancora di prender corpo, e quindi è già bruciata?”
Era ancora la mattina del 30, il corteo dei trentamila doveva ancora mettersi in viaggio dai diversi luoghi d’Italia.  Mi fermo qui, tenendomi il mio disagio, che, mi accorgo, non è soltanto mio. Fori dalle vie maestre, è il nome dell’associazione proposta dagli “inventori della Staffetta”, Andrea e Doriano, per strutturare ancora meglio lo sviluppo del loro progetto; forse può essere usata anche come metafora per indicare il bisogno di percorrere strade nuove (le quali tra l’altro non escludono affatto i vecchi sentieri, anzi, li cercano per riscoprirli).

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Intervento al presidio per fermare le stragi in mare, Ancona, 23 aprile Continua a leggere

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Settima tappa, arrivo a Pesaro (11)

280104_11206779102040454337224791696199714313240787o_ralfAnche oggi una passeggiatina di quasi 60 km; per la cronaca, riporto direttamente il resoconto raccolto da Vivere Pesaro da uno dei pedalatori della Staffetta: “Si fa colazione con attorno il bel paesaggio dell’Alpe della Luna, poi trasferimento in auto fino a Mercatale. Qui tiriamo giù dal camion per l’ultima volta le bici, ci si prepara e si comincia a pedalare l’ultima frazione della Staffetta. Si fa sosta tre volte: a Montegridolfo, per visitare il Museo della Linea dei Goti, al Monumento a quota 204 (nei pressi di Tavullia) che ricorda il luogo in cui un reparto canadese operò il primo sfondamento alla Linea Gotica il 29 agosto 1944, e infine al Cimitero Canadese di Montecchio.” Da qui, ultima pedalata, 10 km in pianura, l’unica vero tratto di pianura in tutto il viaggio, fino al Parco Miralfiore di Pesaro, alla festa del 1° maggio organizzata dai sindacati e dall’Anpi.

Termina qui il diario di quest’anno. Ho scritto di meno ma in compenso ho pedalato di più. Le foto mi sono state girate dagli altri ciclisti o staffettisti: Paola, Antonello, Leonardo e Simone). Personalmente, mi pare che il bilancio di questa Staffetta sia stato positivo e motivo di soddisfazione tanto per gli organizzatori che per tutti i partecipanti, un gruppo di circa 15 persone di cui 11 o 12 sui pedali, e ai quali in alcuni tratti si sono aggiunti altri amici.
Per gli aggiornamenti sul progetto e per vedere i video anche delle edizioni precedenti o ascoltare le canzoni della Staffetta, si può andare sul sito www.inbiciclettasullalineagotica.it/
Sul presente  blog, le cronache delle edizioni precedenti sono raccolte nella pagina “Staffetta della memoria”.

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Sesta tappa, da Castagno a Badia Tedalda (10)

30 aprile. Partenza alle 8.30, per salire da Castagno al Falterona, 14 km di salita tutti in bicicletta, fino al valico più alto di tutta la Staffetta, a Piancancelli, circa 1.500 metri, dove abbiamo trovato la neve. Poi discesa, fino al Passo della Calla, ancora attorno ai 1.300, con il tempo che sembrava peggiorare, così il gruppo è rimasto unito: chi doveva scendere lungo la sterrata e il sentiero, passando per Camaldoli, ha dovuto rinunciare e restare con gli altri, così tutti insieme siamo scesi verso Stia (in prossimità delle Vallucciole), e da qui a Poppi. Poi, trasferimento in auto a Badia Tedalda, dove ci attende un doppio incontro, nel pomeriggio Ivano Cappelli, con una performance di arte ambientale al Parco Storico della Linea Gotica, per realizzare un altro segmento di Linea Gotica, e poi cena con annessa serata letteraria, e anche musicale e di festa, insieme agli amici di Badia, per la serata di chiusura. Domani a Pesaro e poi a casa.

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Sesta tappa, il pomeriggio a Badia Tedalda.
Alcune foto dell’intervento dell’artista Ivano Cappelli (FOTO) e poi della visita alCentro di documentazione del Parco Storico della Linea Gotica.

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LA SERATA
In chiusura, la serata di Badia Tedalda, paese che negli anni è diventato una specie di campo base della Staffetta della Memoria, insieme agli amici della Pro Loco e del Comune, che hanno donato, in occasione del 70° della Liberazione, una targa di riconoscimento alla Coop. Costes, che organizza questa manifestazione. E poi, una targa alla compagnia teatrale di Badia, I Saltimbanchi, che hanno letto anche alcune storie vere raccolte da loro qui in zona. Quindi serata di animazione, con canzoni, la presentazione di tutti gli staffettisti sia pedalanti che non, pensieri dedicati e altre cose. Nel corso della serata ho avuto anch’io uno spazio, l’occasione di leggere il testo italo-brasiliano Escrevo da Montese destruida, dedicato all’amico scrittore Julio Monteiro Martins, in ricordo della Forza di Spedizione Brasiliana, che tra il 44 e il 45 combattè sulla Linea Gotica.
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Quinta tappa, la serata a Castagno d’Andrea (9)

Inizia la serata della Staffetta della Memoria al Circolo Arci di Castagno d’Andrea, con l’Amministrazione comunale. La serata è diretta e animata da radio TLT, con Francesco, che alterna ai vari interventi le canzoni che esegue accompagnandosi con la chitarra. Tra queste, anche una canzone dedicata ai migranti che perdono la vita nel Mediterraneo. Un altro genere di viaggi, senza sogni di vacanza (il titolo della canzone è Parto, parole di Doriano e musica di Francesco). Dopo le introduzioni del Sindaco, che ci ospita ogni anno, e di Andrea, che a nome della Staffetta sottolinea l’importanza di questa tappa in questi luoghi. Segue poi la serata letteraria, introdotta anche questa sera da Simone Sacco dell’associazione Letteratura Rinnovabile; questa sera, oltre a Marco Vichi, che di giorno pedala insieme a noi, l’ospite è Paolo Ciampi; si parla di memorie, di viaggi alla ricerca di storia e di tante altre cose, compresi consigli di lettura. La serata è stata chiusa dalla nostra lettrice Lorenza, che ha letto un brano di una nuova conferenza spettacolo della Staffetta, ancora non completa, con una storia ambientata proprio a Jesi, il 19 luglio del’44, quando i soldati tedeschi stanno abbandonando la città; si tratta di un raccontro tratto da una storia vera, raccolta in mezzo a noi.
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Quinta tappa (8)

Ore 7: SOLE

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CRONACA GIORNATA
Trasferimento in auto a Marradi e da qui via con le bici, dieci chilometri di salita fino al Passo dell’Eremo, dove il gruppo si divide; alcuni proseguono sull’asfalto in direzione di San Benedetto, risalgono al Passo del Muraglione, scendono a San Godenzo e da qui altri sei chilometri di salita fino a Castagno d’Andrea. Al Muraglione li aspetta uno staffettista dell’anno scorso, Sandro Targetti, che pedalerà con noi anche domani. L’altro gruppo ha lasciato l’asfalto per entrare nella valle dell’Acquacheta e poi su, attraverso i sentieri delle foreste sacre, nel primo tratto del Parco del Falterona e Casentino. Un bagno di natura, con la giornata tornata bella dopo le piogge dei giorni scorsi. Ora siamo tutti. Castagno, pronti per la serata della Staffetta.
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Quarta tappa, serata a Casola Valsenio (7)

Serata a Casola Valsenio (Ravenna).
Alla fine in pizzeria con gli amici di Casola e incontro con gli scrittori Cristiano Cavina e Marco Vichi, introdotta prima da Francesco con la canzone della Stafetta dedicata ad Aurelio, “Un partigiano 70 anni dopo”, e poi da Simone Sacco dell’Associazione Letteratura Rinnovabile.
Nelle foto, alcuni momenti della serata, compreso Cavina mentre impasta le pizze per noi, che abbiamo ben gradito.
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Quarta tappa, martedì 28 aprile (6)

Quarta tappa, 28 aprile. Partenza dal Passo del Giogo (Scarperia) diretti a Monte Battaglia (Casola Valsenio), attraverso il Passo della Sambuca, accompagnati da una pioggia persistente e regolare che ci ha lasciato solo negli ultimi minuti finali. Arrivati in cima a monte Battaglia, il cielo si stava aprendo, da qui l’orizzonte è veramente ampio. Ad attenderci, gli amici di Casola, per deporre una corona ai partigiani, ricordare la storia di qui, rendere onore ad Aurelio Ricciardelli, partigiano per sempre; poi da Monte Battaglia siamo scesi in paese, dove al Centro di documentazione sulla guerra di liberazione, è stato proiettato il film intervista ad Aurelio.
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Terza tappa, Monte Altuzzo, Giogo di Scarperia (5)

Nel pomeriggio un fuori programma, escursione al Monte Altuzzo, presso il Passo del Giogo (Scarperia), a visitare i resti delle postazioni nel primo punto di sfondamento, nel 44, del settore centrale della Linea Gotica, che seguiva lo sfondamento di pochi giorni prima sul versante pesarese.image Adesso siamo a cena e poi scendiamo giù in paese, alla biblioteca presso il Palazzo dei Vicari, per la serata della Staffetta: doppio incontro, con Simona Baldanzi e con Marco Vichi.

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Nella foto, Simona Baldanzi, Simone Sacco e Marco Vichi, al Palazzo dei Vicari.

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Terza tappa, Vernio (4)

Sosta a San Quirico di Vernio e visita alla Mostra permanente dei reperti bellici della Linea Gotica nell’alta valle del Bisenzio. Una sosta fissa della Staffetta, per incontrare le comunità locali e le Anpi di Vernio e di Cantagallo. Vernio fu liberata il 21 settembre 1944, dopo la battaglia alla Torricella. Un luogo importante, perché da qui iniziava la galleria della Direttissima (la stessa delle bombe sui treni nel 74 e 84). Ancora poco tempo fa sono stato ritrovati resti di soldati che morirono qui; molti furono a suo tempo anche i bombardamenti, che provocarono molte vittime civili.

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Terza tappa lunedì 27 (3)

27 aprile. Partenza terza tappa, in bici per scendere dal rifugio. Ha piovuto tutta la notte, poi una pausa. Non pioveva, e comunque non avevamo alternative, da si scende solo in bici o a piedi. Bellismo primo tratto in bici, si percepisce subito anche soltanto guardando le foto qui sotto; imagepoi l’acqua è tornata, abbondante. Ora stiamo proseguendo in auto verso Vernio, poi da lì decideremo momento per momento in che modo proseguire.

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26 aprile, seconda tappa (2)

26 aprile, seconda tappa, pedalando da San Marcello Pistoiese, lungo il tracciato della vecchia FAP, la ferrovia alto pistoiese, poi salita al Passo della Collina e via attraverso la foresta dell’Acquerino, fino al rifugio Le Cave, comune di Cantagallo. Salite, tante, e anche un po’ di discese. Da Maresca al Passo della Collina si sono uniti a noi due ciclisti di Porretta Terme, che abbiamo già incontrato lo scorso anno.

imageNella foto, uno dei due bronzi realizzati dalla performance di arte ambientale Segmenti di Linea Gotica, di Ivano Cappelli, in occasione del passaggio della Staffetta al rifugio Le Cave nel 2014.

Nelle foto sotto, un momento della salita in bici al rifugio, e il bosco come si presentava.

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Prima tappa, 25 aprile (1)

25 aprile. Prima tappa. Arrivo in auto e sosta al Centro di Documentazione sulla Linea Gotica, a Villa Schiff-Giorgini di Montignoso (Massa), ad attenderci gli amici dell’Anpi di Montignoso, e poi trasferimento in auto  al Monte Folgorito, per la prima pedalata; da qui per il Passo del Vestito e poi lunga discesa verso la Garfagnana, con arrivo a Barga, Circa 56 km sui pedali, di cui una buona parte in salita. Il tempo clemente. Alcune soste lunimagego il tragitto, per visitare alcune postazioni. Cena a Gallicano con l’Anpi della valle del Serchio. ALCUNE FOTO, mentre si sale al Passo del Vestito e poi dopo l’arrivo a Barga. image image image

Foto della sosta al Passo del Vestito (Monte Altissimo) per visitare i resti di un bunker.

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Le memorie in senso lato

Staffetta, meno tre al via. Il 25 aprile partiremo dalla costa tirrenica, a Montignoso (provincia di Massa), e arriveremo alla sera del primo giorno a Barga, in Garfagnana 1(provincia di Lucca). Quest’anno ho nella testa le memorie in senso lato. Ho scoperto che a Lucca ha la sede la Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’Emigrazione Italiana, dedicata ai migranti di ieri e ai migranti di oggi, di nuovo in cammino. Nella striscia in alto scorrono delle foto doppie, un montaggio in una sola foto della nostra emigrazione di ieri e delle immigrazioni qui oggi: scopriano allora che “badante” e “vucumprà” sono solo parole inventate oggi per stigmatizzare, dimenticando che quei “mestieri” li hanno già fatti anche le nostre nonne e i nostri nonni. C’è anche una foto con gli italiani sulle banchine dei porti, in partenza per l’America, e i barconi odierni carichi di un’umanità che ugualmente ci appartiene. Deve appartenerci.

Altre notizie sull’emigrazione che ha interessato le terre che attraversiamo nel nostro primo giorno, in particolare la recensione del libro “Mi par centanni che vi hò lasciati” L’emigrazione dalla Garfagnana,” di Lorenza Rossi,  le trovo nel sito della “Banca dell’identità e della memoria della Garfagnana” .

“Il perché andiedi in America” è invece il titolo di una raccolta di interviste a protagonisti dell’emigrazione dalla Garfagnana, che ho trovato citata nel sito del “Museo dell’emigrazione italiana online”. E’ un museo virtuale, si può entrare nelle sale, vedere le foto e i video, ascoltare le voci. Nelle foto immagini di famiglie contadine radunate sull’aia, come ve ne erano ancora durante la guerra. Anche in questo sito, WatermarkedImage-SetWidth460-guide01l’attenzione ai perché della partenza, le mete, la valigia di cartone, i legami con l’Italia, e poi i migranti di oggi. Diverse pagine di approfondimento rimandano direttamemnte al sito della Fonfazione Cresci, i due siti sono collegati. Una foto – non ricordo più da quale dei due l’ho scaricata – riproduce la copertina di una guida del 1886, da San Paolo del Brasile: consigli per chi deve partire. Oggi si stima che siano oltre due milioni i discendenti di italiani che vivono a San Paolo, la città “italiana” più popolosa al mondo. Poi, sul finire dell’estate del ’44, arrivarono qui in Garfagnana, risalendo da Borgo a Mozzano, i soldati brasiliani. Leggo in un blog che addirittura salvarono il ponte del diavolo: quando passiamo una sosta la facciamo sempre, lo scorso ci salimmo su con la bici per scattarci una foto ricordo.

Tra le cose, di nuovo curiose, trovo un libro pubblicato sempre dalla Fonfazione Cresci, “La via della Scozia, l’emigrazione barghigiana e lucchese a Glasgow tra ‘800 e ‘900” della ricercatrice Nicoletta Franchi. Cito direttamente da un articolo della Gazzetta del Serchio: “L’attenzione che questo studio, nell’ambito del flusso migratorio, pone sulla presenza di giovani e di giovanissimi, sulla loro vita di lavoratori spesso a rischio di sfruttamento e sui rapporti con le autorità locali e con il Console italiano a Glasgow, costituisce un approccio innovativo che offre al lettore un punto di vista originale e ricco di spunti. Altrettanto stimolante poi risulta – nell’analisi sulla trasformazione da figurinai a venditori di gelato e gestori di “fish and chips” – lo spaccato di quotidianità e di vita reale che in questo modo si apre, andando oltre la mera elencazione statistica e la ricognizione numerica. L’autrice analizza inoltre “Il business degli emigranti lucchesi in Scozia” sotto molteplici aspetti e con forme d’indagine coinvolgenti, mettendo a disposizione di studiosi e appassionati un documento prezioso.
Sono cariche anche di tutte queste storie, le terre che dal 25 inizieremo ad attraversare, da una costa all’altra.

621864_4327773039902_236665095_oInsomma, sono bastati soltanto cinque minuti di ricerca in rete e subito sono saltati fuori innumerevoli fili, perché innumerevoli sono davvero i fili, quelli reali, della nostra storia di popolazioni in movimento, per tanti tantissimi svariati motivi. Immaginate cosa potrebbe venir fuori, quali conoscenze recuperare, da un lavoro più continuo. Da un lato, mi entusiasma constatare ogni volta questo pullulare di vita, e di fatiche sacrifici speranze, ingegnosità, progressi guadagnati giorno per giorno – insomma, la vita che siamo noi, che siamo stati e che saremo – e al tempo stesso mi rende ancora più incredulo constatare come, troppo spesso, sembra che di tutto questo ce ne dimentichiamo completamente, quando sono altri, per altri loro motivi, che partono, devono partire, o addirittura scappare.

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Le serate della Staffetta

Meno quattro giorni al via della Staffetta della Memoria, il 25 aprile. Oggi, però, 21 aprile, è anche una giornata di mobilitazione nazionale per fermare le stragi in mare; nella nostra regione è prevista ad Ancona anche una manifestazione giovedì prossimo.
1base4L’avevo scritto qualche giorno fa, ancora prima di quest’ultima immane strage, che quest’anno il nostro 25 aprile dovremmo dedicarlo a chi fugge dalle guerre: dovrà essere questo il sapore delle prossime giornate, ricche di iniziative ovunque, mantenendo un’attenzione alta sia verso le nostre memorie in senso lato – dalla Liberazione alla storia delle lotte sociali alle tante migrazioni che hanno segnato negli ultimi 150 anni il nostro paese (60 milioni di discendenti di italiani sparsi nel mondo, si stimano oggi) – sia per essere al fianco di chi fugge dalle guerre e di chi si batte per porre fine a queste stragi, che si ripetono da troppo, troppo tempo, e mostrano un’insensibilità vergognosa.

