Il sortilegio questo sconosciuto

Frammenti random di riflessione dopo la lettura di “La città dei vivi” di Nicola Lagioia.

1. Romanzo sull’esistenza del male?

Di quale “Male” stiamo parlando? Della malvagità presente o possibile nell’individuo, che scaturisce come dal nulla o da un lato nascosto già vicino o prossimo ai nostri occhi ma che per una qualche cecità non vedevamo? E dovremmo magari anche sentirci in colpa di questa cecità? O parliamo (anche) di un male sociale, diffuso nella città, e questi due “mali” si compenetrano tra loro, vivono uno dell’altro? Sembra che l’autore durante la sua scrittura provi di continuo a capire o decifrare qualcosa dell’indicibile emerso nell’omicidio, non chiudendosi sui personaggi ma tentando di seguirli, sia i carnefici che la vittima, nella trama di relazioni sociali in cui sono immersi, e dalla quale emerge di continuo una socialità grottesca, ma insieme anche costellata qua e là di piccoli frammenti quasi illeggibili di tenerezze nascoste, come derive che non sembrano vere, aporie capovolte di un paesaggio devastato, finzione finalizzata a qualcos’altro. La città “eterna” non vive secondo i tempi della cronaca, sembra piuttosto un’eterna cronaca che non ha mai termine o inizio. L’opposto dell’eterno ritorno, qui è l’immobilità che si autoconsuma. Un antico slogan comparso negli anni Settanta affermava che “Il personale è politico e il politico è personale”, ora in questa nuova cronaca avulsa dal “tempo” evaporano sia il personale che il politico. Resta come via di fuga un sesso compulsivo da basso impero e tanti fiumi di coca. Una battuta (forse) degli anni Sessanta diceva spavalda “Sesso, droga e rock and roll”, qui in questo romanzo è assente una colonna sonora. Unica eccezione “Ciao amore ciao” ma come se ogni volta la ripetizione ossessiva dell’ascolto condanni la sua interprete, Dalida, a suicidarsi ancora una volta. Il ritornello, prima ancora che la canzone, diventa la colonna sonora della tragedia, e come le antiche tragedie anche questa esibisce il suo coro, quello dei detenuti di Regina Coeli.

2. Romanzo di formazione?

Sì, la forma del racconto mi sembra decisamente quella del romanzo, ma di che tipo? Anche se, tramite l’indagine con documenti e interviste, è la ricostruzione di un fatto vero, e l’autore non concede nulla all’immaginazione, non cerca mai di immedesimarsi nemmeno in uno dei suoi personaggi per simularne lo stato d’animo o i pensieri, scegliendo piuttosto e quasi ossessivamente di restare rigidamente ancorato alle testimonianze, anche se scarne e contraddittorie ma così come le recupera dalla lettura degli atti o dai colloqui che ha con le tante persone coinvolte, e perfino dallo scambio epistolare con uno dei due carnefici, nonostante questo “metodo” comunque non credo che il lavoro si possa definire un “reportage” o un romanzo “giudiziario”, o al limite di cronaca nera. C’è stato un momento preciso durante la lettura in cui m’è venuto in mente il romanzo di formazione, quando l’autore apre a squarci di vita della propria adolescenza. Nella letteratura di un tempo il romanzo di formazione riguardava e si risolveva in quell’arco di vita che oggi definiamo adolescenza. Nell’epoca attuale sembra invece che l’adolescenza non finisca mai, come la città eterna, e quindi intervenga un’altra mano o tante altre piccole mani del mondo attorno a prendere i fili dei nostri nodi irrisolti. Oppure eravamo soltanto disinteressati o troppo occupati da altro e abbiamo lasciato fare, solo a posteriori ci sorprendiamo per come il caso ha agito, nel senso che potevamo essere noi ora lì al posto degli altri, e le scelte che ci hanno permesso di “formarci” e trovarci altrove in realtà le abbiamo caricate del valore di scelta soltanto dopo. La nostra formazione non sta nell’aver sciolto quei nodi ma il renderci conto che esistono.

