Tutt’uno con la sua terra

Racconto liberamente ispirato alla storia di William Scalabroni.

Diciassette anni, un’età meravigliosa, la vorrebbero tutti, e il ragazzo lo sa, la nasconde sotto lo sguardo, dove nessuno mai, se lui farà attenzione, la potrà togliere.

Oggi è la prima domenica dopo l’otto settembre. Giorni strani. Il ragazzo sa anche questo, ne avverte l’attesa, vorrebbe camminare più veloce per sfuggirle, e invece avanza guardingo, è incerto se affrontare lo spazio attorno, indugia, addossato alle pietre chiare di quel muro antico, che avverte alle sue spalle come un presagio. La città è sospesa, le strade vuote, nell’aria solo il rumore dei suoi passi. Nessun respiro, nemmeno il suo. Non c’è nessuno, nemmeno i soldati, chiusi nelle caserme, nessuno qui è scappato. Forse non sapevano dove andare, forse non sapevano che fare, o forse l’incertezza li ha bloccati nell’attesa di qualcosa che non sanno nemmeno i loro ufficiali. Nessuno ha detto nulla ma sono soldati e l’attesa la conoscono.

I primi motociclisti della Wehrmacht arrivano a Porta Romana alle dieci. Il ragazzo li guarda e si schiaccia ancora di più contro il muro, più sottile ancora di quel fuscello che è il suo giovane corpo di adolescente ignaro del vento della Storia. I soldati della Wehrmacht non lo vedono. Anche la Storia lo ignora, ha altro di cui occuparsi, adesso, quella Storia che avanza dal fondo della strada da Rieti sotto forma di una colonna corazzata.

Trema tutto, ma non è un terremoto che sale dal profondo, trema soltanto la superficie sotto l’urto dei mezzi corazzati: trema il paesaggio e tremano gli alberi ai lati della strada, trema la polvere sospesa nell’aria e trema l’aria nel respiro dei corpi, trema la Porta indifesa della città, trema il muro dove è addossato il ragazzo. Soltanto il ragazzo non trema, lui è saldato a terra, o forse è atterrito, non lo sa nemmeno lui, nessuno gli ha detto nulla.

Quando la colonna si arresta i soldati della Wehrmacht lasciano i motori accesi, non vogliono dar tregua all’aria che deve continuare a tremare. Dai carri scendono i capi con i loro occhi di Medusa, guai a fissarli, si guardano tra loro con noncuranza, si girano attorno con il gesto di fiutare nell’aria il da farsi, ma è evidente che conoscono già il destino che devono compiere, sono venuti apposta per eseguirlo. Quando ripartono la colonna si dirama, penetra la città per vie diverse, e trema la città, trema ogni giuntura delle case, soltanto l’aria ora cerca di resistere, fa di tutto per restare ferma: che nessun vento si azzardi a soffiare, non è questa la Storia che stavano aspettando.

Il ragazzo ha diciassette anni, nessuno lo vede, sceglie di seguire la colonna che si dirige alla caserma Vecchi, tutto è veloce, ode gli spari mentre ancora cammina, quando arriva fa appena in tempo a vedere incredulo i soldati della Wehrmacht che noncuranti sparano gli ultimi colpi di morte. Sul muro della caserma si è aperto uno squarcio e il ragazzo vi sbircia dentro. I soldati della Wehrmacht stanno sequestrando le armi ai nostri soldati che si sono arresi stupiti, è una cattura quella che subiscono, i loro ex alleati li fanno prigionieri, per primi tocca agli ufficiali.

I soldati della Wehrmacht sbrigano tutto in fretta, come una formalità noiosa, poi si dirigono a un’altra caserma. Davanti al portone chiuso intimano a quelli dentro di arrendersi, li minacciano e ridono, quasi fosse un atto dovuto. Poi accade l’imprevisto, i soldati della Wehrmacht si guardano tra loro con stupore quando da dentro gli scaricano addosso una raffica di mitraglia.