Sulla nostra maglietta della Staffetta della Memoria c’è scritta questa frase di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo in cui è scritta la Costituzione, andate in pellegrinaggio dove caddero i partigiani”.
Su quella Costituzione, all’articolo 10, sta scritto: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.”  
Se dimentichiamo questo legame, tradiamo noi stessi. Questo mi spiega anche perché i tanti che esprimono uno strumentale cinismo – ma è anche qualcosa di più del cinismo, vi intravedo lo stesso tipo di odio ignorante che si esprime in tante stragi, genocidi e pulizie etniche di antica e anche recente memoria -, questo mi spiega perché coloro che si esprimono con cinismo coincidano spesso con chi prova “allergia” ai valori che si sono espressi attraverso la Liberazione.

Il sapore della Staffetta e le serate della Staffetta. Voglio fermare ora l’attenzione in particolare sulle serate, tanto di giorno, si sa, c’è da pedalare e immergersi tra le montagne, i paesi e i sentieri: per averne un’idea, basta dare un’occhiata ai video e alle foto delle edizioni precedenti. Naturalmente, sono tutte pedalate con soste e tanti incontri anche durante il giorno; e inoltre, le serate di incontro hanno sempre chiuso le giornate della Staffetta anche negli anni precedenti, ma mi pare che ogni anno questo programma serale si arricchisca di più e acquisisca una maggiore e più forte identità. E quindi, prima della partenza, mi piace mettere in evidenza le serate da sole.

Sabato 25, in Garfagnana (Lucca), dopo l’arrivo a Barga e la visita ai bunker di Borgo a Mozzano accompagnati dalla Pro loco, siamo a cena con l’Anpi della Valle del Serchio, in chiusura della giornata dedicata al 25 aprile.

Domenica 26 ceniamo al Rifugio Le Cave, Riserva di Acquerino Cantagallo (Prato), dove durante il giorno, prima del nostro arrivo, è prevista una visita ai sentieri della Linea Gotica, accompagnati da Nello Santini, e all’installazione “Segmenti di linea Gotica”, realizzata lo scorso anno dall’artista Ivano Capelli durante la sosta della Staffetta.

Lunedì 27, al palazzo dei Vicari a Scarperia nel Mugello, organizzato dal Comune di Scarperia-San Piero e dalla Biblioteca, incontro letterario con la partecipazione dell’associazione Letteratura Rinnovabile e gli scrittori Simona Baldanzi – “Il Mugello è una trapunta di terra” – e Marco Vichi.

Martedì 28, festa con l’Anpi di Casola Valsenio (Ra); proiezione del film “Partigiano per sempre” nel ricordo di Aurelio Ricciardelli, e serata di nuovo con l’associazione Letteratura Rinnovabile e gli scrittori Cristiano Cavina e Marco Vichi.

Mercoledì 29 festa al circolo ARCI di Castagno di Andrea (Fi), con il Comune di San Godenzo, l’Anpi e incontro con gli scrittori Marco Vichi e Paolo Ciampi.

Giovedì 30, a Badia Tedalda (Arezzo) un ricco programma; nel pomeriggio al Parco della Memoria, la performance “Segmenti di Linea Gotica” dell’artista Ivano Cappelli; in serata, incontro con la Pro Loco di Badia Tedalda, e poi… toccherà a anche a me, per l’associazione culturale Altrovïaggio, leggere un testo misto italo-brasiliano – che ho già avuto occasione di leggere qualche settimana fa a Bologna, in una serata dedicata all’amico scrittore Julio Monteiro Martins – in ricordo dei soldati brasiliani sulla Linea Gotica.

Il primo maggio, arrivo al parco Miralfiori di Pesaro alla festa organizzata dai sindacati, e si torna a casa.  Le serate saranno animate da Radio TLT, e quindi chi vorrà, potrà ascoltarci sul sito web della radio.

 

 

 

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il guinnes

UNA ZONA ROSSA OVUNQUE SI TROVI E’ QUESTIONE NAZIONALE
(“Mettiamoci una pezza”: una città ai ferri corti)

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Mettiamoci Una Pezza

La coperta più grande del mondo, Trieste 20 giugno 2015. Dopo averlo saputo potevano forse mancare le guerrigliere di Mettiamoci Una Pezza? Certo che no!

Non poteva mancare soprattutto il nostro messaggio, quella denuncia che avete recepito e sostenuto sin dall’inizio. Noi che continuiamo a dichiarare che UNA ZONA ROSSA OVUNQUE SI TROVI E’ QUESTIONE NAZIONALE, abbiamo deciso di portare il nostro slogan dentro un gioco, in una delle piazze più belle d’Italia; lo portiamo per ricordare a tutti che ancora non si è messo mano ad una legislazione organica in materia di catastrofi ed emergenze, che ancora si specula, e si abbandonano le zone e le popolazioni colpite da catastrofi naturali. In alcuni casi, purtroppo, ci si ricorda di loro solo in caso di celebrazioni, spesso limitandosi a editare paccottiglia mediatica.

Vi chiediamo allora di starci a fianco ancora , di sostenere quest’incursione, di amplificare questa denuncia, una parola…

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Dedichiamo il nostro 25 aprile a chi fugge dalle guerre

Rifugiati in fuga, l’emergenza è mondiale.  I migranti nel mondo sono circa 50 milioni (51,2 mln, dati UNHCR, aggiornati soltanto al 2013), un numero terrificante, più o meno quanti erano i profughi alla fine della catastrofe della seconda guerra mondiale. Sono triplicati negli ultimi dieci anni. Innanzitutto scappano dall’Afghanistan (circa 2,5 mln, in prevalenza diretti in Pakistan, Iran e Germania), dalla Siria (circa 2,5 mln, diretti in Libano, Giordania e Turchia), dalla Somalia (circa 1,2 mln, in prevalenza in Kenya, Yemen, Etiopia), dal Sudan (citca 700 mila, in prevalenza in Ciad e Sud Sudan), dalla R.D. Congo (circa 500 mila, in prevalenza in Uganda, Congo, Tanzania). Seguono Myanmar, Iraq, Colombia, Vietnam, Eritrea, e molti altri paesi, tutti quelli che subiscono guerre o tragedie legate alle guerre o agli interessi economici, sempre troppe.

rifugiati_sirianiTra i principali paesi di destinazione sopra ricordati, l’unico paese europeo, soprattutto per l’accoglienza  di fuggitivi afghani e irakeni, è la Germania. Tra i primi dieci paesi di accoglienza nel mondo, nel 2013, non figurava nessun pase europeo.
In rapporto al PIL, il peso maggiore di profughi è sostenuto da Pakistan (con 1,7 mln di profughi al suo interno), Etiopia, Kenia e Ciad; spesso i paesi di accoglienza sono a loro volta paesi da cui partono. In rapporto agli abitanti, il peso maggiore è sostenuto dal Libano, ai limiti del collasso con 850 mila profughi (circa un quarto della sua popolazione), seguito da Giordania, Ciad e Mauritania.
Nel corso del 2013 le nuove richieste di asilo presentate ai governi o all’Unhcr sono state più di 1 milione, in 167 paesi e territori diversi; il livello più alto degli ultimi 10 anni. Poi ci sono gli sfollati interni, oltre 30 milioni. In Siria una famiglia ogni sessanta secondi. In Ucraina hanno già superato il milione.

In Europa, il numero più elevato di richieste, oltre 100 mila (dati 2013), è stato presentato in Germania; seguono Francia (circa 60 mila), Svezia (54 mila) e Regno Unito (29 mila); l’Italia è al quinto posto (27 mila); divrebbe salire nel 2014 ma non al primo posto. Il nostro resta un paese di transito.

2014-06-12_crimen_nostrumNel 2014 gli arrivi dal mare nel sud dell’Europa sono stati 219 mila, di cui 170 mila sulle coste italiane e 45 mila in quelle greche. Questi numeri sono in crescita nei primi mesi del 2015 (oltre diecimila soltanto in questa settimana di metà aprile), mettono “paura” e si prestano a strumentalizzazioni di politica (cosiddetta) interna: “Sotto assedio” titolava appena ieri sera uno dei tanti telegiornali e un altro, appena pochi minuti fa: “l’immigrazione dilaga”. Ma se sono numeri percentualmente piccoli rispetto al totale mondiale, sono sempre numeri da esodo impressionanti, soprattutto se vi aggiungiamo le condizioni in cui sono costretti per incuria e voluta disattenzione, e cioè nel totale collasso e senso di abbandono, tra il deserto e il mare, in un viaggio che è come una roulette russa con la speranza di sopravvivere, costi quel che costi, in un degrado dell’uno contro l’altro che va oltre i confini della dignità: “Se questo è un uomo” intitolava le sue memorie dal lager Primo Levi. E comunque, se questi numeri mettono paura qui da noi, allora dev’essere davvero un disastro epocale in tanti altri paesi, se torniamo per un attimo alla consistenza del fenomeno a livello mondiale.

Ma non solo in questo senso l’emergenza è mondiale. Lo è anche e innanzitutto per le sue cause che nessuno disinnesca, i disastri prodotti dalle politiche estere degli stati, di oggi e di ieri, dei conflitti militari e commerciali e gli squilibri sociali che provocano (tra i conflitti militari, vediamo di non aggiungerne altri – chissà con cosa tornerà a casa Renzi dagli Stati Uniti? – e tra quelli commerciali  mi viene in mente il trattato di libero scambio TTIP, favorito dalle multinazionali, contro cui è in programma per il 18 aprile – domani, mentre scrivo – una giornata di protesta globale, ma oltre agli attivisti non se n’è accorto quasi nessuno).

I principali focolai di crisi che ci riguardano più da vicino sono lungo le frontiere degli antichi imperi coloniali o di quelli distrutti a seguito dei confilitti internazionali (quest’anno è il centenario della prima guerra mondiale: il Nord Africa e il Medio Oriente, in quello che era un tempo l’impero ottomano, e in Europa, prima i balcani e ora l’Ucraina, lungo i confini degli allora “imperi centrali”.
In Italia, i flussi maggiori continuano a provenire da Eritrea e Somalia, due ex colonie. Tra loro ci sono figli e discendenti di ex soldati, talvolta direttamente italiani ma più spesso indigeni allora inquadrati sotto il regio esercito italiano, e che magari ancora oggi conoscono un po’ di lingua italiana (ne ho conosciuto qualcuno di persona, tra i rifugiati giunti dopo mille peripezie). Le Divisioni militari del regio corpo libico (circa 10 mila arruolati) parteciparono con il tricolore alle invasioni dell’Egitto e dell’Abissinia mentre le Forze Armate dell’Africa Orientale comprendevano truppe di eritrei e somali. Ci furono perfino reparti di carabinieri formati da eritrei, somali o libici. Oltre alle truppe coloniali, c’erano anche altri corpi formati da stranieri, come le truppe “arabe”, volontari proventieni da Iraq, Palestina, Transgiordiania e Persia, che combatterno prima in Nord Africa e poi alcuni, seguendo le sorti della guerra, presero parte addirittura alla difesa di Roma dopo l’8 settembre. In altri battaglioni sempre del regio esercito erano inquadrati indiani, sikh, gurgha, jugoslavi, albanesi, greci e addirittura cosacchi antisalinisti, arruolati durante la campagna di Russia.

Parlo di un’emergenza mondiale e sto citando la seconda guerra mondiale. La presenza di soldati da ogni angolo del mondo era ancora maggiore tra gli eserciti Alleati – gli Alleati erano colonialisti più professionisti di noi – che parteciparono direttamente alla campagna d’Italia, e quindi alla Liberazione che festeggeremo tra pochi giorni.

img2466Helena Janeczek nel bel libro “LE RONDINI DI MONTECASSINO” ricorda i soldati maori, addirittura i maori dalla Nuova Zelanda, e poi il corpo di spedizione polacco, che si era formato e addestrato nell’Asia sovietica, dopo che i polacchi, già in fuga dal loro paese smembrato, furono scarcerati dai lager staliniani. Maori e polacchi furono in prima linea all’assalto, truppe di fanteria, su quel monte dove si bloccò per mesi il fronte di guerra. I polacchi parteciparono anche alla liberazione della nostra zona, nell’anconetano. Certo, ci furono anche le “marocchinate”, (nel basso Lazio e anche in alcuni angoli di Toscana), termine che non mi è mai piaciuto perché riduce linguisticamente un orrore a qualcosa di biricchino: fu una tragica eccezione, erano truppe, del resto, dirette da ufficiali francesi accusati di aver concesso 50 ore di libertà, e ci furono casi di soldati di altri paesi, ad esempio i canadesi, che intervennero per porre fine a ciò che stavano compiendo. La guerra è sempre piena di orrori, non dimentichiamolo.

img0494soldati a monteseUn crogiolo di truppe da paesi diversi inquadrate anche nell’esercito di Sua Maestà, i Gurkha, gli indiani e tanti altri. I Gurkha liberarono diversi paesi del pesarese nel settembre del ’44, lo racconta in alcune pagine memorabili del libro “Linea Gotica” il partigiano Cristoforo Moscioni (che è lo stesso tenente Moscioni citato da Rigoni Stern nel suo “Il sergente nella neve”, alpino anche lui, come Nuto Revelli, e anche lui poi tra i partigiani e infine, dopo il passaggio del fronte, insieme ai Gurkha, per liberare questa volta i paesi di casa sua).
E poi, i corpi di spedizione autonomi, come quelli dall’Australia o dal Brasile. La Forza di spedizione brasiliana, circa 15 mila soldati, male equipaggiati, fu impiegata sulla Linea Gotica, avanzando nell’inverno del 44/45 tra le nevi dell’Appennino, dalla Garfagnana al modenese. Ho avuto l’occasione di parlarne all’inizio di questo mese, in una serata a Bologna dedicata alla memoria dello scrittore di origine brasiliana, da anni in Italia e anche animatore culturale e amico, Julio Monteiro Martins. Spesso etichettato qui da noi come “scrittore migrante”, in realtà scriveva direttamente in lingua italiana, ma il suo ricordo, proprio per questa parola “migrante” spesso usata in modo improprio, mi ha stimolato le righe che sto scrivendo ora.

Il mondo in Italia, con la seconda guerra mondiale, e con le migrazioni, ma anche gli italiani nel mondo, sempre con le migrazioni: i discendenti di italiani nel mondo sono stimati in circa 60 milioni, forse il primo paese al mondo per questo fenomeno; pare che la città italiana più popolosa al mondo sia  San Paolo del Brasile; gli italiani stabilmente residenti all’estero che hanno mantenuto la cittadinanza sono all’incirca pari ai migranti residenti oggi in Italia.

11111Tornando alla seconda guerra mondiale, ci sono anche i partigiani, a testimoniare la partecipazione diretta del paese che conta. Anche ai nostri partigiani s’erano uniti tanti stranieri, dai disertori tedeschi agli ex-prigionieri di guerra di varie nazionalità, inglesi, russi, americani. Nella nostra regione, tra il monte Catria e il Monte Nerone ci fu una brigata formata totalmente da jugoslavi. Tra i partigiani fucilati dalle truppe di occupazione o dai repubblichini, non ci furono soltanto italiani. Ma ci furono anche partigiani italiani che andarono in Africa, come il livornese Ilio Barontini, che dopo essere stato in Spagna con le brigate internazionali, andò a combattere insieme ai partigiani Etiopi che si battevano contro l’occupazione dell’Italia fascista.

Penso che sia giusto proporre che nelle manifestazioni di quest’anno dedicate alla Liberazione, il settantesimo anno dalla Liberazione di Milano, siano ricordati i tanti “migranti” che fuggono anche oggi dalle guerre nel mondo richiedendo asilo e un po’ di sicurezza in più. E’ il minimo che possiamo fare, se vogliamo dare alla nostra Liberazione un significato davvero attuale e non solo di nostalgica memoria. Una Liberazione che dovremmo continuare a guadagnarci anche oggi. Penso che mi verrà in mente spesso nei prossimi giorni, quando parteciperò alla traversata lungo la Linea Gotica con la Staffetta della Memoria, dal 25 aprile al 1 maggio.

Certo, ci sono tanti in Italia che gridano “ributtiamoli a mare” o più ipocritamente rifiutano qualsiasi accenno all’accoglienza dicendo che è meglio aiutarli riportandoli a casa loro: quale casa, per chi non ce l’ha più? Litanie sinistre, simili a quelle xenofobe del tempo delle deportazioni degli ebrei e di tutte le altre minoranze che furono colpite insieme a loro, anche se non sempre ricordate. Infatti, guarda un po’ il caso alle volte, coloro che gridano contro l’accoglienza sono anche gli stessi che una festa come quella della Liberazione la vorrebbero eliminare. Per questo dobbiamo riguadagnarcela di nuovo. Allora, dopo l’8 settembre, furono tanti gli italiani che abbandonati a se stessi si rimboccarono le maniche, come fanno oggi tanti volontari oppure operatori che si trovano in prima linea nel soccorrere in mare chi fugge.

Peccato che, proseguendo con questa analogia storica, il nostro Stato somiglia troppo spesso a quello dell’8 settembre, vulnerabile e attaccabile da tutte le parti. Il sistema di accoglienza in Italia poggia sulla rete Sprar, che è stata capace di accogliere nel 2013 e 2014 poco più di diecimila persone ogni anno, potenziata poi con altri interventi di emergenza. Un impegno da non minimizzare ma c’è solo questo, un’enorme emergenza improvvisata di giorno in giorno – certo, è molto meno peggio la missione Mare Nostrum (comunque chiusa) rispetto alle cieche politiche di respingimento di precedenti governi – ma non c’è nulla di più e non c’è di meglio e certamente non basta e non è adeguato, e offre purtroppo spazio a “zone grigie” capaci di farsi strada nei vuoti che trovano. Un po’ come il mercato nero durante la guerra, tanto per restare nell’analogia storica che sto usando come metafora. In che mondo vivremo?
Dedichiamo la nostra Liberazione a coloro che fuggono.