3. Romanzo che cerca le domande giuste da porsi di fronte alla palese esistenza del male.

Sì, viviamo in tempi nei quali dobbiamo imparare di nuovo a porci le giuste domande senza farci intrappolare dalle risposte troppo facili. Ma le risposte certe, che ci chiudono lungo una strada, in questa nostra epoca la fanno da padrone, anche nel senso della quantità, perché ne riceviamo e ne creiamo tante ogni giorno, viviamo in una molteplicità di risposte anche opposte tra loro, spesso veloci come corto circuiti, mentre le domande sono poche, e che siano davvero quelle giuste non ce lo può garantire mai nessuno, dobbiamo assumerci noi la responsabilità di metterle alla prova. Colgo questo messaggio dalla lettura del libro e lo condivido.

4. La Possessione esiste? E i Sortilegi?

Interessante. Compare ad un certo punto questo tema della “Possessione”. Qual è la differenza tra l’abisso come metafora e l’abisso reale, metafisico? Tra le altre “dimensioni del reale” come metafora e la loro esistenza reale? L’autore ci riporta questa teoria, della Possessione, direttamente così, con la stessa spiegazione che ha avuto occasione di ascoltare, meravigliandosi lui stesso di come questa teoria in fin dei conti non abbia nulla di assurdo, o di sciocca superstizione. Anzi, tutto sommato sembra un buon “dispositivo”, consente di non arrendersi di fronte all’indicibile che si avvera ma di individuarne la causa in una debolezza dell’individuo di fronte al male che vuole possederlo, e allora un metodo c’è, quello di farsi trovare più forti. La questione dunque può essere posta in questo modo – come personalmente ho sempre razionalizzato nella mia testa leggendo testi di etnopsichiatria o leggicchiando di sciamanesimo: Non è importante che la Possessione esista davvero o no, ciò che conta è che le persone si comportino come se la Possessione esistesse davvero. Dicendo così però, riprendendo la riflessione del punto precedente, non abbiamo trovato una risposta ma semplicemente posto una domanda, che potrebbe anche rivelarsi utile ma sempre in quanto domanda. L’autore più avanti nel suo racconto, ad un certo punto usa la parola “sortilegio”. Mi ha colpito. Lo fa una sola volta in tutto il libro ma lo fa in un passaggio nel quale forse si tenta di individuare dei “dispositivi”.

5. Restano ancora angoli non indagati. Il male che serpeggia già tra gli amici, in alcune tribù di amici. Come è possibile entrare dentro queste tribù e studiarle?

Ho avuto più volte la sensazione, durante la lettura, che certi angoli della realtà descritta restavano in ombra, e avvertivo la frustrazione di non “vederli” indagati di più. Ad esempio, “il gruppo di amici” della vittima. Ma è davvero così?, e come indagarli di più? Lo slogan più rappresentativo del Sessantotto diceva “L’immaginazione al potere”. L’orizzonte semantico dentro cui questo slogan si percepiva a proprio agio – e per chi ci vive dentro il senso un orizzonte appare ovvio – immaginava appunto un mondo in procinto della sua liberazione, per una positiva affermazione di noi stessi, come individui e come gruppo. Un mondo nuovo, che si poteva appunto immaginare. “Un altro mondo è possibile” recitava uno slogan di qualche decennio dopo, in un tentativo estremo di mantenere ancora in vita il vecchio orizzonte semantico, sempre più sopraffatto da nuovi sortilegi. Negli ultimi anni anche questo secondo slogan sembra essere caduto in disuso. Dicevo sopra che l’autore tiene a freno l’immaginazione e non cerca mai di immedesimarsi nei personaggi, per poterli comprendere o immaginare di comprenderli. Forse, paradossalmente, è proprio questa la forma odierma dell’immaginazione, quella di sforzarsi in tutti i modi di mantenere lo sguardo aderente alla realtà, senza immaginare nulla, anche quando la realtà a cui possiamo rivolgerci è carente, frammentaria, ne conosciamo solo dei pezzi, dobbiamo accontentarci di vederla attraverso il punto di vista parziale di altri, di altre narrazioni. Narrazioni che si contraddicono, negano, rafforzano, danno nuove forme deformando ciò che accade o che potrebbe essere un’altra narrazione. C’è uno scontro di narrazioni in atto, al centro di questa vicenda, da quelle “principali” dei due carnefici, in lotta tra loro, tra debolezze esibite e manipolazioni più o meno velate o esplicite, vischiose tra loro. Ma forse, prima ancora delle narrazioni in quanto tali, delle quali al limite, recuperandole, si potrebbe tentare anche un’ermeneutica del testo, mi sembra che sia presente in ciascun personaggio la preoccupazione di quale narrazione dare di sé. A questo punto potrebbe essere perfino sciocco parafrase Pirandello e dire che qui in questa storia ci sono personaggi non in cerca di un autore ma di una narrazione, e l’autore ci si caccia dentro, ne ricerca i fili chiedendosi, immerso in questa molteplicità di narrazioni, quando emergeranno fuori i nodi? Ma forse non si tratta solo dell’autore ma di tutti noi, in questi tempi, alle prese con la ricostruzione continua e gelosa delle nostre molteplici narrazioni. I nodi sono le nostre aporie, i nostri disagi. I nostri stimoli.