I colpi svegliano nel ragazzo un sentimento che non sapeva di avere, e che fatica a decifrare. La battaglia è subito violenta, un vortice, gli occhi del ragazzo faticano a rallentare ciò che accade, non riescono a prestare la giusta attenzione a ogni particolare. Sono tanti i soldati, tutti ragazzi, che cadono come fuscelli, da ambo le parti: fanno sul serio, non risparmiano nulla. Anche il capo della Wehrmacht cade afflosciato a terra, non lo aveva previsto questo insolito scarto del destino, proprio oggi, in questo angolo di mondo che sembrava pittoresco, perfino l’aria ha ripreso a soffiare, con foga, è questo il suo momento e soffia, soffia come sa fare il fiato del vento.

Forse è già mezzogiorno quando una mano agguanta dietro il collo il ragazzo che sbircia la battaglia incollato alla parete. “Che fai qui? Vieni!”. E il ragazzo si ritrova seduto di traverso sulla canna di una bicicletta guidata da un ragazzo poco più grande di lui, che pedala veloce e lo stringe tra le braccia e il manubrio e pedala e si agita, ogni pedalata è un affondo che li spinge insieme in avanti. “Dove andiamo?” “Alle casermette”, e sono già sul ponte del Castellano, dove città e campagna si confondono e loro corrono ancora, verso San Filippo e Giacomo, verso la battaglia che già infuria anche là, ma devono fermarsi. La strada è sbarrata, scendono dalla bicicletta e proseguono a piedi svelti e guardinghi tra i viottoli e i campi.

Il terreno qui è una metamorfosi che li nasconde e li guida, loro avanzano a tratti, si fermano, ripartono, il ponte sul Tronto è chiuso da una barricata, altre ne scorgono sul cavalcavia della ferrovia. Fanno un giro largo prima di arrivare al loro lato della battaglia, quello giusto. Il ragazzo si accorge che qui non indossano tutti la divisa, i nostri soldati.

Il ragazzo segue con lo sguardo il suo compagno di qualche anno più grande che imbraccia un fucile. Lo maneggia bene. Sembra anche lui una specie di soldato. Lo guarda ancora che parla con gli altri, e poi mentre si gira e gli fa il cenno di avvicinarsi. “Prendi” gli dice, e gli dà un foglio di carta su cui è scritto qualcosa ma il ragazzo non ha il tempo di leggere, già gli soffiano in testa un indirizzo e il soffio continua ad avvolgerlo mentre pedala, stavolta da solo, oppure corre a piedi stringendo il manubrio come fosse se stesso, tra i viottoli e le strade.

“Stai attento” gli hanno detto ma il ragazzo non sa che cosa voglia dire essere attenti in mezzo allo squarcio di quegli spari, se tirarsi indietro per evitarli, o tuffarcisi dentro per ignorarli. Consegna veloce a chi gli hanno detto quel foglio con il messaggio e non si ferma, vuole tornare subito indietro con la battaglia che ancora infuria ma la strada è già un’altra deve scovare altri viottoli, ritorna giusto in tempo per vedere quella baldanza in divisa straniera che si arrende, tratta la resa, si ritira e raccoglie per strada anche il resto dei reparti che la città ha respinto. Ascoli è libera, ha vinto la sua prima battaglia ma lo sanno anche i bambini che i soldati della Wehrmacht torneranno con i rinforzi, nessuno s’illude, è meglio aspettarli altrove e così soldati e partigiani si raccolgono insieme a colle San Marco.

Per tre settimane scrutano la città liberata dall’alto. Qualcuno è rimasto giù ad aspettare, dovrà saggiare per primo la consistenza dell’attacco. Da lassù, la prima scaramuccia la odono il sabato pomeriggio, a Porta Cartara, è un gruppo di ragazzi quello che si oppone ai soldati della Wehrmacht, ma è solo un assaggio. Quando i ragazzi ripiegano una camionetta con la mitragliarice li insegue per la campagna fino a che non cala il buio a proteggerli dalla caccia, ma è solo una pausa illusoria. L’invasione arriva di notte, le colonne dei camion circondano il colle, più che una battaglia sembra un rastrellamento.