(Le foto, nell’ordine: Rifugiati siriani nel campo profughi di Deir al-Ahmar; soccorso di migranti in pericolo in mezzo al mare; soldati indiani sulla Cresta del Serpente a Montecassino, febbraio 1944; tre soldati dei Fucilieri Reali Gurkha inquadrati nella 8ª Divisione indiana; soldati brasiliani a Montese – Linea Gotica; la lapide di un soldato neozelandese di 23 anni, al cimitero militare britannico di Torino di Sangro – CH)

Sullo stesso argomento:
Il silenzio dell’Europa
Bisogna andare a prenderli lì (ancora un naufragio)
Di giorno guardavamo il sole e di notte le stelle
Rivoluzione culturale

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Il mistero del tedesco sepolto a Migiana

2Aspettando la Staffetta 2015. Il 22 aprile a Pesaro un’anteprima della Staffetta della Memoria, con la conferenza spettacolo “Il mistero del tedesco sepolto a Migiana” (trailer). Con Migiana (zona del Monte Tezio) non siamo esattamente sulla Linea Gotica ma nei suoi avamposti in Umbria, vicino Perugia, dove una storia misteriosa che sembrava persa, rinasce da un indizio di fiori, e dalla curiosità di riportarla alla luce per narrarla di nuovo. E come ogni storia che ritorna all’aria anche questa trascina con sé dettagli, particolari, suggestioni, mondi passati e presenti che trovano mille rivoli per continuare a parlarsi.

Il gruppo della Staffetta questa storia l’ha già raccontata e cantata in altre piazze, e la narrerà di nuovo a Pesaro all’Auditorium del Campus Scolastico il 22 aprile alle ore 11.00, ad un pubblico di studenti, in un incontro promosso dall’Anpi di Pesaro. Il 22 è anche la vigilia della partenza della quinta edizione della Staffetta della Memoria, in bicicletta sulla Linea Gotica dal 25 aprile al 1 maggio, e quindi questo incontro assume un significato particolare, diventa quasi la partenza ideale della Staffetta di quest’anno, il primo di una serie di incontri e di serate culturali che s’intrecciano con le pedalate quotidiane degli “staffettisti”.

La conferenza spettacolo fa parte, insieme alle altre due  “La storia dell’occupazione tedesca a Badia Tedalda” “Mi firmo, compagno Giulio”, del percorso di ricerca e divulgazione “Storie di fronti e di frontiere”, a cui il gruppo sta lavorando con continuità oramai da alcuni anni.  Di seguito,  riporto l’anticipazione della storia del tedesco sepolto a Migiana che tre anni fa, approfittando del racconto fatto da Andrea Meschini, ho inserito nel libro “In bicicletta lungo la Linea Gotica”.

“Siamo arrivati al passo della Futa pedalando lungo il sentiero suggerito da Luciano. Gli altri con i furgoni ci aspettavano per andare a visitare insieme il grande cimitero militare tedesco.
E’ importante fermarsi, ci si rende conto di cosa sia la guerra. Basta guardare le date di nascita e di morte dei soldati. In guerra si muore a vent’anni. E’ impressionante vederli tutti insieme in cima a questa collina. Sono più di trentamila, raccolti qui alla metà degli anni Sessanta, quasi tutti i caduti tedeschi seppelliti fino ad allora in cimiteri provvisori, vicino ai luoghi dove erano morti.
Qualche anno fa però ho scoperto, quasi per caso, la storia di un soldato tedesco che non è stato seppellito alla Futa. La racconta Marinella Saiella, un’insegnante di Perugia, nel libro “Storia di un nemico diverso” (Morlacchi editore).
E’ già curioso il modo in cui ha scoperto la storia, circa quindici anni fa. Passeggiava una domenica a Monte Tezio, alla periferia di Perugia, in una piccola frazione di montagna, Migiana, dove ci sono alcune case non abitate e un cimitero abbandonato. Lei nota una tomba curata e con i fiori freschi. Perché? Chi visita quella tomba con un nome tedesco sulla lapide? Così inizia a indagare e pian piano riesce a ricostruire tutta la storia. Dall’arrivo di quel tenente in paese, ai suoi rapporti con i contadini, a quando salva una bambina dalle angherie di alcuni suoi soldati, scrivendo nel suo diario di come la sua vita quel giorno sia cambiata, alla scelta di fermarsi quando il suo esercito si ritira, perché oramai si sente compartecipe dell’Italia e il suo desiderio, quando morirà, è di essere seppellito in territorio italiano. Così, quando il governo tedesco chiede alla madre il permesso per trasferire la sua salma al cimitero della Futa, lei risponde di no e lascia il figlio in quel piccolo cimitero dove qualcuno continua ancora oggi a prendersi cura della sua tomba.
P8240024E’ una storia che trovo molto bella, non solo per le vicende che hanno legato il tenente e quella bambina, ma anche per come è stata riportata alla luce, partendo dalla curiosità provata di fronte ad una tomba ornata di fiori in un cimitero abbandonato. Certe volte basta un indizio qualunque, a cui normalmente non presteremmo attenzione, per riportare in vita un’intera dimensione di memorie, nella sua completezza e con tutto il suo contesto di tribolazioni e di guerra, e anche di sentimenti e di scelte. E’ un po’ come lo spirito della Staffetta.”

(la locandina dell’evento su FB)
(nella foto in basso, i resti delle antiche “neviere“)

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Jugoschegge, di Tullio Bugari e Giacomo Scattolini

“Il pericolo di crisi esistente non dipende però solo dai focolai ancora accesi, ma dal fatto che l’Italia e la stessa Europa si stanno balcanizzando. Un processo che vede l’indebolimento dei legami interni e in cui si manifestano contrasti e punti di vista più particolari. Lo stiamo vedendo nel modo di porsi di fronte alla questione nordafricana, rispetto alla quale l’Unione Europea è in netta crisi. È la stessa  debolezza che rivelò nell’affrontare la guerra in corso in ex-Jugoslavia. In questo senso, la forza ammonitrice della guerra dei Balcani è ancora assolutamente presente e viva, e continua ad ammonirci, ma inascoltata.  (…) È interessante anche il fatto che entrambe le crisi – quella jugoslava venti anni fa e ora nei Paesi del Nord Africa – interessino territori ai confini dell’Europa che circa un secolo fa facevano parte di un unico impero, quello Ottomano. Territori limitrofi, che coinvolgono in particolare il nostro paese. (…) Rispetto a queste crisi, l’Italia si trova potenzialmente in una posizione estremamente favorevole, perché non ha atteggiamenti coloniali. È, sì, un Paese cattolico ma con tratti che la pone anche caratterialmente vicino a questo particolare Oriente. Questo è vero soprattutto per le regioni del nostro meridione, che hanno ancora profonde affinità culturali sia con il mondo ortodosso che con quello musulmano. (…) Sono dell’idea che si dovrebbe raccogliere il valore della lezione appresa da tutte le persone che in modi diversi hanno lavorato – e ancora lavorano – come volontari, cooperanti e simili in queste aree, perché costituisce un collante sociale di enorme importanza per il nostro Paese. Quando tornano in Italia, queste persone portano con sé un messaggio unitario profondo (…) Queste persone hanno capito la lezione. E cioè che un Paese diviso difficilmente vive meglio di un Paese unito. Inoltre, sono in grado di leggere la situazione dei Paesi in cui agiscono da volontari della cooperazione, molto meglio dei giornalisti che guardano il mondo  vivendo esclusivamente tra i mezzibusti e i talk show.”

111Abbiamo aperto così, con la lettura di questo brano di Paolo Rumiz dal libro Jugoschegge, la serata di ieri sera alla biblioteca del Comune di Agugliano, presentandoci al secondo appuntamento di due incontri – il primo già svolto, sulla guerra di civile spagnola – dedicati alle guerre di ieri e di oggi.

Una riflessione, quella di Rumiz, nata dentro la attualità di quattro anni fa, quando il libro fu realizzato, e che allora poteva anche sembrarci destinata ad essere riassorbita dall’incedere di altre attualità sempre incalzanti, e invece sembra una pagina ancora di oggi. Ho scelto questo pezzo, per aprire la serata, anche per l’apprezzamento di Rumiz all’enorme bagaglio di esperienze sociali dei tanti volontari che scelgono di seguire in prima persona i tanti avvenimenti del mondo, sia lontani che vicini, e l’insegnamento utile che possono trarne per tutti noi, se le ascoltassimo. Pensavo alla recente campagna denigratoria e vergognosa, ottusa, contro le due ragazze rapite, e poi per fortuna liberate, in Siria: Greta Ramelli e Vanessa Marzullo.

Subito dopo abbiamo proiettato le foto del libro, gli stessi luoghi di Sarajevo e di Mostar durante la guerra e poi oggi, testimonianze di una vita che prosegue e di una ricostruzione che magari non sempre procede veloce come dovrebbe.

Un occasione, comunque, anche per parlare non esclusivamente di guerre, ma anche delle tante iniziative di ricostruzione, attive ancora oggi, e raccontate o citate anche in Jugoschegge, come la storia raccontata da Mario Boccia della cooperativa agricola “Insieme” di Bratunac – che, tra l’altro, ho avuto l’occasione di incontrare a L’Aquila all’inizio di questa stessa settimana: il 6 aprile è la data del terremoto a L’Aquila ma anche dell’inizio della guerra in Bosnia – o quella della transumanza della pace ricordata da Roberta Biagiarelli, o altre iniziative ancora.
Due le linee principali di riferimento alle tante cose dette: il significato che quell’esperienza ha avuto, un patrimonio che dovrebbe essere recuperato, e il racconto della guerra: come le guerre vengono raccontate e distorte e strumentalizzate dai media e dalle propagande di parte, che nascondono altri interessi (“L’imbroglio nascosto” è il titolo proprio del racconto di Paolo Rumiz); e il racconto delle storie travolte dalle guerre, facendo sì che almeno il racconto non le travolga di nuovo ma sappia rispettarle. Sono temi che attraversano tutti gli interventi contenuti in Jugoschegge, ciascuno dal punto di vista della sua specifica esperienza: il fotografo Mario Boccia (“Fotografare la guerra”, il suo racconto), il giornalista Ennio Remondino, l’attrice Roberta Biagiarelli attraverso il teatro civile, il giornalista e anche cooperante Luca Rastello con le sue riflessioni autocritiche e critiche sulla relazione di aiuto (“Il fallimento virtuoso” è il titolo del suo racconto), il freelance e viandante balkan Alessandro Gori, la cooperante Silvia Maraone con le attività ancora in corso e che coinvolgono molti giovani, lo scrittore Paolo Rumiz. Ho utilizzato per ciascuno una qualifica, che vale solo come un riferimento, dal momento che poi, quando si è direttamente sul posto,  tutte le qualifiche tendono a sentirsi strette dentro i loro confini.

Sarebbero ancora tante altre le cose  le cose da dire. Un’occasione, comunque, quella di ieri sera, per riproporre il nostro contributo a non dimenticare queste esperienze; lo abbiamo fatto utilizzando un libro che ci sembra ancora molto attuale e realizzato grazie alla collaborazione attiva di tanti amici, tra i quali, oltre agli autori già citati, anche Massimo Cirri con la sua prefazione e Agostino Zanotti con l’introduzione.

Non ce ne ricordiamo sempre, ma in testa al nostro libro c’è anche una bella citazione di Paolo Vittone (dal libro “La lumaca e il tamburo”), a ricordarci, appunto e nonostante tutto, il sentimento che può essere suscitato da quei luoghi: “Resto impigliato con lo sguardo nel magnetismo del filo dell’orizzonte marino. E mi accorgo di aver capito fino in fondo che quando si ama un luogo, così come quando si ama una persona, non ci si chiede come possederlo, come controllarlo, ma piuttosto come appartenergli.”

JUGOSCHEGGE: www.jugoschegge.it/

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“Escrevo da Montese destruida”

11112849_471950166288500_3592888302499612973_nMercoledì 8 aprile, ho partecipato a Bologna alla giornata “Tenere accesa la macchina sognante”, omaggio allo scrittore Julio Monteiro Martins, scomparso lo scorso 24 dicembre. A tre mesi di distanza, il 24 marzo, la rivista on line El Ghibli aveva dedicato a Julio un bel supplemento, la letteratura come essere, con la partecipazione di tanti suoi amici. Julio era un amico anche per me, l’avevo conosciuto qui a Jesi quando venne per la terza edizione del festival letterario ALFABETICA, come ho avuto modo di raccontare nel blog dell’associazione culturale ALTROVÏAGGIO.
La promotrice e organizzatrice dell’incontro di ieri a Bologna, Pina Piccolo; l’occasione, la presentazione postuma dell’ultimo romanzo di Julio, “La macchina sognante”; il modo per ricordarlo, un reading di tanti amici, come una maratona o una “staffetta” di tante letture, poesie e racconti di Julio o dedicati a Julio, testimonianze, ricordi carichi di affetto. Non avevo partecipato ad altri appuntamenti che ci sono già stati in questi pochi mesi dalla sua scomparsa, ho voluto non mancare questo.

Per l’occasione, ho voluto scrivere anch’io un pezzo in suo onore, su un argomento a cui lui teneva molto, e ho cercato di farlo in un modo che lui sicuramente avrebbe apprezzato. Un paio di anni fa Julio aveva pubblicato su Sagarana un estratto del mio libro “In bicicletta lungo la Linea Gotica”, con la Staffetta della Memoria sui sentieri della seconda guerra mondiale.
In quel frammento citavo i soldati americani e Julio osservò: “Non ci furono solo gli americani ma tanti altri, dimenticati, come la Força Expedicionária Brasileira.” Nel libro li citavo i soldati brasiliani. Poco, a dire il vero, e nel frammento scelto per niente. Mi sembrava di avere un debito nei confronti di Julio, so che aveva visitato i luoghi e il sacrario brasiliano vicino Pistoia, dove fino al 1960 erano sepolte le salme dei 465 soldati caduti, poi trasferite e sepolte nel Monumento nazionale ai Caduti di Rio de Janeiro. Oggi, nel sacrario qui in Italia, ne rimane uno solo, un milite ignoto, ritrovato nel 1967 a Montese, sull’Appennino modenese; degli altri c’è il nome inciso nelle mattonelle in marmo disposte sul terreno.

Oggi, per questa occasione dedicata a Julio, ho voluto fare un gioco: ho ripreso corrispondenze di guerra e testi storici in italiano e in portoghese, e li ho smontati e ricomposti liberamente tra loro, gioco con le parole e mescolando le due lingue.
È un gioco serio, in onore di Julio e dedicato a quei ragazzi di venti anni, che settanta anni fa esatti, erano stati mandati a combattere sui monti tra Bologna, Modena, Pistoia e Lucca, e in memoria di quel milite ignoto, in particolare alla battaglia di Montese, nell’aprile del 1945.

*****

entrata monteseEscrevo da Montese destruida. Montese non esiste più. Nessuna casa intatta. Solo ora podemos avaliar l’effetto terribile dei colpi de artilharia. Montese è una cidade deserta, envolta em ruinas. Case in frantumi. Macchie di sangue testimoniano la violenza della battaglia.

Desde que la battaglia ebbe inizio a população… scomparve. Invano ho cercato un abitante: porte destroçadas, letti vuoti, camere em desordem.
La torre per metà abbattuta, il cimitero danificado. Carri armati distrutti, pareti cadute, una bomba de aereo inesplosa. Macerie e silenzio. O silêncio degli uomini cansados: este é Montese.

I brasileiros hanno vinto sui nazisti: un combattimento verdadeiramente épico, scontri de casa em casa, tra gli uccisi e i feriti muitos nostri combattentes.
Ragazzi de vinte anos, giunti sull’Appennino despreparados; oltre agli alemanni, altri due inimigos: o frio e la montagna; molti si ammalarono de pulmonite e pleurite; l’equipaggiamento fornecido dagli americani revelou-se inadeguato, e le armi parevano fazer parte de um stock muito vecchio. Arrivavano dall’altro capo del mondo para lutar por uma causa nota a todos, ma senza uma verdadeira motivazione ideologica.

Terminada la guerra il bilancio fu: 239 dias di battaglia; 457 morti e desaparecidos, 16 dispersi, 2.720 feriti e 38 prisioneiros de guerra. Catturarono 20.573 prigionieri e 80 cannoni, 1.500 viaturas e 4.000 cavalos. Combatterono contro três divisões fascistas (Italia, Monte Rosa e San Marco) e dez divisões alemanne. Gli aerei fecero 1.738 voli, fino al Brennero e in Austria, 445 missioni e 2.456 decolli para ofensivas.

DistintivoFEBCon il loro simbolo, un cobra che fuma, videro luoghi che le mappe non segnalavano: Ca’ Berna, Madonna dell’Acero, Montilocco, Mazzancana, Ronchi di Sopra, Bombiana, Guanella, Vidiciatico, Cravullo, Castellaccio, Ca’ d’Orsino, Montaurigola, Gaiano, Lizzano in Belvedere, Gaggio Montano, Marano, Sassuolo, Vignola, S. Ilario d’Enza, Montecchio, Neviano. Fornovo. Gli abitanti di quei luoghi agradeciam como podiam: offrivano uova.

I brasileiros si fermarono in quei paesi e fu una rivoluzione culturale e politica. Il longo contacto tra popoli differentes non portò solamente destruição, ci fu anche convivenza tra abitanti e militari, e nascimento de amicizia, e relações de afeto che dopo la guerra deram em casamento.
In Brasile furono scritte canzoni. La “Canção do Expedicionario” parla com saudade di quanto i soldati avevano lasciato a casa.
Ogni anno, a Montese, unica cidade al mondo con luoghi dedicati al Brasile (uma praça, uma rua, dois monumentos e uma sala do Museu), giungono brasileiros per partecipare alla festa della Liberação, e la gente di quei paesi non offre più soltanto ovos.

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Il testo è liberamente ricomposto da un reportage di guerra, da Montese, di Egydio Squeff e dai due testi: “A Montese e Monte Castello, i successi più significativi” di Walter Bellisi; “E il cobra si mise a fumare…” di Dulce Rosa Rocque, disponibili QUI; per approfondire, si  può consultare il portale della FEB.  La foto dell’ingresso dei soldati brasiliani a Montese è tratta dal sito del Museo di Iola di Montese.