6. La legalità, la Legge e le istituzioni!!!!!!

Si tratta di una mia fisima? I carabinieri, la legge, le istituzioni eccetera sono parte del “bene” e devono resistere alla pressione del male, che talvolta li infetta e produce delle mele marce? Qual è nella realtà il senso del contratto primordiale che lega una società, e in quali forme vive? Per contrasto, mi balzano agli occhi le storie di Cucchi, Aldrovandi, e tante altre: riprendendo da sopra una riflessione, si tratta in questi casi di “mele marce” che non hanno resistito alla pressione del male? Oppure, anche questi “paradossi” sono uno dei volti o dei “nodi” che possono emergere? Questione assai complessa e aperta anche a tanti diversi campi di riflessione. Mi torna in mente, in un modo forse banale, una manifestazione a cui ho partecipato poco dopo il 2001 insieme a “Libera”, tanti giovani che camminavano mescolati a tante persone in “alta uniforme” per lo stesso obiettivo dichiarato, e contemporaneamente me li “immaginavo” qualche tempo prima per le strade di Genova. Ma forse, riprendendo ancora una riflessione più sopra, la “parola chiave” è proprio “immaginazione”?

7. Romanzo “metafisico” sul libero arbitrio.

“La scelta” è una delle questioni che da sempre mi ha intrigato di più. Anche sul piano legale ha la sua importanza, e le sue interpretazioni e applicazioni. Nel caso specifico del processo, l’unico svolto che ha riguardato uno dei due carnefici, non viene riconosciuta l’attenuante dell’incapacità di intendere e volere. Questa è la formula, che nella sua applicazione pratica si è tradotta nella condanna a 30 anni di galera. Ma all’autore del libro, e anche a me, interessa “la scelta” in quanto tale, cioè il “libero arbitrio”. Non è nemmeno del tutto chiaro se nella storia dell’umanità nessuno abbia mai risolto questo nodo da sempre al centro di religioni e flosofie, o al tempo stesso se siano stati troppi quelli che di volta in volta lo hanno risolto. Ho sempre detto a me stesso, non senza ironia, che su tali questioni alla fine si deve scegliere come pensarla, da quale parte stare, e non tanto giusto per dire qualcosa come di fronte a un sondaggio qualunque, ma perché dalla questione della scelta dipende anche quella della responsabilità, che a mio avviso non può non essere individuale. La responsabilità è sempre individuale. Può sembrare un paradosso ma non abbiamo altra scelta, non possiamo sfuggire a questo principio. La responsabilità è sempre individuale, perfino nell’Heichmann di La banalità del male, anche se lui mi sembra che faccia di tutto per separare gli “ordini superiori” dalla sua capacità di scelta. La responsabilità resta individuale perfino quando infrangere quella distinzione può comportare grossi rischi, magari anche della vita. Eichmann non avrebbe potuto evitare quei rischi, non era lui il padrone unico degli eventi. Non aveva altra scelta che accettarli. Così come non aveva altra scelta che accettare la sua responsabilità individuale, che comunque restava sua. Sembra un pradosso, anzi lo è davvero e non c’è altra scelta che accettarlo, scegliendo anche di disubbidire all’ordine, o all’autorità sotto qualunque forma si presenti. Mi vengono in mente le antiche tragedie greche, a iniziare da Antigone. Sono tante le persone ancora oggi che non si sottraggono alla tragedia. Ho scelto un esempio estremo, nei più generali casi della vita i bivi di fronte alle scelte spesso non sono altrettanto drastici, spesso più che il timore della vita ciò che ci mette più pressione è il timore dell’ostracismo dei gruppi o delle figure che assumiamo a riferimento. Ammettere la scelta, e quindi la responsabilità individuale, ci offre una via d’uscita, il prezzo può essere quello di porci un’infinità imprevista di domande, di fronte alle quali non vorremmo trovarci ma non abbiamo altra scelta.

