Ci vuole una musica per questa terra

Oramai mi sto convincendo che ci vuole una musica per questa terra. E non mi riferisco ai concerti di Risorgi Marche, ogni analogia è puramente casuale (ho partecipato anch’io a uno di questi concerti, scherzando ho sottolineato a chi me lo chiedeva che mi avevano recintato dentro e dunque non potevo scappare. Eravamo sui campi aperti sopra Rubbiano, avevano da poco falciato il grano, un balcone naturale aperto verso tutte le parti, tanto sole e cielo sulle pendici della Sibilla, poco più in là la Regina e nascosto in mezzo a loro l’Infernaccio, chiuso sotto le frane dei recenti terremoti. Mi sembrava questo il vero concerto, senza togliere nulla a chi con la sua presenza, reale e non di maniera, lo rendeva possibile questo altro concerto dei luoghi, capace di dare un senso all’arrivo di tanti).
Ci vuole una musica perché se è la poesia a estrarre le parole dalla nostra vita di ogni giorno, poi è la musica a farle volare nell’aria. Ripensando ai tamburelli suonati dalle fate discepole della Sibilla dei miti, o alle musiche delle nostre contrade più remote, remote come i meandri delle nostre vite, mi chiedo non soltanto come o cosa suonavano ma che cosa cantavano, a quali parole davano la forma delle ali per volare.
Chiacchierando con un amico musicista, affacciati ad un balcone di Balzo di Montegallo, con la montagna e le sue valli di verde davanti a noi e il paese silenzioso e vuoto alle nostre spalle, ho scoperto che la nostra musica popolare un tempo, forse un paio di secoli fa, era più ricca di suoni e strumenti, volavano nell’aria ad esempio i suoni delle corde dei violini, capaci di una continuità ed estensione che affonda forse proprio nei meandri di quelle valli simili ad una pelle del paesaggio. L’organetto arrivò dopo, ritrovandosi presto quasi da solo come un custode di echi più ampi, facendo del suo meglio per contenerli tutti.
Cerco quasi di rievocarli nella mente, quei suoni di corde che piangono e ridono, come se dovessi estrarli insieme alle parole che talvolta vado cercando per raccontare storie, ricercando sensi, ma la musica io fatico ad afferrarla.
La musica ho sempre immaginato che sia nelle mani del musicista prima che in altri spazi della mente. Ricordo un giorno mio padre, gli avevamo regalato a sorpresa per i suoi ottanta anni un mandolino. Da ragazzo, in quelle feste che si spargevano sulle terre delle nostre campagne, quando al riparo della notte  le fatiche del giorno si scioglievano in balli ritmati da stornelli, mio padre suonava il mandolino. Me lo hanno raccontato io non l’ho mai visto, e ascoltato, quando nacqui lui era già adulto di quasi mezzo secolo di vita. E il mandolino non lo toccava già più e non lo toccò mai fino al giorno della sorpresa. Lo prese in mano commosso e poi come forzando una specie di pudore – se avesse avuto un cappello in testa se lo sarebbe tolto come si usava entrando in un luogo importante, di rispetto, con il passo incerto – e quel giorno anche lui con il gesto incerto aveva preso in mano il mandolino e poi aveva mosso la mano a ripetere alcuni antichi accordi custoditi nella sua memoria. Una memoria che aveva custodito nelle mani, mi resi conto guardandolo.
La musica è nelle mani che danzano nell’aria e sulla superficie degli strumenti, dev’essere per questo che lo strumento o gli strumenti di un musicista sono spesso prolungamenti della sua persona, simbiosi di quelle memorie anche quando il musicista non c’è più.
Ci vorrebbe una musica per queste terre, pensavo, e poi vengo a scoprire che qualcuno ci aveva anche pensato davvero, senza girarci sopra con le parole come faccio io ma ‘musicando’ direttamente, e con un progetto di agrimusicismo che in questo istante sembra tristemente spezzato, ma chissà…. chissà.
La poesia estrae le parole e la musica le fa volare, dicevo. Sì, mi sto convincendo che ci vuole una musica per questa terra, per far tornare a volare le parole e dare una nuova consistenza al silenzio che ho ascoltato passandoci dentro in questi giorni.
Io al mio solito sono passato di qui per pochi giorni e come un turista distratto, anche se ho già abbastanza età per avere sperimentato più volte che mai nulla avviene davvero per caso. Ma sempre distratto resto, perché non è qui che si sono formate le mie esperienze quindi tutto ciò che di nuovo mi sembra di sperimentare è soggetto a chissà quali mie suggestioni nascoste dentro di me. Lo so, o credo di saperlo.
La sensazione maggiore che ho di questi giorni trascorsi qui, ora che alle sei di mattina un gallo canta a squarciagola anche se soltanto a me e pochi altri in questo luogo di campagna sulle pendici della Sibilla dove mi sono fermato, la sensazione maggiore che ho di questi giorni è proprio il silenzio.
Bisogna camminarci dentro il silenzio, invidio chi è capace di farlo.
Il silenzio delle tante frazioni, borghi o paesi vuoti che ho attraversato, case messe in sicurezza e persone portate al sicuro altrove, strade spesso deserte, qua è là qualche cane che si è abituato a dormire sull’asfalto, e ti guarda passare restando in silenzio. Ieri sera dalle parti dei prati di Ragnolo all’ora del tramonto, c’era un falchetto a terra sull’asfalto, che mi fissava senza muoversi. La mattina prima un falchetto mi aveva osservato immobile dal cielo mentre fotografavo i ruderi silenziosi della chiesa di Santa Maria in Pantano: mi auguro che le lascino lì per sempre quelle macerie, senza toccarle più, patrimonio dell’umanità, testimoni esemplari di quella che in molti ora chiamano strategia dell’abbandono (la chiesa è venuta giù definitivamente con la neve e le scosse di gennaio, e da agosto era stato chiesto più volte di metterla per tempo in sicurezza).
Il silenzio è importante e ha una sua forza che dobbiamo imparare a conoscere, l’ho capito l’altra sera mentre fotografavo il simbolo della vita sulla parete esterna della chiesa di Santa Maria in Casalicchio, lungo la strada per Foce di Montemonaco, con la facciata rivolta su verso la corona della Sibilla, che domina anche questa valle. Nel momento in cui scattavo la foto ricevo un messaggio, mi dicono che tra gli artisti selezionati per Land Art 2017 alla gola del Furlo – una bellissima Gola, qui l’analogia c’è ed è reale – c’è un’ artista che si è ispirata per la sua “custode della sassaia” al verso di una delle canzoni che ho scritto per il mio libro di racconti contadini: “la memoria è come un sasso, quando ti colpisce non puoi trattenerla, con gli altri tu devi dividerla, se vuoi usarne la forza”.
Il silenzio è importante, dice più di mille parole, di queste parole che occorre tornare a estrarre con cura dalla vita quotidiana, è un silenzio che contiene già la sua musica, ci vuole una musica per questa terra, per far volare di nuovo le parole.

(ripubblicato anche nel blog LIPPERATURA il 3 ottobre 2017)

Informazioni su Tullio Bugari

https://tulliobugari.wordpress.com/
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4 risposte a Ci vuole una musica per questa terra

  1. Marco ha detto:

    grazie Tullio

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