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I lamponi della pace a L’Aquila

6 aprile 2015. Sono stato a L’Aquila, per partecipare alla giornata “Oggi non si parla di guerra”, organizzata, con la collaborazione del Comune, dalle associazioni aquilane Animammersa e Mettiamoci una pezza, che hanno invitato la Cooperativa Agricola Insieme, di Bratunac, Bosnia, quella dei lamponi della pace. lamponiUna giornata per non parlare di guerra, ma di pace, delle cose che si possono fare in pace, e che già si fanno, giorno per giorno. Il luogo, una “casa” di legno in piazza San Bernardino (laboratorio dell’associazione Mettiamoci una pezza, che sta lavorando ad un bellissimo progetto); dentro, la cornice costituita dalle fotografie di Mario Boccia, tratte dalla mostra “l’imbroglio etnico; al centro le marmellate della ccoperativa: “dentro ci sono le dolcezze dei nostri sogni e delle nostre pazzie” diceva Rada Žarković, raccontando la loro storia e la rete di amicizie e di relazioni sociali cresciute attorno e insieme ai lamponi. La stesso sapore intenso dell’amicizia che si respirava tutti insieme in quel luogo. I vasetti di marmellata erano “vestiti” dai cestini fatti a mano, ai ferri o all’uncinetto, dalle donne delle associazioni aquilane, un bell’effetto estetico, simile ad un abbraccio.

1215192425Poche ore prima c’era stata a L’Aquila la fiaccolata notturna, perché questo è il sesto anniversario di quella disgraziata notte. Girare oggi per L’Aquila mette ancora il magone addosso, per i mille ostacoli che impediscono a ciò che c’era prima di riprendere pienamente vita. Che c’entra la Bosnia?, potrebbe pensare qualcuno. Si potrebbe chiederlo alle donne aquilane che con vero entusiasmo, bastava guardarle, hanno promosso l’iniziativa. “Noi ci capiamo – ha detto sempre Rada – perché entrambe siamo rimaste al nostro posto e abbiamo ripreso a ricostruire”. Il 6 aprile. È la data del terremoto aquilano del 2009 e anche l’inizio della guerra in Bosnia, nel 1992. Che cosa significa il “capirsi” è sottolineato molto bene dall’emozionante reading di quattro donne delle associazioni aquilane, di un bel testo (drammaturgia di Rita Biamonti), in cui le due realtà si sovrappongono tra loro come una sola:  “Mi ricordo di quell’aprile. Quando ho lasciato la mia casa e la mia città. Che cosa fare? Dove andare? Non lo so, eravamo disperati. Ci siamo sedute in macchina dove abbiamo trascorso la notte. Il mattino seguente è cominciata la vera guerra?” Scorrono via così, intrecciate insieme, queste testimonianze che parlano linguaggi condivisi, che si capiscono, perché “Una città distrutta non è uno spazio vuoto. È peggio. È perché non è vuoto e non è più se stesso. Contiene già punti di riferimento ma non sono più validi.” I lamponi. Una pianta all’apparenza fragile, ma tenace, capace di affrontare i rigori del clima di montagna. È stato un volontario trentino all’inizio della loro esperienza, ad aiutare le donne della cooperativa di Bratunac, a insegnare loro come piantarli, in un terreno che era già adatto perché i lamponi vi erano già di casa, e a curarne e proteggerne la crescita. Ora le piante di lampone “tornano” in Italia, nel senso che a mezzogiorno ne sono state piantate alcune nel parco di San Bernardino, a simboleggiare ma non solo, una ripresa che come sempre nasce dal basso, e che è più forte quando è corroborata dall’amicizia. Tutto questo sta diventando anche un documentario, “Dert“, di cui ci hanno parlato i registi Mario e Stefano Martone, che hanno proiettato il trailer, hanno seguito la stessa giornata di ieri con le loro riprese e ci hanno parlato della loro prossima visita a Bratunac il prossimo luglio, al tempo della raccolta dei lamponi. Qualcuno non vede già l’ora di esserci, sarà una lunga amicizia.

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“Come è buono lei”

rastello-204x300“I buoni” di Luca Rastello, Chiarelettere editore. “Come è buono lei”, dice Fantozzi al suo capo mentre si congeda camminando all’indietro e stropicciando il basco tra le mani, come se solo lo stigma del potere potesse conferire la qualifica di “buono”, come uno status da cui i comuni mortali, come noi e Fantozzi, sono esclusi. E’ una delle frasi più celebri di Fantozzi, che si alterna quasi come un sinonimo a “Come è umano lei”, che però già contiene un lontano retrogusto, l’aria di un sarcasmo sottile, quello di cui comunque sono capaci gli esclusi.

Il libro di Luca Rastello “I buoni” – che ho comperato un anno fa, quando uscì accompagnato da un vivace dibattito e alcune stizzose polemiche, ma che poi ho letto soltanto pochi giorni fa – l’ho trovato molto gradevole letterariamente, forse a tratti difficile perché inconsueto nella lingua, ma sempre capace di restare sul filo di una tensione quasi febbricitante e attenta, viva, lucida, anche spietata in quanto decifrante tanta psicologia di gruppo – mi viene in mente Bion – pur senza usare mai categorie cliniche, bensì quelle della tensione etica e dell’analisi dei meccanismi del potere, attualizzati alla realtà dell’oggi.

È anche un libro assai coraggioso, ma non tanto o non solo, secondo me, perché sullo sfondo s’intravede – questi sono i meccanismi delle analogie che più o meno meccanicamente tutti o quasi siamo indotti a riprodurre – la figura di Don Ciotti, cioè quasi un tabù. Ed infatti è proprio da qui – mescolando realtà a romanzo – che sono partite tante discussioni, polemiche: tra gli interventi che più spiccano ci sono quelli di Gian Carlo Caselli e di Nando Della Chiesa (ma gli interventi sono tanti, il sito Oblique ne ha raccolti diversi e li ha resi disponibili in rete)  e poi precisazioni e successive repliche, da parte dello stesso autore, il quale smentisce questo meccanismo automatico di trasposizione tra la realtà e il romanzo, anche se un romanzo comunque serve per discutere della realtà; replica Rastello: “(…) quando ho voluto scrivere un pamphlet (per esempio sugli scrittori che dissertano di democrazia sui giornali) l’ho fatto con nomi e cognomi in chiaro. Molti sassi ho lanciato, mai nascosto la mano, mai fatto velo con eufemismi, travestimenti o retoriche. La scelta di scrivere un romanzo è tutt’altra cosa: è la scelta di affrontare temi generali, se non universali, che riguardano prima di tutto i lati oscuri di chi scrive. Ho voluto raccontare un male che è ovunque e che io per primo porto dentro.(…)”

Coraggioso, dunque, non tanto per la trasposizione che gli rimproverano quanto proprio per il tema in sé affrontato. Un tema difficile, per certi aspetti blindato: essere buoni, farne uno stile di vita o addirittura un’organizzazione o perfino un mestiere, restando sempre buoni, anzi di più, col certificato di bontà, che pur di realizzare il bene non si ha paura di ‘sporcarsi le mani’. Espressione, quest’ultima, dai molteplici potenziali significati, su cui ritornerò.

2Del resto, se su tutto questo tema uno resta a pontificare dalla comoda poltrona di casa , certo non corre il rischio di fare ‘male’, ma di sicuro non fainemmeno ‘bene’. Un bel dilemma. Se invece, ti alzi da quella poltrona, ti incammini nel mondo e ci provi, anche solo un poco, se non a fare il “bene” almeno a cercare di capire che cosa è il “male”, beh, allora è inevitabile che ti trovi di fronte, più spesso di quanto si possa immaginare, anche tanti dilemmi di cui farti carico. Perché comunque la realtà ti sovrasta. E se di questi dilemmi te ne fai carico, e sei coraggioso innanzitutto con te stesso, perché non è facile, puoi rischiare anche di non venirne fuori. Mi viene in mente Alessandro Langer. Ma se invece non te ne fai carico e accetti tutto quello che si fa come una… una fede è la parola che mi esce fuori – ma anche questa è una parola che meriterebbe di essere chiarita -, nel senso cioè che hai solo certezze, beh, allora, è qui che forse ti trovi di fronte quel mondo in cui s’immerge, mi pare, il lungo discorso che Luca Rastello fa con se stesso attraverso il suo romanzo. Leggendolo, si capisce che la sua familiarità – soprattutto interiore e di umana identità prima ancora che delle dinamiche organizzative e ideologiche – con i temi che affronta e le realtà che descrive è molto alta, e il discorso assume così un valore più generale.

La scrittura scelta non è quella del reportage ma della letteratura, che non è un’astrazione o l’uso di finte metafore ma un diverso metodo per tentare di entrare dentro se stessi, in angoli che con altri metodi potrebbero restare nascosti. Poi, naturalmente, il lettore ha ragione di voler discutere, anche a modo suo.

Condivido la possibilità o la rivendicazione di avere dubbi, non saprei farne a meno, credo che aiuti a mantenersi sulla giusta lunghezza d’emozione, che è labile e può sfuggire via ad ogni momento. L’espressione “sporcarsi le mani” è una di quelle che nel romanzo rientrano in misura maggiore nel lessico – quasi una neo lingua – usato dal prete a capo dell’organizzazione benefica di cui si pervade l’intera storia. Ma che significa? La sua semantica è così univoca e semplice, oppure nasconde più significati? O copre addirittura alibi? (Inoltre, a dire il vero, di nuovo, non è un’espressione usata solo nel romanzo, fa parte anche di quelle nella realtà usate da Don Ciotti, e dunque tutta la polemica può rimettersi in movimento!).

“Mi piacerebbe una bella discussione, anche la più accesamente polemica: se ne fanno così di rado. Sul libro di Luca Rastello, “I Buoni”, si consuma una bruttissima discussione” dice Adriano Sofri in una delle sue repliche. E’ vero, come è vero che alcuni attacchi sembrano difese d’ufficio in cui non si distingue la realtà dal romanzo, ma forse, dato il tema, non poteva nemmeno essere altrimenti. Chissà?

Nel suo primo intervento a questo dibattito a distanza, tramite i media, Adriano Sofri aveva scritto: “Io non lo conosco (Rastello), ma ho letto suoi libri su temi che mi sono famigliari, fin dal primo: “La guerra in casa” (Einaudi 1998), sulla sciagura della ex Yugoslavia. Rastello visse quell’esperienza, in Bosnia e a Torino per l’accoglienza ai rifugiati, con una sensibilità acuta e irritata nei confronti del piacere che l’esercizio della bontà procura ai “buoni”, e ai disastri che lo zelo riesce a infliggere ai suoi beneficiati.”  Sì, ho avuto occasione anche di discuterne di persona con Rastello – prima del suo romanzo, forse lo stava già scrivendo – ed è vero, anche io nel mio piccolo, dopo un mio coinvolgimento su quelle vicende, con intensità assai minore rispetto alla sua, ho avuto occasione di verificare queste contraddizioni, chiamiamole così, del bene, quando è mescolato alla retorica o a chissà che altro ancora; dubbi e sguardi critici che non ci hanno comunque impedito di continuare a ‘sbatterci’, in grande o in piccolo, nel modo che ci pareva migliore e su cui ci interrogavamo di continuo. Altrimenti, se non facessimo tutto questo, l’uno e l’altro, continuando a ‘sbatterci’, rischieremo di scadere nel suo becero opposto: mi vengono in mente, ad esempio, le montagne di insulti per lo più gratuiti, fuori luogo e tendenziosi, rivolti alle due ragazze, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, nei mesi scorsi rapite in Siria. (Poi, anche su questo, ad esempio, sarebbe interessante un bel dibattito, come dice Sofri).

C’è anche chi rimprovera a Rastello – non ricordo più in quale articolo esattamente l’ho letto – che si poteva raccontare anche delle tante realtà, magari piccole e anonime, lontane dalle luci del marketing buonista e che funzionano. Certo, è vero, si dovrebbe farlo, magari con una altro romanzo, non opposto a questo e nemmeno alternativo o correttivo, ma semplicemente un altro; oppure con un’indagine sociale o con un reportage, come del resto qualcuno già fa. E certo, non per “dimostrare” che il “discorso” di Rastello è condannabile: non avrebbe nemmeno senso se si trattasse di questo. Mi ricorda, il tutto, anche quel lontano dibattito, innescato qualche decennio fa da Leonardo Sciascia, di critica al professionismo dell’antimafia.

Oppure altri, nella polemica, citano, opponendolo a Rastello, anche il discorso dello stesso Don Ciotti a Latina il 21 marzo 2014, che nell’occasione ho ascoltato di persona perché ero là, sotto al palco: “(…) meno parole, da parte di tutti, anche da voi familiari, e più fatti; molte parole sono diventate malate, stanche, retoriche, e tra queste la legalità: quanta legalità di comodo, strumentale, al servizio del potere? C’è anche un’altra parola malata, antimafia, diventata oggi sospetta. C’è qualcuno che si dichiara pro-mafia? Nessuno. Tutti dicono di essere anti ma tra questi c’è chi vi ha costruito sopra una falsa credibilità (…) dobbiamo avere il coraggio di non nasconderci dietro le parole, il coraggio dell’umiltà, di riconoscere anche i nostri errori, perché anche nei nostri mondi e tra tante persone meravigliose e in realtà graffianti e di grande dolore, si insinuano forme di arrivismo, di ambizione personale, e di piccoli giochi di potere, anche dentro le associazioni che dicono di essere l’antimafia, e allora abbiamo bisogno di umiltà e di farci l’esame di coscienza (…) ma anche il coraggio di non cedere alla rassegnazione ma nemmeno di indugiare nell’indignazione, perché non basta indignarsi (…)”.

Troviamo gli stessi temi nel romanzo. Come rapportarsi? Paradossalmente mi viene in mente anche Mao quando invitava a sparare sul quartiere generale, dietro c’era uno scontro di potere, e quindi, il tutto, anche questo stesso discorso, va sempre ripreso e messo in dubbio, proprio per essere meglio compreso.

E’ possibile fare il bene non troppo male, si chiede qualche personaggio nei dialoghi del romanzo.  Oppure, più semplicemente, senza dimenticarci mai che siamo tutti comuni mortali, come Fantozzi, e quindi il bene e il male li portiamo mescolati dentro, perché allo stato puro non esistono, sono solo astrazioni ideologiche o, nel migliore dei casi, delle categorie del pensiero che ci aiutano a valutare le cose del mondo.

1Ma potrei continuare all’infinito; non lo chiude Rastello il discorso e non potrei farlo certamente io. Preferisco chiudere con una bella citazione letteraria che si riferisce al personaggio principale del romanzo, una ragazza uscita da un tombino ed entrata nel mondo così, quasi di botto, quindi in qualche modo “pura” (un personaggio con un’elevata resilienza, si potrebbe dire con altri linguaggi!). Mi ero già innamorato di questo passaggio e poi, consultando tutto il dibattito, l’ho trovato citato anche da Massimo Raffaeli“Azalea cammina sulla ghiaia di uno spartitraffico, accanto alla corsia delle auto che vanno via veloci e l’aria del viale è soltanto congestione, rancore feriale, sogni rimandati e marmitte. Ma lei non cammina in quell’aria: la sua testa si perde nel silenzio che disegna un cerchio intorno ai suoi passi e appena qualche centimetro più in là cede il campo alla città. Si guarda le punte dei piedi, poi svolta e attraversa nel traffico”.

Raffaeli commenta: “Nella peripezia di Aza il bene e il male sono mescolati fino a rendersi irriconoscibili, o meglio: per lei, sono entrambi il risultato di azioni prodigate o subite senza la necessità di un accredito oppure di una reprimenda. Per questo Aza può inoltrarsi nella vita finalmente libera, indenne, consapevole di sé, senza sentirsi affatto buona e, anzi, senza il bisogno di aggiungere nemmeno una parola.”

(le illustrazioni sono di Arianna Vairo e si trovano nel proscenio del libro)

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Una coalizione sociale? Ci vuole pazienza.

11072174_447664578723381_2135992454597809132_nQualche libera riflessione su questa benedetta “Coalizione Sociale” che viene ricondotta a Maurizio Landini: come mai è diventata subito così popolare sui media? Ma al tempo stesso nessuno riesce a definirla, e dunque valutarla per cioè che è o dovrebbe essere ma accanendosi piuttosto con tentate definizioni e battute, per farla sembrare uno strano e nuovo partito? Farla sembrare, cioè, qualcosa d’altro? Ma è un gioco difficile, come si può  farla sembrare qualcosa d’altro, se ancora non è? Infatti, potrebbe non essere nulla – una proposta, tenta di rispondere Landini, ma per proporre occorre che gli altri ti prendano sul serio e non ti svuotino in partenza – e quindi  potrebbe anche svanire via presto come tante cose di cui si perde perfino il ricordo. Ma il ricordo ha anche i suoi paradossi, nel senso che di solito ricordiamo solo ciò che non dimentichiamo, ma ciò che dimentichiamo continua ugualmente ad esistere, indipendentemente da noi (o forse, ci dimentichiamo soltanto di ricordarlo?).

CBMSCQ1WYAAO6oI CBMGhWJWQAERrch CBMGhRzWsAEgvF7 CBMGhNzWcAEfx8n CBMGhNzWUAA0Yg_L’accanimento mediatico maggiore su Landini riguarda la parola “partito politico”, come se tutto ad un tratto solo la forma di partito politico possa garantire una consistenza sociale e una sostanza certa, in un momento storico in cui sfiderei chiunque a spiegarmi davvero che cosa è diventato un partito oggi, su come un partito assicura la rappresentanza e la partecipazione dei suoi iscritti e dei suoi elettori, sul modo in cui la esprime e, soprattutto, una volta arrivato sulla scena del potere istituzionale, quale potere esercita davvero. I partiti mi sembrano piuttosto il vuoto al potere. Le grandi coalizioni di interessi internazionali, il potere della finanza, dei complessi militari industriali e le settanta guerre in giro per il mondo, gli accordi di cui non sappiamo nulla o quasi, come il ttip, le imprese che decidono come investire o disinvestire come quando e dove vogliono, le società di consulenza internazionale e dei super tecnici che controllano i conti degli stati – o magari vengono chiamati anche direttamente a governare -, le conseguenze sociali che producono, il proliferare di liste civiche e partitini inventati che aspirano ad amministrare senza risorse enti locali, ma non solo, sempre più alla deriva. Ce n’è abbastanza per fare della fantascienza catastrofista. Landini, fai un partito anche tu, mettiti dentro, ti scecheriamo noi, partecipa ai talk show, facci divertire.

