“Più di quel che avanza”

Piudiquel“Più di quel che avanza” di Francesca Romana Capone. Mi ha incuriosito molto la lettura di questo romanzo che mi viene da definire “pittorico” o “materico”. L’io narrante è una restauratrice che a sua volta, all’improvviso, si ritrova nella condizione di un quadro da restaurare, e il restauro è presente non solo o non tanto come metafora della sua condizione ma vero filo conduttore, tessuto e trama sottostante l’intera narrazione, e anche oltre ciò che appare direttamente dalla narrazione.

E non è nemmeno un quadro qualunque quello da restaurare, nel senso di una tecnica ripetitiva e da applicare meccanicamente sempre allo stesso modo, bensì è la somma di tanti quadri ciascuno con una sua storia e un suo sistema semantico, di relazioni e nuove prospettive con cui il restauratore entra in relazione.
E tra i tanti quadri che la protagonista richiama alla memoria, mentre rovista tra i propri pensieri, in particolare colpisce la mia attenzione un”gobbo” di Burri, cioè qualcosa di unico che va oltre il quadro: “Ho rotto un sistema di spinte e controspinte che non potrà più ricostituirsi, perché la sua forza era tutta nella fragilità di quel bilanciamento”.

Non si può restaurare un “gobbo”, la protagonista ci prova soltanto durante un sogno, cioè un incubo, mentre è immobilizzata nel suo letto, nel suo lento risveglio da un coma farmacologico, dopo un terribile incidente in cui la vita, quella precedente, l’ha investita tutta in una volta, e ora lei sta rinascendo verso qualcosa di nuovo che non sa cosa potrà essere, e per di più questa rinascita, che lei anticipa nei suoi pensieri, avviene conoscendo già tutto della vita, attraverso ciò che ha vissuto nella vita precedente. O meglio, credendo di conoscerlo davvero quel tutto, e invece solo ora riesce a sondarlo da altri angoli del pensiero.

La protagonista è immobile nel suo letto, non controlla nulla del suo corpo, riesce soltanto a girare un po’ gli occhi attorno e guardare il mondo esclusivamente affacciandosi attraverso i propri occhi. Soltanto gli occhi e nulla di più, tutto dagli occhi, mentre dentro lei è già ridiventata cosciente, lucida, e i suoi pensieri non più supportati nemmeno dalla parola nel loro prendere forma, iniziano a muoversi in spazi, pieghe, angoli, attraverso fessure fino ad allora impensabili. Come le fessure che si aprono sulle tele da restaurare. L’incidente non si limita a cambiare il suo stato fisico, modifica invece il suo rapportarsi con il mondo, con le persone che le sono attorno, con i gesti della quotidianità, gli umori, i dettagli: “sto imparando (…) che si può riempire una giornata di pensieri, idee, immagini minuscole come quei dettagli delle tele fiamminghe: la perla luccicante, la pantofola di pelliccia, la penna della pernice.” È un altro mondo quello che si apre, come dietro a un velo che viene sollevato.

Ci voleva, dunque, un’incidente – soluzione un po’ drastica, a cui si ricorre nella finzione di questo romanzo, ma poi nemmeno così distante dalla realtà che abbiamo attorno, se guardiamo bene – per fermarla e obbligarla a rivedersi, ma un incidente dalla ‘giusta misura’, nè un po di più nè un po di meno, non si scherza con incidenti simili a questo.

La misura, l’autrice ne parla in più occasioni e tenta di definirla come “il punto infinitesimale in cui l’artista si separa definitivamente dalla sua opera (…) una sola pennellata in più o in meno e l’equilibrio sarebbe per sempre compromesso.”  “Questo mistero non sono mai riuscita a svelarlo”, confessa a se stessa la protagonista ripensando dal suo letto a tutte le opere studiate e restaurate, entrando ogni volta come in simbiosi con l’artista, e cogliendone ora dal suo letto l’analogia con la vita reale che le ruota attorno: “Imparare a leggere le situazioni senza per forza doverle chiamare per nome. Con uno sguardo d’insieme, intuitivo come quello del pittore che coglie l’unità in un istante.”

Capisco poco di pittura e tantomeno di restauri, so soltanto che avevo sempre percepito, superficialmente, il restauro come qualcosa che ha a che fare con il vecchio, da puntellare per aiutarlo a superare un po’ più indenne lo scorrere del tempo: leggendo il romanzo ho percepito invece che il lavoro di restauro non riguarda il vecchio ma il nuovo che riporta alla luce, a nuova vita. La protagonista ricorda nei suoi pensieri quei momenti magici del suo lavoro nei quali, da sotto le croste ripulite via, “leggere pennellate sono tornate a mostrarsi sulla pelle sottile”. E così è anche lei – immobile nel suo letto come un quadro da restaurare nel suo cavalletto – con i primi aliti di aria che riesce ad avvertire sulla sua pelle, o con i tocchi e carezze di qualcuno che riesce ad essere più affettuoso o immediato di altri. O forse, perché in ogni caso “nell’opera d’arte, anche quando è logorata dal tempo, resta sempre qualcosa in più di quello che avanza materialmente. Resta il suo essere arte autentica, la sua unità in quanto opera e non somma di singoli elementi.”