8. Tragedia grega.

L’ho già accennato nelle riflessioni precedenti. Mi tornano in mente le tragedie greche ma nell’immagine che ce ne ha dato Pasolini. E così, seguendo anche questa suggestione, a più riprese durante la lettura, mi sono tornate in mente scene di Medea o di Edipo Re – nelle quali tra l’altro lo stesso Pasolini inseriva frammenti della propria biografia – con gli scenari urbani sullo sfondo, la città eterna appunto, con i suoi ruderi desolanti e cieli senza senza compassione, e gli interni così privi di qualsiasi estetica, poveri perfino di kitsch.

9. L’incontro e il perdono.

Altro tema affascinante. L’autore cita un libro che gli ha suggerito Luigi Manconi. Il libro dell’incontro. Sottotitolo: Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. A cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato. Ecco un punto di contatto, Qualche anno fa mi capitò di conoscere Luigi Manconi e conversare con lui una mezz’ora, e trattandosi di lui quella mezz’ora divenne così densa da sembrare assai più ampia. Non ricordo esattamente quali catene di associazioni seguimmo ma ad un certo punto parlammo di questo, un tema che anch’io ho affrontato più volte nei miei scritti, una volta raccontando della guerra di Jugoslavia, un’altra di quanto accadde da noi tra gli anni Settanta e Ottanta, ma anche in altre storie, e Manconi mi suggerì di leggere questo libro che era appena uscito. Il nostro autore quel libro donatogli da Manconi lo aveva dimenticato sotto una pila di altre carte e libri, ma poi ad un certo punto ci pensa quello stesso libro, da solo, a risaltargli fuori, e allora lui lo legge, ritrovando tracce di ciò su cui si stava aggirando. Sarà ora che anch’io me lo procuri questo libro, e colmi così almeno una delle tante lacune che avverto di avere.

10. Come uscire dal sortilegio?

Sortilegio. Probabilmente è questa la vera parola chiave. Schiavi di una nuova stregoneria senza stregoni – mi viene in mente “Sregoneria capitalista” di Philippe Pignarre e Isabelle Stengers – e oramai disabituati a comprendere i meccanismi del sortilegio, ci sentiamo persi, privi di dispositivi che non riusciamo più ad immaginare, nemmeno se li abbiamo sotto gli occhi. Anzi, senza il se, perché sono dentro i nessi della nostra stessa vita. Come scrivevo più sopra, l’autore usa questa parola, sortilegio, una sola volta, e lo fa proprio mentre parla del libro dell’incontro. Potrebbe trovarsi proprio in questi paraggi la possibilità di sciogliere quel sortilegio, alle prese ancora una volta con una realtà, o con un senso della realtà, che temiamo ci sfugga se proviamo a guardarla. Come l’immagine della luna sulla superficie tremula di un pozzo. M’intrigano le metafore che l’autore usa ma in un modo che definerei leggero, ne fa dei titoli, come per non increspare quei riflessi: il buio, il pozzo e il pelo dell’acqua.

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