“I processi di disintegrazione che hanno cominciato a manifestarsi in questi ultimi anni – il deterioramento dei servizi pubblici: la scuola, la polizia, il servizio postale, la raccolta dei rifiuti, i trasporti ecc.; il tasso di mortalità sulle autostrade e i problemi del traffico nelle città; l’inquinamento dell’aria e dell’acqua – sono conseguenza sintomatiche dei bisogni diventati incontrollabili delle società di massa. Essi sono accompagnati e spesso accelerati dal simultaneo declino dei vari sistemi partitici, tutti di origine più o meno recente e destinati a servire i bisogni politici di massicce concentrazioni di popolazione (…) la trasformazione del governo in amministrazione, o delle Repubbliche in burocrazie, e la disastrosa contrazione dell’ambito pubblico che ne è seguita, hanno una storia lunga e complicata nel corso dell’era moderna; e questo processo è stato notevolmente accelerato durante gli ultimi cento anni attraverso la nascita delle burocrazie dei partiti. Ciò che rende l’uomo un essere politico è la sua facoltà di agire; gli consente di riunirsi con i suoi simili, di agire di concerto e di raggiungere obiettivi e realizzare imprese che non sarebbero mai venute in mente, per non parlare delle aspirazioni del suo cuore, se non gli fosse stato dato questo dono: di imbarcarsi in qualcosa di nuovo. Filosoficamente parlando agire è la risposta umana alla condizione di essere nato”.

Scriveva così Hannah Arendt, non ieri sera a Ballarò o da Santoro ma quasi mezzo secolo fa, nel 1969 (“Sulla violenza”, Guanda Editore), ammonendo anche che “dove il potere è scosso compare la violenza”.

“Riunirsi con i propri simili e agire di concerto”, potremmo chiamarla “democrazia partecipativa”, e il canale per ottenerla non mi sembra che siano i partiti politici, almeno nella forma con cui oggi li conosciamo e agiscono in questo sistema rappresentativo. Nel corso dell’Ottocento nacquero prima le società di mutuo soccorso, le leghe operaie e contadine, i prototipi di un welfare dal basso, prima ancore che le democrazie borghesi concedessero a tutti il diritto di voto; nel secondo dopoguerra una delle battaglie sindacali più importanti riguardò il controllo del collocamento, tolto ai lavoratori, per il tramite dei sindacati, e trasferito alla burocrazia statale, sotto lo sguardo dei prefetti. Non credo si debbano ripercorrere oggi vecchie strade, rispolverare vecchi simboli che incorporavano anche altre contraddizioni, o inseguire tardo nostalgie di tempi mitici che mitici in realtà non sono mai stati, ma forse, sgranare meglio gli occhi sull’oggi potrebbe tornare utile. Tutti a chiedersi che cosa sia mai questa coalizione sociale,  e quanti voti potrebbe aspirare a raccogliere alle elezioni – tentando quindi di assegnargli un’identità, o forse una marcatura di contenimento –  ma nessuno che si chiede: per fare che cosa?

Di tentativi a fare nuovi partiti o partitini o coalizioni elettorali se ne sono succeduti uno all’anno ultimamente, come una coazione a ripetere. Scrive la Arendt, che “la qualità essenzialmente umana (della sfera politica) è garantita  dalla facoltà dell’individuo di agire , dalla capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo.”  Qualcosa di nuovo.  Certo, non basta desiderarlo. Anche la “coalizione sociale” – come oramai è stata battezzata – potrebbe essere un vuoto, o una specie di buco nero dove non sappiamo più bene cosa ci sia finito dentro, ma forse proprio per questo potrebbe essere indispensabile cercare di gettarci dentro uno sguardo. Magari non è nemmeno un vero buco nero, magari ci sono tante realtà piccole e meno piccole, e anche quando non si siano già formate – perché non è così semplice “il riunirsi con i propri simili e agire di concerto” – magari ne scopriamo il bisogno che potrebbe alimentarle.

Ma per una coalizione sociale non ci vuole tempo, addirittura anni? Chiede Giacomo Russo Spena a Stefano  Rodotà (qualche mese fa, in un’intervista su Micromega); risponde Rodotà: Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni ’60-’70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone.”

(le foto, tratte dal sito della Cgil, sono di qualche secondo fa, della manifestazione in corso a Roma)

un po’ di documentazione:
I documenti dell’assemblea nazionale Fiom, Cervia, 27-28 febbraio
– La Coalizione sociale, una risposta alla fine del movimento operaio
– Arci: siamo con la coalizione sociale di Landini. Per ora 
– Sulla “Coalizione sociale” di Landini piena attenzione dell’Anpi ma non adesione
– Don Ciotti: “La coalizione sociale di Landini? Ben venga, collaboriamo”
– Oggi tutti “Unions” con Landini: è la coalizione anti-Renzi

 

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Le spese militari (“viva la guerra?!”)

“Le spese militari: a cosa servono, per difendere chi e che cosa?”.  Questo il titolo del secondo e ultimo incontro del ciclo “Viva la guerra?!”, con gli interventi di altri due relatori, diversi tra loro sia per l’argomento specifico trattato da ciascuno che per i punti di vista espressi, arricchendo così ulteriormente le nostre domande e gli spunti di  approfondimento e riflessione.

13Vincenzo Comito, collaboratore della campagna Sbilanciamoci e autore del libro “Le armi come impresa, il business militare e il caso Finmeccanica“, ha presentato il quadro aggiornato delle spese militari nel mondo – pari globalmente a circa il 2,5% del Pil mondiale e di nuovo in aumento negli ultimi anni, secondo i dati e le stime del Sipri (lo Stockholm International Peace Research Institute) – e ha illustrato le tendenze in atto, le diverse strategie militari dei principali paesi, a iniziare dagli Stati Uniti, le nuove direzioni degli investimenti, il complesso degli interessi industriali e militari, la privatizzazione in atto nel settore della difesa e della sicurezza, le strategie delle principali imprese mondiali del settore e la loro propensione ad assumere generali o ammiragli in congedo, fenomeno che potrebbe essere definito un conflitto d’interesse. L’attenzione infine si è soffermata sul nostro paese, sul ruolo della Finmeccanica e delle altre principali imprese, quali la Fincantieri o la Fiat Iveco. Tante le domande che possono sorgere dopo un’analisi così articolata; la più immediata, che possiamo porci, riguarda quale sarà l’impiego di tanti mezzi di distruzione, in cerca sempre di nuovi sbocchi. Tra i tanti aspetti, appare particolarmente preoccupante la spesa per le armi nucleari. Lo sguardo generale all’industria degli armamenti, la consapevolezza della quantità di risorse che vi vengono investite a scapito anche di investimenti sociali,  potrebbe indurre anche al pessimismo chi vorrebbe invece più pace e meno armi, più diplomazia e meno interventi militari, proprio perché dall’analisi si evidenzia la complessità degli interessi in campo e il loro intreccio con chi ha il potere di prendere le decisioni. Come reagire?

24Lisa Clark, dei “Beati i costruttori di pace” e collaboratrice anche delle campagne “Senzatomica” e della “Rete disarmo“, ha iniziato il suo intervento mostrandoci una parte di un video dedicato all’utilizzo delle armi atomiche durante la seconda guerra mondiale, con la distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki, per richiamare l’attenzione sull’assoluta necessità di messa al bando delle armi nucleari; una riflessione anche su che cosa si può fare e sull’importanza della mobilitazione dal basso, in particolare partendo proprio dalle Città,  il ruolo che possono svolgere le città in quanto tali per la difesa delle comunità locali e per la pace, un tema che a questo livello si coniuga direttamente con l’uso equilibrato delle risorse e la difesa dell’ambiente. È possibile, dunque, mobilitarsi e ottenere risultati, come ad esempio negli anni scorsi la mobilitazione per la messa al bando delle mine antiuomo, campagna che ha avuto anche il riconoscimento del nobel per la pace, anche se naturalmente l’argomento richiede che la mobilitazione continui ancora; oppure le campagne per la messa al bando delle armi chimiche e di quelle batteriologiche, facendo leva anche sulle istituzioni internazionali, affinché la loro azione sia più efficace. E tuttavia, proprio quando si può essere almeno parzialmente ottimisti sui risultati ottenuti da certe campagne, ecco insinuarsi proprio qui il vecchio dubbio se può essere sufficiente tutto ciò, oppure occorra porsi, in determinati casi, anche altri tipi di intervento. Ma di che tipo? Se non si vuole cadere nel paradosso che chi decide il tipo d’intervento sia qualcuno intrecciato con quegli interessi di cui sopra?

Ci sarebbe da discutere a lungo, e se ne discute, infatti, non solo da oggi. Personalmente valuto molto positivamente i due incontri, quello di sabato 7 sul tema “Isis, protagonisti e comparse in Medio Oriente“, con Wasim Dahmash e con Cam Lecce e Jörge Grünert, e quello odierno di sabato 14, con tutte le questioni che hanno posto, di cui ho cercato, in un modo assai schematico e anche personale, di riassumere i riferimenti principali. Penso che la cosa più utile sia di valutare i due incontri non tanto per le risposte – di cui non potevano farsi carico – quanto proprio per il loro contributo a porre le domande, da formulare in modo sempre più adeguato per trarne gli spunti utili da approfondire e su cui riflettere, evitando le risposte frettolose, magari pressati dall’emozione dei fatti tragici come ce li presentano i media o, peggio ancora, dalle manipolazioni e propagande di chi ha interessi diversi. Credo che andrebbero ripresi di nuovo tutti i temi trattati in questi due incontri, per ritornarci e discuterli ancora, trovando anche modalità diverse di approfondimento e studio, e soprattutto di confronto e di dibattito, proprio perché si tratta di questioni complesse.

Il ciclo dei seminari è stato organizzato da “L’Altra Europa, comitato Jesi-vallesina”, con la partecipazione di Arci, Anpi, Libera e Comitato Italia Cuba.

link utili: SIPRI, yearbook 2014, sintesi in italiano

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I martiri del Campo di Marte

(I martiri del Campo di Marte, ricordati anche come i martiri di Vicchio).
6 marzo 1944, il fronte di guerra è ancora bloccato a Cassino, non sono bastati i controversi bombardamenti che poche settimane prima, il 15 febbraio, hanno raso al suolo il LORO_NONVOTAVANO_I-FASCISTI_GLI-SPARAVANOmonastero. In quei giorni di marzo si sta preparando un nuovo attacco, di fanteria, vengono mandati avanti nuovi contingenti di neozelandesi e di polacchi[1]. I tedeschi dovranno ritirarsi prima o poi, già da alcuni mesi stanno fortificando la Linea Gotica, disturbati dalle bande partigiane; dal canto loro gli Alleati bombardano già da tempo tutte le principali città e vie di comuniczione del centro nord. Il 6 marzo, un gruppo di partigiani occupa la cittadina di Vicchio, nel Mugello, poco spra Firenze. La mattina del 12 marzo, alcuni reparti repubblichini fanno un rastrellamento nella zona e catturano diversi renitenti alla leva, sospettati di essere partigiani. Per lo più sono giovani contadini del posto, ma c’è tra loro anche un aviere sardo nascosto presso una famiglia. Inizia così il calvario di questi ragazzi. I fascisti vogliono qualcosa di plateale, trsferiscono i ragazzi a Firenze, li processano subito e ne condannano diversi a morte. Cinque li fucilano la mattina del 22, al Campo di Marte. Sono tutti ventenni, quattro di Vicchio (Antonio Raddi, Ottorino Quiti, Adriano Santoni, Guido Targetti) e uno di Maracalagonis, vicino Cagliari, si chiama Leandro Corona. Tre dei giovani muoino subito ma altri due proseguono la loro agonia dimenandosi, finché il comandante del plotone non li finisce con la rivoltella. Lo spettacolo è tale che alcune reclute repubblichine addirittura svengono o scappano. Si dovrà aspettare il 2008 prima che un Presidente della Repubblica assegni ai ragazzi uccisi la medaglia d’oro al valor civile.

Conoscevo solo il nome di questa strage – “i martiri del Campo di Marte” – poi l’ho sentita raccontare lo scorso anno durante la Staffetta della Memoria, in bici sulla Linea Gotica, da uno dei ciclisti, Sandro Targetti, nipote di uno di quei ragazzi martiri (ecco qui alcune note, dal diario della Staffetta dello scorso anno). La Staffetta consente anche questo, ricordare insieme tante storie importanti, da non dimenticare.

[1] Ho letto la scorsa estate un coinvolgente libro sulla battaglia di Montecassino – “Le rondini di Montecassino” di Helena Janeczek -, sulle storie dei neozelandesi e, in particolare, sull’epopea tragica dei polacchi; poi sono andato a visitare quei luoghi, il cimitero polacco – impressionante vedere le tante tombe dei soldati rimasti uccisi in quella battaglia – il mausoleo e il museo giù in città, per ricordare quella storia.

(la foto in alto è tratta dal sito di Radio Mugello, in un articolo che parla della commemorazione dello scorso anno da parte del Circolo Arci “12 marzo” delle Caselle di Vicchio)

 

 

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Viva la guerra?!

Viva la guerra?! E’ questo il titolo del ciclo di due seminari aperto ieri, sabato 7 marzo, alla Biblioteca Petrucciana di Jesi, con Wasim Dhamash, docente di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari, e Cam Lecce e Jörg Grünert, della “Rete di solidarietà con la Palestina e pace nel Mediterraneo” Abruzzo/Molise; l’incontro è stato introdotto da Roberto Frey, del Laboratorio Sociale di Ancona. Il ciclo di seminari si concluderà il prossimo sabato 14 marzo alle ore 16.00,  con Vincenzo Comito, collaboratore della campagna Sbilanciamoci e Lisa Clark, del direttivo nazionale dei “Beati i Costruttori di Pace”.

123Ci sono, nel titolo dell’iniziativa, un punto interrogativo seguito da un ironico, o forse perplesso punto esclamativo, come preoccupati di indicare ai possibili sguardi superficiali che si tratta di una provocazione, molto evidente invece a chi, come tanti di noi, alla parola guerra ha sviluppato una sorta di automatica allergia.  “Questo titolo – ha detto il primo relatore, Wasim Dhamashmi ha fatto sentire come un brivido addosso, la prima volta che l’ho letto.”  A lui il compito di aprire la serie di riflessioni proposte da questi incontri, la cui prima giornata ha focalizzato l’attenzione sulla ingarbugliata situazione in medio oriente, dove l’analisi di quanto accade può procedere soltanto con cautela, disponendo di informazioni parziali, o da filtrare, dentro il grande mare delle comunicazioni mediatiche ridondanti, di effetto e sbrigative, se non al servizio di interpretazioni di comodo e in contrasto tra loro. Per orientarsi, occorre ricostruire il disegno d’insieme, partendo – per questa era contemporanea che ci riguarda – dal sostegno finanziario e in armi nel 1979 ad alcuni gruppi in Afghanistan, in funzione allora antisovietica; ridisegnando poi gli scenari di lungo periodo, attraverso le innumerevoli guerre destabilizzanti di questi anni, fino alle varianti e alle vicende del “caos” attuale; cercando anche di coglierne l’impatto, le conseguenze e le reazioni, i punti di vista. Non un’analisi “dotta”, nel senso di fine a se stessa, ma preoccupata di comprendere ciò che sta avvenendo, per poterlo fronteggiare; Wasim ha citato il libro di Domenico Tosini “Terrorismo e antiterrorismo nel XXI secolo”: “Il presupposto per una lotta efficace contro il terrorismo è conoscerne la natura. La reazione peggiore è considerarlo come il prodotto di irrazionalità o fanatismo, e i suoi militanti come soggetti mentalmente disturbati. Il terrorismo ha una sua propria (senz’altro terribile) ‘logica’»: benvenuti nella sua nuova epoca, il XXI secolo.” E’ dunque una riflessione volta anche a denunciare coloro che strumentalizzano e alimentano la guerra, un invito a mettere in guardia contro la manipolazione delle coscienze, che impedisce la ricerca di soluzioni corrette.

456Il secondo contributo della serata è venuto da Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert, due artisti di Pescara fortemente impegnati nel sociale, che hanno portato la testimonianza delle loro attività e visite nei campi profughi in Libano, l’ultima delle quali poche settimane fa. “Il teatro come corpo sociale e orizzonte di diritti umani” è il titolo di un libro che avevano con sé, che contiene alcune delle storie raccontate ieri sera: “Osama aveva 17 anni ed era seduto di fronte a noi, nel circle time…mentre raccontava con uno sguardo perso nel vuoto, dei suoi compagni saltati in aria nell’ambulanza della protezione civile durante la guerra appena conclusa.” Che significato hanno queste esperienze, come trasmetterlo? “Il laboratorio ha sicuramente effetto terapeutico in senso lato, l’esempio di Osama descrive la possibilità dei laboratori  di promuovere le capacità resilienti delle persone e delle collettività sottoposte a grandi traumi e stress.” Si tratta dunque di un’esperienza, diciamo, terapeutica? Non esattamente, sarebbe riduttivo o addirittura fuorviante. E’ di più, un di più che ha a che fare con la formazione dell’essere umano e con il valore della creazione artistica, con un qualcosa che richiede probabilmente una ricerca mai esausta e sempre aperta: “La sua dimensione è quella del gioco, e come ogni gioco si gioca seriamente, la sua posizione è quella del non-potere, non si afferma e non si impone, solo si fa.” Cam e Jörg hanno accompagnato la loro testimonianza con la proiezione delle fotografie del loro ultimo viaggio, che ancora di più ci hanno trasmesso il senso della difficoltà e della situazione tragica nella quale molti profughi sono costretti a vivere, oltre i limiti della nostra immaginazione, ma trasmettendoci al tempo stesso, visivamente, il vero senso della parola “resilienza”.

Il dibattito seguito ai due interventi, data la vastità dei temi trattati, non poteva che restare aperto, rivolgendosi – mi sembra corretto dire – alla formulazione di ulteriori domande; ad esempio: quali sono i disegni geopolitici, la geografia degli interessi sottostanti e contrapposti tra loro, le dinamiche che assumono, le manipolazioni a cui siamo sottoposti e così via: anche tutti noi, insomma, avremmo bisogno di potenziare la nostra resilienza.