Il ragazzo è lì anche lui e corre di nuovo su e giù per il monte a scambiare messaggi tra i difensori che qua e là resistono, sparano, si ritirano, iniziano a temere di avere scelto male il luogo, non ci sono vie di fuga. Cercano un varco verso Bosco Martese, dove i loro compagni hanno già combattuto la settimana prima, e sconfitto quelle truppe che ora incombono.

Il rastrellamento prosegue, il buio non riesce a fermarlo, i soldati della Wehrmacht risalgono il colle, stringono la maglia, fucilano sul posto quelli che prendono, bloccano anche il ragazzo che corre tra le prime luci incerte del giorno, come un leprotto che incespica tra i ciuffi dell’erba.

È un giorno nero, perfino la luce vorrebbe starne fuori. Non provano nemmeno a interrogarlo non vogliono perdere tempo, lo spingono malamente contro il muro di un convento, il presagio che si avvera e il convento se ne vergogna vorrebbe girarsi dall’altra parte ma è fatto di pietra e resta immobile. Il plotone si schiera, i soldati della Wehrmacht hanno i fucili già puntati per l’esecuzione e un sergente grida l’ordine.

È il tre ottobre, le nove e ventotto esatte, non un minuto di meno, che sarebbe tardi, paradosso di un tempo in cui tutto deve coincidere, in quel preciso istante. Il ragazzo non sa ancora nulla di tutto questo, e non sa nemmeno che ora sia, questo dettaglio lo imparerà dopo, un dopo che si prenderà tutto il suo tempo nel corso degli anni. “Fuoco” grida il sergente e la terra sotto le pietre immobili del convento si rivolge su se stessa. Il boato irrompe cupo dalle sue viscere come un tuono di pietre, e le ondulazioni si trasmettono ai corpi che vibrano da dentro, è da dentro che i corpi sono scossi. I soldati della Wehrmacht gettano i fucili e scappano, il panico s’impossessa di loro. Solo per qualche attimo ma è l’attimo che basta.

È il terremoto, intrappolato sotto i monti della Sibilla, che salva la vita al ragazzo, che ora corre via di nuovo prima ancora di sapere se verso la vita o verso la morte, non sa ancora la direzione giusta ma intanto corre a rotta di collo, è così che si corre quando il destino ti striscia addosso.

Anche altri ragazzi scappano via dalla rappresaglia, non tutti purtroppo, scappano dal colle che per un istante è rimasto silenzioso, appena il boato della terra si è fermato. Un silenzio innaturale, come se il tempo stesso fosse incerto prima di tornare a scorrere per il suo verso. In quella sospensione le maglie del rastrellamento si sono allentate e qualche ragazzo ci si è infilato dentro, ritrovandosi dall’altra parte, come un varco tra la vita e la morte, e già la battaglia riprende per chi è rimasto intrappolato dentro, durerà ancora un giorno, sarà già lunedì quando il colle cadrà, e insieme cadrà anche la città. Gli ultimi ragazzi, i soldati della Wehrmacht li cattureranno alle Rocce e alle Vene Rosse: dovranno strappargli i fucili dalle mani con la forza, prima di condurli prigionieri al Forte Malatesta.

Il ragazzo no. Lui è ancora lassù che continua a correre con i suoi messaggi, ora più che mai sulle ali di quel boato che ha sentito uscire dal fondo della sua terra, terribile come sempre ma per una volta, forse una soltanto, amica. Continuerà a sentirla dentro di sé, sotto lo sguardo dove ha nascosto l’età di quel giorno, tutt’uno con la sua terra, l’unica a non lasciarsi domare.

(3 ottobre 1943) -  Il racconto, liberamente ispirato al partigiano William Scalabroni, è stato finalista al premio letterario nazionale "Parole di terra" e inserito nell’antologia Racconti di terra 2018, edizioni Insedicesimo. Le foto qui utilizzate sono tratte dalla pagina FB dell'ISML di Ascoli Piceno.