E non conta solo l’abilità delicata del restauro, ma anche la profondità della tecnica e delle conoscenze delle tele e dei trattamenti e poi della consistenza plastica dei colori e degli oli e delle delicatezze che l’artista mette in campo per rendere concrete nella realtà del quadro le stesse immagini che ha già intravisto dentro di sé, perché un’ opera d’arte non è solo nell’immagine e nella leggerezza delle emozioni che ci dona ma anche in tutto il supporto che la sorregge e la rende solida. Invece, sono “le croste” realizzate dall’artista maldestro, che non ha fissato bene la tela o preparato bene i colori, quelle che non reggono al tempo e poi si staccano via per intero con facilità se si tenta di restaurarle, e così si perdono senza possibilità di riportarle a nuova vita. E così il restauratore nel suo lavoro deve saper ritornare all’inizio, ritrovare la trama, la tela sottostante, le singole pennellate, comprendere il presupposto dell’opera: “La sottile pellicola variopinta della mia vita si è staccata. Quello che resta è tela grezza e una traccia di abbozzo.”

C’è una profonda e totale accettazione da parte della protagonista, non può essere diversamente per quanto questo possa andare oltre le nostre comuni percezioni, quando accetta la nuova situazione di sospensione della vita, dopo la frattura con la vita di prima. O forse, in un capovolgimento di prospettive – interessante anche una riflessione sull’arte delle icone, dove non siamo noi a guardare il quadro ma il quadro a guardare noi dalla sua prospettiva – era nella vita di prima che di fatto si accettava una finzione, “la crosta” che stava sopra, fingendo tenerezze che non c’erano e dimostravano il loro contrario, accettando una “felicita di plastica”.

Tra le tante metafore e analogie incontrate durante la lettura, ho trovato assai divertente quella dello sguardo ginecologico, che scruta dentro, nei meandri di un’identità che gioca come una seduzione il suo scoprirsi e ritrarsi, o denudandosi sarebbe davvero il caso di dire: “… mi guarda negli occhi, è come se mi stesse scrutando tra le gambe. E la sua vista esperta valuta in me la donna insieme passionale e distaccata. Carattere ideale per svelare una tela antica senza rischiare più del dovuto. Da un lato la voglia di scoprire, dall’altro la freddezza di compiere un passo alla volta, senza fretta.”

Non so se qualche scrittore uomo abbia mai inventato o descritto una metafora simile, ma lo penso improbabile. E il tutto, anche per introdurne un’altra di metafora, quella del busto di una donna da riportare alla luce, nascosto secoli prima e dimenticato sotto una mediocre crosta di età più tarda, come un’identità nascosta che ora esercita di nuovo la sua capacità di attrazione, o di seduzione, di vita che era lì in attesa.

E tante altre metafore, attraverso i tanti quadri, e soprattutto atttraverso l’universo di relazioni che si sviluppano attorno al suo letto, di cui non parlo in quste mie note, e che lungo il racconto, collocate in questa distorsione delle prospettive, cambiano corso, si riposizionano, ripensano, ridefiniscono. O semplicemente si mostrano? Sono numerosi gli stimoli che ho incontrato durante questa lettura, qui ne ho accennati solo alcuni, in modo disordinato. Il libro, anche se di normale lunghezza, me ne ha offerti davvero molti, è una scrittura densa e capace di fermarsi sui dettagli, seppure scorrevole, vivace e leggera, densa di vita dunque, come pennellate impressionistiche.

Comunque, posso dire d’averla incontrata anche io la protagonista, in un mattino all’alba, in quel particolare momento in cui la città ancora è fragile nel suo equilibrio di spinte e controspinte, come un “gobbo” di Burri, e non ha ancora bisogno di restauri perché sembra addirittura intatta, ancora: l’ho incontrata che correva, ero io quello con il cane che lei ha visto, anche il mio cane preferisce quel momento del mattino; l’ho vista che correva, ci siamo scambiati appena un cenno, lei è una che si guarda attorno anche se passa correndo, ho capito dal suo sguardo che era di una buona generazione più giovane di me, a forza di correre ci si confonde nel tempo, siamo tutti stratificati qui nelle nostre vite, come le diverse mani di vernice su una tela che è sempre magico o alchemico restaurare e riportare a nuova vita. Appena un cenno, poi non so dove sia andata o ritornata: non lo so bene di me dove sono ritornato, figuriamoci se ci riesco con gli altri; o forse è tornata proprio lì su quel letto, a spaziare con il pensiero in una dimensione che fino ad allora doveva esserle parsa insondabile. O forse, invece, rincorriamo tutti da tempo “una via di fuga sottile che ci porti tutti altrove, fuori dalla tela, dietro al quadro.”

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