Il secondo appuntamento presso la Biblioteca Petrucciana di Jesi è per sabato 14, alle ore 16, sul tema “SPESE MILITARI: a cosa servono, per difendere chi e che cosa”; intervengono Vincenzo Comito, collaboratore della campagna Sbilanciamoci, e Lisa Clark, del direttivo nazionale dei Beati Costruttori di Pace.

Il ciclo dei seminari è stato organizzato da “L’Altra Europa, comitato Jesi-vallesina”, con la partecipazione di Arci, Anpi, Libera e Comitato Italia Cuba.

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“Blu di metilene”, con Tiberio Bentivoglio

Blu di metilene, incontro con Tiberio Bentivoglio, Jesi, 28 febbraio. “Blu di metilene” è un progetto e-antiracket progettato da Tiberio Bentivoglio ed Alfonso Russi, ex consulente tecnico della DDA di Catanzaro, ideato per sostenere la compravendita online di prodotti e servizi di aziende appartenenti al settore “no pizzo”.
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7L’avvio dell’iniziativa riguarderà la SANITARIA SANT’ELIA di Reggio Calabria, del testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio, aderente al gruppo no-pizzo “ReggioLiberaReggio”.  A regime, il progetto è estensibile ad altre aziende/artigiani “no-pizzo”, in virtù della sua elevata flessibilità e portabilità operativa. A presentarlo ieri sera a Jesi, c’erano Tiberio Bentivoglio e Alfonso Russi. L’iniziativa è stata organizzata dal  presidio di Libera di Jesi, attivo in città dal 2009 e intestato lo scorso anno a Giuseppe Russo, un giovane di 22 anni, di Acquaro (Vibo Valentia) ucciso da un boss della ‘ndrangheta perché non lo voleva come fidanzato di sua cognata.

Tiberio Bentivoglio era stato già ospite a Jesi nello scorso mese di dicembre, per raccontare la sua storia e, con la sua, le storie di chi si ribella ai soprusi. “La cosa che fa più male, però, ” diceva anche ieri sera – lo cito ora a memoria -, “non è la minaccia o la bomba, ma l’assenza di attenzione della gente”, ricordando non solo l’isolamento attorno alla sua attività commerciale e al suo lavoro, che rischia di fallire, ma anche, ad esempio, la difficoltà a suo tempo di trovare un avvocato disponibile ad assisterlo o il senso di isolamento quando doveva presentarsi in un’aula di giustizia per  testimoniare in un processo: “negli ultimi anni però non è più così; l’ultima volta c’erano in aula “i ragazzi” di Libera a sostenermi, a farmi sentire la loro presenza, non ero più solo ma come a casa mia, tra i miei, e questo da una  nuova carica.”

Nelle immagini, alcuni momenti dell’incontro di ieri sera, che poi ha proseguito anche con una cena collettiva per sostenere il progetto. Sull’incontro avvenuto a dicembre, vedi “Se il popolo si ribella per noi è finita”.

COLPITO, la vera storia di Tiberio Bentivoglio” è anche un  libro, scritto da Daniela Pellicanò, con una prefazione di don Luigi Ciotti.

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Il giorno del ricordo

250px-Pfo_Toscana_a_Pola2Dopo la giornata della memoria, il 27 gennaio, oggi 10 febbraio è il giorno del ricordo, dedicata alle vittime delle foibe. Una vicenda storica che ha con la nostra memoria un rapporto molto complesso, per il suo intrecciarsi negli anni di rimozioni, ricostruzioni parziali o strumentali, e dall’altra tentativi di una corretta ricostruzione e adeguata commemorazione. Voglio citare qui un’intervista di dieci anni fa – nel primo anno in cui la giornata è stata celebrata – di Andrea Rossini a Giacomo Scotti, storico istriano, che ricostruisce la complessità di quella realtà, tra il ’43 e il ’47.
Mostrarne la complessità e la diversità dei singoli avvenimenti che si succedono, credo che non ne diminuisca la tragicità, ma al contrario ci aiuta ad avere una visione più lucida, proprio grazie alla maggiore comprensibilità della Storia.

“I veri infoibati” – risponde Scotti – “che sono stati fucilati e i cui corpi sono stati gettati nelle foibe sono verosimilmente alcune centinaia. La storiografia dell’estrema destra parla tuttavia di parecchie migliaia”.  Nei passaggi successivi Scotti ricostruisce la varie fasi storiche, iniziando dalla rivolta popolare in Istria dopo l’8 settembre ’43, per circa un mese fino all’inizio di ottobre: “un’insurrezione di contadini che hanno assalito i Municipi, hanno assalito anche le case dei fascisti, di coloro che facevano parte della milizia volontaria della sicurezza nazionale, degli agenti dell’OVRA (la polizia segreta fascista, ndr) ammazzandone parecchi nelle loro case, e alcuni gettandoli nelle foibe.” Queste violenze in Istria non si ripeterono più, in questa forma.

Una seconda fase si ha invece a Trieste, i famosi 45 giorni dopo l’occupazione titina: “Qui ci sono stati effettivamente episodi di pulizia etnica perché la cosiddetta guardia popolare – di cui facevano parte tra l’altro moltissimi Italiani, triestini, goriziani e friulani – e che a Trieste dava la caccia ai gerarchi, ai fascisti, ha colpito anche molti antifascisti la cui colpa era quella di battersi perché Trieste restasse italiana. Da una parte c’era l’idea di molti combattenti di costruire il socialismo fino all’Isonzo, però c’era anche molto nazionalismo da parte delle truppe di Tito arrivate a Trieste. (…) Inoltre c’erano alcuni reparti del Nono Corpus sloveno, quindi uomini che avevano direttamente subito angherie dal fascismo. (…) Quindi c’era rabbia, c’è stata anche vendetta, un revanscismo da parte di questi soldati e sono stati commessi crimini.” Quindi Scotti ricorda di aver trovato un telegramma di Tito che ripmprevera e rimuove dal comando il comandante della piazza di Trieste per non aver saputo controllare il regime di occupazione.

“Quanti siano stati i cosiddetti infoibati in questa fase non saprei dirlo”, dice Scotti, “stando a storici triestini come Galliano Fogar che era un azionista, oppure Raoul Pupo, oggi professore universitario, si tratta anche là di alcune centinaia di persone finite nella foiba di Basovizza, che ora è diventata monumento nazionale italiano. Di fronte a queste vittime bisogna certamente inchinarsi. Però bisogna anche dire che quelli che parlano di 10.000 o 20.000 infoibati infangano le vere vittime perché con le menzogne finisce che la verità viene coperta e anche chi dice il vero non viene creduto.”

Il terzo episodio storico citato nell’intervista è quello del grande esodo degli istriani, altra grande rimozione del nostro passato. Anche qui, però, per uscire dalla rimozione occorre ricostruire in modo adeguato: “Alla fine sono partite 240.000 persone. Tra queste c’erano, veniamo alle cifre, 44.000 funzionari che erano venuti dall’Italia negli ultimi 18 anni di presenza italiana in Istria, maestri elementari, insegnanti, questurini, carabinieri, finanza ecc. che si iscrivevano nelle liste della cittadinanza ma non erano autoctoni istriani o dalmati o fiumani. Non li voglio certamente togliere, ma questi erano 44.000. C’erano poi 20.000 Croati. Quindi quando si parla di Italiani bisogna fare attenzione. Parliamo degli Istriani, di qualsiasi nazionalità, non erano soltanto Italiani i profughi.”

Nella parte finale dell’intervista Rossimi chiede che cosa significa, per un istriano, questo “giorno del ricordo”? “Io e molti altri, quasi tutti gli Italiani qui”, – risponde Scotti – “stiamo vivendo questi giorni con molto disagio, ci sentiamo veramente avviliti. Le destre, ovunque, i nazionalismi, ad esempio il nazionalismo dei dieci anni di Tudjman, durante il quale hanno cercato addirittura di chiuderci le scuole italiane, ci hanno perseguitato, ed ora questo nazionalismo da parte italiana, che è un’euforia insopportabile, con questi film che dicono menzogne, queste cifre che dicono menzogne, queste parate, ci avviliscono… Questi nostri vicini, amici con i quali viviamo qui nell’Istria, a Fiume, questi Croati, ci dicono: ‘Noi che abbiamo subìto un’aggressione durante la guerra, abbiamo subìto 360.000 morti dall’occupazione italiana, abbiamo subìto i campi di concentramento italiani… Invece di chiederci perdono ci attaccate ormai continuamente…’ Come può fare un Italiano che vive qua a guardare in faccia questa gente?”

L’intervista poi prosegue, su altri aspetti ancora, e molti altri li ho sorvolati, in questa mia sintesi veloce. Chi vuole approfondire però può andare direttamente all’originale: La memoria delle foibe in Istria: intervista a Giacomo Scotti, di Andrea Rossini. Nella finestra in alto accanto all’articolo sono riportati altri articoli, anche di altri autori, sullo stesso argomento, pubblicati anche successivamente all’intervista.
(nella foto in alto, cittadini di Pola s’imbarcano sul piroscafo Toscana)

Fenomenologia-di-un-martirologio-mediatico_mediumIn data odierna, invece, sempre su Osservatorio dei Balcani e Caucaso, è stato pubblicato questo nuovo articolo: “Le foibe nella rappresentazione pubblica”, di Gorazd Bajc, una recensione del libro di Federico Tenca Montini: “Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi”.

Sul tema della memoria, vedi anche sul sito ALTROVÏAGGIO, la sezione “AL ROGO, profezia & memoria

 

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Assalto al treno (2015)

Albacina – Si è tenuta ieri, sabato 7 febbraio, la commemorazione dell’assalto al treno, avvenuto 71 anni fa ad Albacina, il 2 febbraio 1944. Come tutti gli anni un significativo Anumero di persone, invitate dall’Anpi di Fabriano, si è riunito per commemorare questo che è uno dei più importanti eventi della Resistenza nella nostra regione. Dopo i saluti del Sindaco di Fabriano, davanti al cippo sul piazzale della stazione, nei pressi dei binari, per rendere omaggio ai caduti di quel giorno, la commemorazione è proseguita all’interno della stazione, a causa della fitta pioggia. Quest’anno ho avuto l’onore d’essere invitato per tenere l’orazione; di seguito il testo che ho letto, preceduto dall’intervento introduttivo di Valeria Carnevali dell’Anpi di Fabriano, molto efficace ed attuale.

“Osservare e conoscere le esperienze di Resistenza contemporanee” 
di Valeria Carnevali

BLa ricorrenza del 2 febbraio, che quest’anno abbiamo scelto di posticipare a sabato 7 per ovvie ragioni di calendario, è molto importante per l’associazione, perché permette di porre un punto di inizio al nuovo anno di attività, incontrando le persone che, a vario titolo, come familiari dei partigiani, lavoratori, pensionati, politici, persone di cultura, insegnanti, studenti, membri della società civile, tra cui anche rappresentanti di altre sezioni ANPI della regione, hanno a cuore la memoria degli avvenimenti della Resistenza, ma anche l’attualità dei suoi valori. Insieme ai successivi fatti della zona (l’eccidio di Braccano di Matelica, 24 marzo, l’eccidio di Monte S. Angelo di Arcevia, 4 maggio, la battaglia della Vallina di Monte Cucco, 4 luglio 1944), questo episodio fa parte di una catena di eventi di notevole rilevanza nella storia della Liberazione d’Italia. Continua a leggere

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“Cronache di ordinario razzismo” (a cura di Lunaria)

CopertinaL’Europa tra i venti di guerra e la bonaccia del razzismo? Due facce della stessa medaglia? Ecco l’introduzione al rapporto “Cronache di ordinario razzismo – terzo libro bianco sul razzismo in Italia“. disponibile in formato pdf sul sito di Lunaria.  Oltre 200 pagine di interventi sui vari aspetti del fenomeno, tra cui un’intera sezione dedicata a “Migranti e media”. Di seguito, l’introduzione al rapporto: A distanza di quasi tre anni, torniamo a ripercorrere le Cronache di ordinario razzismo che attraversano la vita pubblica e sociale nel nostro paese. Lo facciamo, questa volta, allungando lo sguardo verso l’Europa, di cui le elezioni svolte nel maggio scorso hanno svelato le pulsioni nazionaliste, xenofobe e populiste. Sono pulsioni cavalcate ad arte da formazioni vecchie e nuove dichiaratamente di destra, ma ispirano anche movimenti e partiti che si dichiarano più moderata- mente conservatori, di centro o privi di culture politiche di riferimento. Incontrano facilmente consenso a causa del procrastinarsi di una crisi economica, sociale e democratica che non accenna a fermarsi. Trovano linfa nella pervicacia di politi- che istituzionali miopi e poco lungimiranti nei confronti dei migranti, dei profughi e dei rom. Si intrecciano con il modello culturale, plasmato da decenni di egemonia neoliberista, fondato sull’individualismo, la competizione, la distruzione scientifica di qualsiasi anticorpo collettivo considerato non allineato rispetto all’ideologia domi- nante. Spesso nascondono conflitti di classe e diseguaglianze sociali, riuscendo a penetrare il tempo e lo spazio della vita quotidiana. Continua a leggere

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“Anche nella questione della razza noi tireremo diritto”

Si conclude domani 31 gennaio la mostra “Per non dimenticare”, allestita in un vagone ferroviario al piazzale ovest della stazione di Ancona, da Anpi, Arci, Spi Cgil, Libera, altre associazioni e istituzioni. Il titolo completo della mostra è “Le SS ci guardavano: per
12345loro eravamo come scarafaggi”
, una citazione dal racconto delle poche sopravvissute dal lager di Ravensbrück, riservato alle donne, ve ne transitarono oltre cento mila, in gran numero politiche, molte prelevate per i bordelli degli altri campi o inviate come cavie umane agli esperimenti dei medici. Cavie, non per un sadismo fine a se stesso, ma per testare farmaci, per i profitti delle case farmaceutiche che sostenevano il regime. Una pagina particolarmente efferata, della quale solitamente si parla un po’ meno. Altre sezioni della mostra sono dedicate ad altri documenti, di carattere più generale, sui campi di sterminio, o anche a documentazione dalla stampa di allora, con la propaganda razzista dei regimi, compresa la campagna di difesa della razza del regime fascista in Italia. “Anche nella questione della razza, noi tireremo diritto” riporta la prima pagina del Corriere della Sera del 24 agosto 1938, e più sotto l’articolo di apertura titola: “Origini ed omogeneità della razza italiana”: che vergogna!  La mostra è stata molto visitata in questi giorni e molte, durante il mattino sono state le classi scolastiche della città e dei dintorni. Ho incrociato anch’io alcune di queste scolaresche, accompagnate da “guide” dell’Anpi e dai loro insegnanti. “Forse sono immagini troppo forti” sentivo commentare da un’insegnante un po’ perplessa, e in effetti le foto delle donne recluse a Ravensbruck, e le didascalie sotto, riportavano una realtà al di là del comunemente immaginabile. Sento un ragazzo che chiede: “Ma che avevano fatto di male per essere trattati così?” Una domanda che apre un mondo. Innanzitutto come una ricerca di una spiegazione che appare già impossibile. O anche, ben nascosta sul fondo di ciascuno di noi, l’idea che qualcosa di male possono aver fatto. E se anche fosse? E se anche qualche remota colpa potesse far meritare una punizione, ciò che poi accadde, e che spesso continua ad accadere, può essere mai paragonato ad una punizione? Semmai, spesso, sono stati proprio molti di quei criminali a scampare la giusta punizione che avrebbero meritato. “Che reazione hanno avuto i ragazzi” chiedo a una volontaria dell’Anpi che ha appena concluso il giro della mostra con loro: “Mi sono sembrati sempre tutti molto attenti, non li ho mai visti distrarsi o annoiarsi. la mostra ha un impatto forte, è stata pensata appositamente così.”  Chissà, davvero, che effetto ha? Qualche sera fa ho seguito una conferenza del filosofo Umberto Curi; ad un certo punto aveva parlato della poetica di Aristotele, spiegando come per Aristotele una tragedia da rappresentare a teatro è bella, nel senso di ben fatta, se suscita compassione e terrore, perché allora può favorire un processo di catarsi, di purificazione. Coinvolge, diremmo con il linguaggio corrente. Chissà se le immagini forti della mostra producono, o hanno prodotto, un effetto analogo? Nella mia esperienza personale ho sentito parlare davvero per la prima volta, in modo compiuto, della realtà dei lager, quando un professore a scuola – allora anche noi avevamo sedici anni – decise di togliere un po’ di tempo alla lettura dei Promessi Sposi – con tutto il rispetto dovuto a Manzoni – per leggere al suo posto “Se questo è un uomo” di Primo Levi. So benissimo che non basta una mostra o un libro, da soli, e che occorre la continuità e la coerenza di tutti i giorni, ma forse nemmeno la coerenza di tutti i giorni è sufficiente da sola, se non ha poi queste occasioni di approfondimento, di racconto diretto, di accesso alla documentazione. Il vagone ferroviario, simile a quello usato allora per le deportazioni, appare come un contenitore ampio e profondo quando si entra e lo si vede vuoto, è bello da vedere, da una sensazione di piacevole accoglienza. “Provate a immaginarlo – diceva un volontario dell’Anpi ai ragazzi – pieno zeppo di persone, più di cento, strette in piedi, in viaggio per giorni, senza mangiare, senza un bagno, senza sapere dove si è diretti!”. E’ difficile immaginarlo.

Sullo stesso argomento:
AL ROGO, profezia & memoria
La narrazione fatta e non ascoltata

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Bloody Sunday, 43 anni fa

bloody4Cerchiamo la memoria nelle ricorrenze e magari non ci rendiamo conto che siamo noi stessi la memoria, attraverso gli eventi in cui siamo passati o che ci hanno sfiorato nelle varie epoche, o di cui abbiamo ascoltato testimonianze importanti. Ci sono ricordi e memorie che possono affiorare in qualsiasi momento, da ogni data, ciò che dobbiamo ancora imparare a fare meglio, forse è di non trascurarli per stanchezza o superficialità, ma anche non lasciarsi soccombere, ma trovare il modo adeguato per farli rivivere nel presente. Tra le tante cose accadute in questa data, oggi è il 43° anniversario del Bloody Sunday, la domenica insanguinata di Derry, quando i paracadutisti dell’esercito britannico sparò più di mille colpi sulla folla che marciava per i diritti civili, cantando We shall overcame. Leggevo poco fa un twitter di radio statale, che oggi alle 14 va in onda con una trasmissione su questo. Alcuni anni fa ho fatto un viaggio a Derry, e poi, l’ho raccontato qui sul blog, in questo racconto. Veramente emozionante, perché ho incontrato alcuni reduci di allora, parenti di alcune delle vittime. Erano miei coetanei, avevano venti anni e parlando con loro, fotografandoci insieme, mi avevano riportato ai miei venti anni, e all’eco di quegli avvenimenti che allora ci era giunta qui. Negli stessi giorni del terremoto di Ancona. Ricordavo bene i miei pensieri e quegli echi, e sentirli dal vivo era qualcosa di molto coinvolgente. L’articolo che scrissi allora è questo: Bloody Sunday, 30 gennaio 1972.

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(questa immagine invece è tratta dal twitter di Stataleradionews)

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It was a dark and stormy night…

Charlie-Brown-Era-una-notte-buia-e-tempestosa...Non mi tornano i conti, come se restasse sempre fuori qualcosa. Forse più di qualcosa! Qualche giorno fa ho postato su Fb una vignetta dove Snoopy sul tetto della sua “casa” batte sui tasti della machina da scrivere: “Era una notte buia e tempestosa…”; mi sembrava una buona battuta per esprimere il bisogno di un attimo di pausa, in mezzo alla ricerca affannosa in questi giorni di dire la propria, come per rassicurarci uno con l’altro su una interpretazione capace di rassicurarci, nel senso di avere l’illusione di capire tutto e, quindi, in qualche modo – chissà in quale? – di controllarlo. 
Insomma: siamo tutti Charlie, sì, ma la domanda poi è: chi siamo? Snoopy m’era venuto in mente anche per cercare di rendermi autonomo da Charlie.
Poi, stimolato dalla lettura in rete del comunicato “Charlie Hebdo, la solidarietà di Sarajevo” , mi sono diretto verso un angolo della mia libreria poco frequentato negli ultimi anni, dove sono  i miei libri sui Balcani e sulla guerra di ex- Jugoslavia.
Sono stato spinto, a farlo, da alcuni piccoli dettagli, ad esempio: il “ceto sociale” – oggi il termine “classe” non si usa più – di provenienza degli attentatori, i quartieri di periferia da dove erano partiti, l’artigianalità esibita. Tutto così diverso dalle “torri gemelle”. E poi la qualità dell’obiettivo. L’11 settembre era stato il simbolo e il luogo del potere imperialista. Ora, un giornale di satira che irride tutti i poteri. Un giornale però che si trova – almeno attualmente – anche al centro di una città non qualunque – una grande capitale storica del colonialismo, simbolo forse anche di una tollerante liberalità del “potere imperial-colonialista” al suo interno? – e non nella sua “periferia”. Quindi, magari, estraneo, antropologicamente, a chi con quell’attentato s’identifica.
200Ma forse – chissà? – estraneo anche a molti che hanno solidarizzato identificandosi con questo simbolo (in questo momento non considero quelli che invece hanno finto soltanto di identificarsi, per cavalcare l’evento e trarne le opportunità che credono, strumentalizzandole).
Non mi tornano i conti, nel senso pratico del termine: che dobbiamo fare ora?
Dobbiamo pensare ai complotti? Mi ritrovo abbastanza in un commento di Giulietto Chiesa, che dei complotti è un’analista: la domanda “a chi giova?” resta sempre assai utile per decifrare, ma riusciamo davvero a capirlo a chi giova fino in fondo? Oppure dobbiamo condannare i fondamentalismi, ponendo come unico tema al centro la libertà d’espressione? Certo, ma il problema allora è: come farlo? E che cos’è davvero la libertà d’espressione? Insomma, le questioni sono tante e quindi in questo senso mi sento come Snoopy: era una notte buia e tempestosa!
Dicevo della guerra di ex-Jugoslavia – che forse conosco un po’ meglio ma ogni volta che ritorno sull’argomento mi accorgo che quella lezione non è affatto capita, e che ciò che di volta in volta ci appare chiaro, ma forse solo superficialmente, si presta ad essere rovesciato subito nel suo opposto.
Ho ripreso a sfogliare un po’ di quei libri, che forse è il caso di rileggere, per ripartire anche da lì e poi proseguire. Fare o tentare un’operazione di “cultura”, in questa epoca nella quale la cultura è sempre di più utilizzata come sistema di distrazione di massa, come sentivo affermare di recente da Goffredo Fofi in un’intervista.
Tra i libri che ho ripreso a leggere qua e là, c’era “L’Altra Serbia, gli intellettuali e la guerra”, della metà degli anni Novanta, con una prefazione di Predrag Matvejevic e curato da Melita Richter Malabotta: una raccolta / selezione di molti interventi dei membri del Circolo di Belgrado, letti in due diverse sezioni tenute nella primavera del ’92 e nel successivo inverno, all’inizio di quella guerra.  Sono tutti da leggere o rileggere. Tra questi, però, sono andato per prima cosa a cercare uno dei due interventi di Filip David – scrittore e redattore della TV di Belgrado, che nel gennaio 1993 fu messo in “licenza obbligata” – che più o meno ho sempre ricordato in questi anni, credendo spesso di trovarne tracce evidenti qua e là, come una sorta di memoria capace anche di farsi profezia. Cambiano ovviamente i contesti specifici di riferimento, ma è la sostanza che m’interessa. Ciò che ricordavo, in particolare, era la citazione e interpretazione che Filip David fa della “filosofia della borgata”, del filosofo Rodomir  Konstantinovic. – che forse è utile approfondire. Trascrivo qui un paio di brani di Filip David:phpThumb_generated_thumbnailjpg
“L’insostenibile leggerezza del morire. Quello che rende particolarmente insopportabile la vita dello scrittore nella società totalitaria è la sensazione che le parole abbiano perso il loro vero significato, si siano usurate e rinsecchite, siano diventate le scorze vuote sull’immondezzaio dell’ideologia.
Con le parole nominiamo le cose: colui che in questa magia sa i veri nomi delle cose diventa il padrone del grande potere, crea e cambia il mondo. Se le parole sono poco chiare e imprecise, anche i siginificati sono falsi. Tutto perde il proprio valore, anche la vita umana. In tali mondi la barbarie sopprime la civiltà. Per i barbari la civiltà è la causa di tutti i mali, delle malattie e delle deformità. Il barbaro distrugge le città perché le odia dal più profondo della sua anima selvaggia, e in loro vede la fonte del male e della pestilenza. I barbari nostri contemporanei sono nati dallo spirito della borgata. La loro psiche è affascinata dalla mitologia e dagli ideali di vita tribale, patriarcale. E’ una società che il tempo non ha scalfito, pietrificata nella sua immobilità. E’ ossessionante la sua brama di territori e simboli araldici. Ma dietro tutto c’è un grande, terrificante vuoto che divora tutto.”   C’è chi la chiamava la teoria dei “primitivi”, all’assalto delle città!
Sono circa cinquanta gli interventi – opinioni, analisi, riflessioni – riportati nel libro, diversi tra loro e ricchi di spunti, per tornare a noi e aprire un discorso sulle “città”, le stratificazioni sociali e di classe oggi, i rivolgimenti ulteriori in questi ultimi decenni e anni di “crisi”. Tutto questo richiede uno sforzo nuovo e inedito di comprensione. Non sono mai esistite risposte semplici a domande complesse.
Tra i pochi interventi di questi giorni che ho trovato interessanti, perché indaga in questa direzione, e con riferimento diretto al contesto di oggi, c’è quello di Annamaria Rivera su Micromega“Oggi, provo un senso doloroso di lutto per l’orrenda carneficina e il suo epilogo da incubo (diciassette vittime in tre giorni), per il riattivarsi della violenza antisemita, per la perdita dei miei miti, per la mia cultura lacerata. Ma soprattutto per lo scenario tragico che si profila e per l’inadeguatezza dei nostri schemi e categorie a interpretare o almeno a cogliere in profondità il senso di ciò che è accaduto e che accadrà. E’ anche per questo, non solo per lo choc, che ho esitato a prendere la parola: neppure la mia antropologia critica, una certa conoscenza dell’islam delle periferie, l’impegno più che ventennale contro il razzismo e l’islamofobia mi garantiscono strumenti sufficienti ad analizzare la pulsione di morte e il totalitarismo bellico che, esportati dall’Occidente in plaghe aliene (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Mali…), come per contraccolpo si riproducono da noi.”
La Rivera cita un libro da lei curato nel 2002, “L’inquietudine dell’islam, Dedalo, Bari“, che mi era sfuggito ma mi stimola: “Già allora, in quel libro e altrove, analizzavamo ciò che Khosrokhavar definiva, in riferimento alla Francia, islam dell’esclusione. Ed è questa una delle tante chiavi (non certo la sola!) che potrebbe aiutarci a comprendere gli attentati di matrice islamista “a casa nostra”.

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“Senzatomica”, “Un’altra difesa è possibile” !

testataAnche le Marche tra i siti possibili per lo smaltimento di scorie nucleari? Si è conclusa ieri sera al Teatro Moriconi di Jesi l’edizione 2015 della tradizionale giornata dedicata alla pace, organizzata dalle associazioni della Consulta della Pace, insieme al Comune. Il tema scelto quest’anno per la tavola rotonda – il disarmo e la moratoria per la messa al bando delle armi nucleari – era stato già anticipato a dicembre dall’iniziativa SENZATOMICA e dalla Mostra multimediale organizzata dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai in collaborazione con il Comune di Jesi, visitata daoltre 4 mila persone, come è stato ricordato durante la tavola rotonda di ieri sera da Elisa Polzoni, in rappresentanza dell’Istituto.
Tra gli altri relatori, Paolo Gubbi, dell’Avis, che a nome della Consulta ha ricordato in particolare tra le iniziative dell’anno, il mercatino dei bambini svoltosi a luglio, il cui ricavato è stato distribuito per concorrere a tre diversi progetti di solidarietà, per i bambini profughi siriani in Turchia, per i bambini disabili in Kenia e per l’ospedale di Emergenzy in Sierra Leone.
Senza titoloGiorgio Foroni, già noto per essere un giornalista che ha realizzato servizi per Report, ha parlato delle scorie nucleari, non solo come problema di smaltimento – già di per sé assai inquietante – ma inquadrandolo più in generale nel tema degli armamenti e della risoluzione militare dei conflitti, e ponendosi domande sul ruolo delle istituzioni internazionali, come l’Onu, che dovrebbero tutelare la pace e assumono risoluzioni che poi non applicano e restano sulla carta, innanzitutto per problemi di veto incrociati tra le maggiori potenze. Oppure sottolineando come le campagne, ad esempio contro l’armamento atomico dell’Iran siano “parziali”, dovendosi piuttosto porre il problema dello smantellamento da parte di tutti, in quanto non possono esserci Stati a cui è fatto divieto e altri no.
Foroni ha poi affrontato direttamente il tema della”Pattumiera nucleare”, mostrandoci l’analogo filmato di un suo reportage andato in onda su Report nel 2.000. Attualissimo, e inquietante, anche dopo 15 anni, soprattutto se non ci lasciamo sfuggire la notizie di questi ultimi giorni del nuovo anno, e cioè, pare che anche la nostra regione Marche sia stata inserita tra i territori in cui individuare un sito per lo smaltimento delle scorie nucleari. C’è solo da rispondere NO, con la massima chiarezza e decisione. È difficile riassumere in poche righe quanto mostrato nel video, la chiusura di intere città – “Majak non esiste nemmeno sulle carte geografiche” – le conseguenze sulla salute e sul territorio, il fatto che il periodo di decadimento della radioattività del plutonio è di 240 mila anni (andando altrettanto indietro nel tempo, c’era sì e no l’uomo di Neanderthal).
Foroni ha poi ricordato anche il problema dello smaltimento dei sommergibili nucleari della ex flotta sovietica, con una pericolosità pari a 12 mila volte la bomba di Hiroshima, nonché i depositi esistenti nel mondo di armi batteriologiche e chimiche. Una realtà che ci sovrasta.
Mario Busti, dell’università della Pace, ha parlato della campagna UN’ALTRA DIFESA E’ POSSIBILE. Occorre Uscire dal pensiero unico della difesa armata e promuovere la difesa civile non armata e non violenta. La campagna prevede una proposta di legge popolare, per dare compimento agli articoli 11 e 52 della Costituzione e per introdurre l’opzione fiscale per scegliere quale difesa finanziare, quella militare o quella civile. La domanda è: da cosa siamo minacciati?, invitando a porre l’attenzione ai disastri ambientali, alla difesa del territorio, alle calamità naturali. O anche, possiamo aggiungere, la sciagurata gestione degli armamenti e dello smaltimento delle scorie nucleari, che potrebbe interessarci non solo “per sentito dire” ma anche qui, direttamente a casa nostra o nei dintorni.
Tutti temi di enorme importanza, che nemmeno esauriscono le problematiche da affrontare – si è accennato ad esempio agli F35, all’accordo transatlantico Ttip e altro – e che non si risolvono certo con una conferenza, ma richiedono invece un grande lavoro di approfondimento, consapevolezza e di partecipazione attiva e condivisa. “Se individuano davvero un sito per la pattumiera nucleare da queste parti, ci sarà da lottare!”, sottolineavano i relatori.

Un’altra puntata di Report sull’argomento, il 2/11/2008

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“L’Arcatana. Viaggio nelle Marche under 35”, di Valerio Cuccaroni

Titolo: L’Arcatana. Viaggio nelle Marche under 35
Autore: Valerio Cuccaroni
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

“L’Arcatana è un’invenzione linguistica che troviamo nel romanzo ‘Corporale’ (Einaudi) del grande scrittore urbinate Paolo Volponi. In uno dei passi centrali del romanzo, il protagonista, alla ricerca di un rifugio antiatomico tra le Cesane, ha una sorta di rivelazione della natura del luogo da lui cercato: ‘ Vuol dire allora che il mio non si chiamerà più rifugio, in qualsiasi altro modo: buco, barca, arca, tana, tramite lo smeraldo, questa tua pietra mezzo-animale, che mi hai regalato (…) Arcatana: arca, tana, tana arcata…na…turale che serve a coprire con opportuni scavi e accorgimenti e attrezzature uomo-animale-smeraldo disposto (…) a riemergere diverso’. “
Scrive così Valerio Cuccaroni nell’introduzione al suo lavoro, con questa citazione di Volponi, per trasmetterci il senso di Arcatana, una ricerca che è anche un “viaggio nelle Marche under 35”. Il lavoro, spiega l’autore, è nato nel 2011 ed è stato pubblicato inizialmente a puntate su il Resto del Carlino, per poi essere raccolto in questo volume, sistemato e integrato con altri interventi: “l’impressione da cui sono partito è che esista un movimento artistico nelle Marche e che sia utile mapparlo e raccontarlo. (…) La difficoltà maggiore di questa galassia è uscire dalle orbite consuete, in cui si son mosse le generazioni precedenti, per trovarne di nuove, condividerle e ampliarle. A uno storico isolamento, in effetti, imposto agli abitanti delle Marche, nei secoli scorsi, dalla conformazione del territorio, si aggiunge, una vocazione tradizionalmente artigianale e rurale del marchigiano medio, che non ha mai collocato la cultura, se non quella performativa (essenzialmente musicale), tra le sue priorità.”
Il lavoro è presentato in cinque sezioni tematiche: Letteratura, Arti visive, Arti sceniche, Cinema. Musica) e una sezione finale – Gli spazi – dedicata ai “luoghi” della cultura. Ciascuna sezione si articola a sua volta con uno sguardo generale, a cui seguono approfondimenti o interviste ad alcuni autori, prestando sempre attenzione alle connessioni e alla condivisione delle esperienze, all’informazione e al dettaglio delle tante iniziative che s’intrecciano. Una galassia in movimento, contemporanea a noi e al tempo stesso, forse, già da mappare di nuovo, nel suo stesso evolversi o negli aspetti da approfondire ulteriormente. Diversi possono essere i temi, che già appaiono tutti, o accennati o citati direttamente o anche sullo sfondo. Ad esempio, il rapporto tra la regione e l’altrove esterno, oppure il rapporto con “le politiche” e il loro ruolo, sempre complesso.
L’ultimo capitoletto s’intitola “Le chiavi della città ai nostri giovani creatori”: “In questo momento, in Italia, un giovane su tre, come tutti ormai tristemente sanno, non ha lavoro e, in alcuni casi, ha smesso addirittura di cercarlo (…) eppure è solo investendo sui giovani, specie sui più capaci e creativi, che si può avere un futuro. Il perché è scontato: i giovani sono il futuro e lo sono adesso. Lo sanno tutti, ma molti fanno ancora finta di niente. Non ci possono essere “generazioni perdute”: se si perde la nuova generazione si perde un giro.”

(dal blog Altrovïaggio)

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Fumetti antirazzisti: il progetto Comix4Equality

Mille e una lingua

helver_my-first-rommate_1Il nuovo anno è iniziato e io voglio parlarvi, nel primo post di questo 2015, di un progetto molto interessante in cui mi sono imbattuta per caso girovagando nel web.

Il progetto si fonda sulla necessità di promuovere lo sviluppo di una società europea basata sul rispetto dei diritti fondamentali, la lotta al razzismo, alla xenofobia e altre forme d’intolleranza. Questo bisogno è ancora più rilevante se si tiene conto del nuovo contesto dell’Europa allargata e del ruolo chiave dell’Europa come approdo preferenziale dei flussi migratori. Il miglior modo per ottenere questo obiettivo è promuovere la comprensione reciproca e il dialogo.

Il progetto ComiX4= Comics for Equality vuole sviluppare e accrescere il dibattito e la discussione per combattere il razzismo, la xenofobia e la discriminazione in Europa, in particolare in Italia, Bulgaria, Estonia, Romania e Lettonia. Il progetto vuole coinvolgere migranti e seconde generazioni di migranti – spesso soggetti…

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Il viaggiatore residente, di Alessandro Moscé

foto-mosce1Titolo: Il viaggiatore residente
Autore: Alessandro Moscé
Casa editrice: Cattedrale

Che cos’è la residenzialità? “Risiedere in un luogo e andare in profondità, vuol dire concepire l’universale attraverso la concretezza”, dice ad un certo punto l’autore, citando Franco Scataglini.  E il viaggio, allora, in che consiste? “Intervistare la gente ed afferrare il passato, scrivere le storie”, scrive ancora l’autore, nel titolo di un paragrafo.
Come in un viaggio – un altroviaggio – incontra tante persone, che l’accompagnano per alcuni tratti. Una di queste è Mino, una specie di Virgilio custode dei boschi, o dei greti e delle penombre del Giano, il fiume di Fabriano. “Non hai età, Mino. Non sei mai diventato adulto” gli dice durante una delle immersioni in questi luoghi e nelle storie. E l’amico gli risponde: “Come questi scorci. Non ci accorgiamo che ci sono. Li vediamo ma non li notiamo. Ecco l’uomo senza età, c’è ma è come se non ci fosse.” E le storie in questi luoghi sono tante, si rincorrono con la loro aurea di fiaba o di leggenda, ed è proprio perché sono storie vere che sembrano impalpabili. La sommossa di Ruce del 1854, con la sua protagonista ricordata col nome di Lumachella, o La gallina dalle uova d’oro, del 1904 a Fabriano, e così via.

Il libro è ‘un breviario dell’Appennino’. Mi pare che lo stesso autore usi ad un certo punto questa espressione ma devo essere onesto, quasi mi confondo, non sono sicuro ora se a dirlo sia direttamente lui o qualche altro. Non è esattamente un racconto. E’ una raccolta di racconti, o forse è più esatto dire di frammenti che s’inseguono, annotazioni, di storie e di pensieri, come un girovagare tra i luoghi e tra le parole. “Il Viaggiatore residente di Alessandro Moscé è un’opera che difficilmente si lascia inquadrare all’interno di una definizione restrittivia di genere”, scrive Giulia Brecciaroli in una recensione sulla rivista online ARGO.

“Non è la narrazione di un viaggio ma un viaggio dentro la narrazione” leggo dai miei appunti presi già durante la lettura delle prime pagine, subito immerso nel girovagare dello scrittore poeta dentro luoghi intimi, domestici, naturali. E anche luoghi dell’anima, del sentire, dello sguardo. E gli incontri con le scritture, tante, che a questi luoghi si compenetrano. E’ un girovagare inquieto ma anche leggero, come un chiedersi. “Il Dio del dubbio” lo chiama, ma è un dubbio che se angoscia lo fa con delicatezza, o con la consapevolezza di dover sorreggere il racconto, mantenere un itinerario e non confonderlo. L’autore nel suo viaggio/ricerca intervista poeti e scrittori, parla con loro, medita sui loro versi, li annota, ce li legge, compone con i versi nuove domande, prolungamenti degli sguardi, discute con loro o immagina, anche, di discutere con loro. Insieme a loro descrive luoghi che si disvelano come prolungamenti di noi stessi, o dei nostri lati intimi. Il poeta Umberto Piersanti: “…la distinzione da fare è tra il poeta del pesaggio e il poeta della natura. Io devo metterci il naso nella terra, devo sentire il contatto. D’estate ci dormo nei boschi. Prendo il sacco a pelo e ci dormo nelle Cesane…”. Oppure, Alberto Bevilacqua: “Ma c’è ancora posto – gli chiede l’autore – per lo scrittore e per il regista nella società di oggi? E per il poeta?” e Bevilacqua risponde: “L’uomo non può fare a meno di raccontare”.

E poi le donne, inquiete compagne di un tratto del viaggio. Sembrano tutte farfalle notturne o del chiaroscuro, risvolti larghi dei sensi e delle sensazioni, voci di parole che non si posano, anche l’eros è nel tempo. “La realtà ha fantasia. Hai una donna?” gli chiede Bevilacqua, che poi aggiunge: “ Parlane. Chi è? Fanne un elemento di poetica. Un procedimento narrativo che parta dalla realtà, una declinazione del quotidiano, capisci? Ha un corpo questa donna, ha una tensione. E’ felice? E’ triste? Come vi siete conosciuti? Dove la vedi? Ci passeggi mano nella mano?”

E il dialogo/viaggio prosegue, insegue, annota: “Il quotidiano è solcato di relazioni – dice ancora Bevilacqua – metti in scena le tue giornate, una ad una, salda la tua identità, il tuo essere, i tuoi luohi, il tuo universo, piccolo e grande….”
Tanti incontri con tanti poeti e scrittori, è popolato lo spazio del viaggio residente: “Nulla sappiamo se non il raccontare” dice Giorgio Saviane. E poi Davide Rondoni, Alberto Bertoni, Isabella Leardini, Ennio Cavalli e altri ancora, odierni e passati, ma non sono incontri d’accademia, sono tutti immersi nei luoghi di questo altro cammino, lungo le intersezioni della vita e del tempo, sono reali.

Il capitolo centrale del libro è anche il più ampio, è dedicato al tempo, le memorie, alla gioventù, è un viaggio nel viaggio, il dialogo diventa intervista, approfondimento, ricerca di uno smarrimento perduto: “Mi dia una definizione del tempo se le va” chiede a Eleonora, che vive reclusa nella contenzione di una casa di riposo, che l’autore va a trovare su segnalazione dell’amico Mino: “Il tempo è come i tarocchi” – risponde lei -, “leggevo i tarocchi, m’ingegnavo, i miei clienti venivano a fare l’amore e a sapere il loro destino. Se ne andavano stralunati, ero la più richiesta, modestamente. Bella e intrigante. Il desiderio non finiva mai con me. Piacere e futuro, ecco cosa trovavano. I tarocchi erano una magia, come il mio corpo di latte…”
“Mi racconti una storia” la incalza l’autore, e a lei piace quello scambio serrato di parole che le fa rivivere il suo tempo: “Con voi marchigiani si possono scoprire i letti senza vergogna. Non avete superbia e odiate l’ipocrisia. Un vizio dal quale anch’io sono immune.”

Le storie nel tempo. Essere e tempo, di Kiergaard, compare citato nelle riflessioni filosofiche di un poeta, quale l’autore è. “Il tempo è borioso, presuntuoso. Non ci lascia neanche il permesso di fermarlo” conclude la donna dei tarocchi.
Un breviario dell’Appennino, dicevo. Oltre ad ‘incursioni’ verso Urbino, o Senigallia ed Ancona, c’è la terra di Fabriano e Sassoferrato, tanti piccoli anfratti, borghi, Canterino, Catobagli, Rotondo e altri, il greto del Giano, le ombre e i chiaroscuri, e anche la città, certo, secondo prospettive che danno un senso anche alle periferie. C’è sempre qualche persona presente, come una storia. Non c’è mai folla, il dialogo richiede un contatto diretto, stretto, intimo, che riesca a toccarsi, entrare dentro. E dentro i dialoghi i pensieri filosofici, che vi entrano come poesie, o altrettanti frammenti di vita: Rimbaud, Kiergaard, Kant, Sartre, Newton, Fromm. Anche Leopardi e il dialogo di un fisico e un metafisico.

È un caleidoscopio. Mi sembra che usi quest’immagine una delle tante persone che l’autore intervista, quando chiede “Che cosa è il tempo?” La vita come un flusso continuo, una lettura che a tratti mi ha spiazzato, o mi ha distratto stuzzicandomi verso altri cammini, che l’autore accenna appena e poi ti lascia. Io stesso ne sto parlando per frammenti, come per un vero breviario. “Il Dio del dubbio” è una delle citazioni più frequenti dell’autore. Tra metafisica e dettaglio. Uno dei personaggi incontrati è un frate, o un prete. Introdotto sempre dall’amico Mino. E’ divertente la lunga discussione notturna, tra castagne e rosso lacrima: “Su Dio e i filosofi Don Martino ha raccolto una serie di massime che porta sempre con sé, un quaderno pieno zeppo di appunti, note, frasi, indicazioni”. Ad un tratto mi sembra che sia lui, Martino, il vero viaggiatore residente in cui specchiarsi, con il suo fagotto di massime annodato sulle spalle, come un viandante. “Il tempo siamo noi” risponde Martino.
Il libro termina quando “lo scrittore di vento se ne va”: all’improvviso tutto sembra rovesciarsi, è l’autore stesso ad essere intervistato, ma da chi? “Con chi ho parlato? Chi mi ha intervistato?” si chiede.

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MALA DIES, di Angelo Lallo

copertinaMala-Dies-1Titolo: Mala Dies. L’inferno degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle istituzioni totali in Italia
Autore: Angelo Lallo
Casa editriceInfinito edizioni

“Liberate le false farfalle, perché da troppo tempo obbligate a difendersi dai selvaggi predatori delle passioni, costrette a mimetizzarsi sviluppando false teste e a camuffarsi per sopravvivere in un mondo ostile infestato da predatori senza scrupoli. Liberate le false farfalle, che si trasformino in farfalle immortali e così potranno riprendere la diginità rubata. Liberate le false farfalle, perché sono vulnerabili e hanno poca possibilità di difesa nonostante la bellezza, l’evidente diversità, la leggerezza.”
Le false farfalle rappresentano simbolicamente ogni cittadino e i predatori impersonano il dispotismo. Questo monologo, o comizio rivolto al mondo, corre lungo tutto il racconto, riemerge di continuo come da cavità carsiche tra le vicende vissute dalla protagonista. Perché si tratta di racconto di vita vissuta realmente. Ricostruita, recuperata, riordinata per sottolinearne il significato. Espressa dall’angolo estremo dei confini del reale, là dove lo sguardo soggettivo più intimo e solitario riesce a bucare il velo della propria coscienza per immergersi nella storia sociale di una moltitudine totale di eventi, confondendosi con loro, assorbendone il peso, e facendo leva proprio su questo peso per inseguire ancora se stessi e non perdersi.

La Ragione e la ‘Sragione’, una incommensurabile all’altra, una simile all’altra. Mi ha un po’ suggestionato questa lettura. Sarà che la protagonista, Bianca, è della mia stessa generazione e ha attraversato addirittura luoghi e momenti in cui me la sono ritrovata a fianco? E che ancora colorano qua e là tratti non trascurabili del mio sentire? Mi sono riaffiorati alla mente tanti libri letti allora, da L’Io diviso di Ronald Laing a L’istituzione negata di Franco Basaglia, da La morte della famiglia di David Cooper a La storia della follia nell’età classica di Michel Focault, quest’ultimo più volte citato in questo libro di Angelo Lallo. O le tante discussioni che si facevano su questi temi, quando li affrontavamo come impegno politico e sociale, qualche volta anche con il registratore in mano lungo i viali interni dell’ospedale psichiatrico di Ancona, per raccogliere voci da rimandare in onda in una delle radio libere di allora. O il Marco Cavallo, che uscì dalle mura dell’ospedale di Trieste per dilagare in città nelle stesse giornate del convegno di Bologna contro la repressione, nel settembre del 1977, che Bianca attraversa. Eravamo seduti fianco a fianco sulle gradinate del palasport e non me ne ero accorto! In quanti ci siamo persi come false farfalle, e quante farfalle vere abbiamo perso, e dimenticato, negli anni seguenti?

Il racconto attraversa un’intera epoca. Da Valle Giulia, al carcere di Stammheim, a tutti gli anni Settanta fino al rapimento Moro, l’uccisione di Guido Rossa e la bomba del 2 agosto alla stazione di Bologna. La protagonista fugge dalla comunità in cui è stata relegata per aggirarsi tra il dolore di quelle macerie, e di quei cadaveri, e poi anche di perdersi, come un caso fortuito o un’aporia del tempo capace di interrompere il cammino di chiunque: “Bianca tirò fuori la sua indignazione con coraggio, ma ebbe il torto di avvicinarsi pericolosamente al ministro, iniziando un rischioso scontro fisico e innescando una rissa clamorosa tra la scorta e molti cittadini…” Dopo, tutto è già accaduto e nulla è più come prima. Inizia così, con il Mala dies, il percorso definitivo e senza uscita nei gironi dell’istituzione totale, che lei attaversa con lucidità, fino ai giorni presenti, anche se la lucidità in questo contesto appare ancora più spigolosa: “L’internata Bianca era rimasta sempre lucida, nonostante l’inferno che aveva passato. Chi la conosceva poteva garantire che la paura della morte non le apparteneva, ma Bianca era più che convinta che fuori dal manicomio criminale sarebbe stata felice, finalmente nessuno le avrebbe fatto più del male…”

Mi sembra un libro importante, che innanzitutto ha il merito di restituire alla vita una storia che poteva essere dimenticata, e invece ora è possibile leggere; una storia che in qualche modo è anche un insieme di storie e grazie a questo rende possibile riaprire questo tema secondo un’angolazione che ci aiuta a estrarlo dalla dimensione “tecnica, medica o legale” – tipica del controllo – nella quale ci siamo cacciati, per restituirlo ad un contesto sociale, l’unico suscettibile di cambiamento. Anche se è tutto così complesso che a prima vista non si sa bene da che parte iniziare. Al punto estremo dell’istituzione totale troviamo gli opg, ospedali psichiatrici giudiziari.
Interessante anche il lungo racconto nel racconto, scritto da Bianca che così fa rivivere, attraverso un suo alter ego, le vicende dell’ospedale o luogo di detenzione di Bicêtre, durante la rivoluzione francese: quasi per ridefinire una parabola temporale completa delle istituzioni totali, nonché, ahimè, dei lati ciechi delle rivoluzioni.

(ascolta Flowers of the night, dall’album del 1973 “Baron von Tollbooth & the Chrome Nun” dei Jefferson Airplaine, il vinile che Bianca ha con sé quando entra nella sua prima comunità terapeutica.
(vedi dal blog “Occhio critico” di Luca Leone questo ricordo di Amgelo Lallo)

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Julio Monteiro Martins

1“Ieri 24 dicembre lo scrittore Julio Monteiro Martins ci ha lasciato, all’età di 59 anni. La notizia è arrivata dall’ospedale di Pisa (era stato colpito da uno di quei mali che vanno di fretta e ti lasciano sì e no il tempo di accorgertene) e ha iniziato a diffondersi nel pomeriggio, io l’ho letta su un blog dopo la mezzanotte. Avevo conosciuto Julio nel gennaio del 2009 quando venne a Jesi per gli incontri della terza edizione di Alfabetica (dedicati alla nuova letteratura in lingua italiana, non ci piaceva l’etichetta di ‘scrittura migrante’). Al mattino l’avevo accompagnato in una classe dell’Istituto d’Arte, poi per un’intervista a Radio Tlt, al centro di aggregazione giovanile, e alla sera alla sala maggiore della Biblioteca Planettiana. In biblioteca ci aveva raggiunto anche la scrittrice Cristina Ali Farah. La sala era piena e attenta. E poi, promotori di Alfabetica e scrittori tutti a cena insieme, a chiacchierare fino a tarda ora. La sera prima l’avevamo trascorsa da soli, a chiacchierare io e lui a zonzo per Jesi fino a tarda notte, con le strade svuotate, deserte, a scambiarci storie. Lui ne aveva molte da condividere, con la sua vita così ricca. “Sono come una candela che brucia intensamente, da tutte e due le parti” amava dire ma questa volta la candela è stata spenta in anticipo da un vento improvviso. Al mattino aveva aperto così l’incontro a scuola, leggendo il racconto “Antenne” (pubblicato nella raccolta “L’amore scritto”, Besa editore). Un operaio sale su un tetto per un lavoro e all’improvviso lo colpisce un vento fortissimo. “È il vento della vita”, diceva Julio ai ragazzi: “Normalmente soffia un po’ alla volta e riesci a sopportarlo ma altre volte arriva tutto insieme e non puoi resistergli”. Il protagonista del racconto ha appena il tempo di fare qualche telefonata per risolvere le ultime cose e non lasciare nulla in sospeso, ma viene interrotto a metà dell’ultima frase: “Ora non ce la faccio più. Sii forte anche tu amore mio! Ti amo tanto! Ma che ca-“. L’uscita on line del prossimo numero di Sagarana Julio l’aveva prevista per il 15 gennaio.
Ricordo con piacere quella lunga camminata in notturna per le strade di Jesi, una di quelle in cui il tempo si dilata e va oltre, riesce a spaziare: i suoi racconti, le vicende brasiliane e in altri paesi, la scrittura, l’annuale appuntamento letterario di scrittrici e scrittori migranti a Lucca, la rivista on line da lui diretta, Sagarana, gli amici in comune che anch’io iniziavo ad avere grazie al nostro piccolo festival di Alfabetica a Jesi, e tante altre cose. Una persona di simpatia immediata, grande affabulatore e anche animatore e ascoltatore. Saranno molti gli amici che ne sentiranno la mancanza, da quelli che gli erano più vicini a tutti quelli che lo frequentavano meno ma avevano avuto comunque occasione di incontrarlo oppure lo seguivano leggendo i suoi racconti o la sua rivista Sagarana. Qualche volta ho avuto anch’io l’onore di vedere pubblicato qualche racconto che con un po’ di timidezza gli avevo spedito, ma Julio sapeva essere incoraggiante e trovava sempre la giusta collocazione. “Siamo tutti veri scrittori, ognuno a modo suo”, risponde Julio in un’intervista di Lorenzo Spurio di qualche tempo fa. Discutevano per l’occasione sulla differenza tra “scrittori migranti ” e “migranti scrittori” ma Julio seguiva un discorso non circoscritto all’argomento ma valido a tutto campo: “Semmai, se devo proprio fare una distinzione tra “veri scrittori” e “falsi scrittori” direi che “falsi scrittori” sono quelli che scrivono con fini strettamente commerciali, gli autori dei “best seller” o candidati a tale, che scrivono una sorta di spazzatura modellata di proposito per corrispondere a un conformismo prefabbricato dal marketing delle case editrici e dello squallido collaborazionismo di una certa stampa.” Ci mancherà.
http://www.sagarana.net/

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