LA SCELTA (e tu cosa avresti fatto?)

Senza titoloAl Candiani Summer Festival 2012 di Mestre, dedicato a “Balkania vent’anni dopo”  non ci siamo incontrati per pochi giorni.
Noi con il nostro libro Jugoschegge ci siamo stati il 15 giugno e loro – Marco Cortesi e Chiara Moschini – il 21, con lo spettacolo teatrale “La scelta“, prodotto con il contributo di Amnesty International:
“Ci sono spettacoli fatti per intrattenere, altri per divertire o emozionare, il nostro preferiamo definirlo un documentario in formato teatrale, nato con un unico scopo, quello di ricordare, fare memoria; in un’epoca in cui tutto è vero e falso allo stesso tempo e ti chiedi dove finisce il vero e dove inizia il falso, il nostro vero è un vero un po’ speciale perché sono quattro storie vere per davvero, raccolte da questa tragedia nel cuore dell’Europa, raccolte usando il classico metodo del racconto orale davanti a un registratore acceso.”

E’ stata questa l’introduzione di Marco Cortesi ieri sera ad Ancona (cito a memoria e posso essere impreciso, ma potete ascoltarlo direttamente attraverso questo trailer). Eravamo in un piccolo teatro comunale dal nome natalizio (il Panettone), gestito dal gruppo teatrale Recremisi, in una serata organizzata con la collaborazione di Amnesty International  e da due gruppi locali dell’Agesci (prima serata della rassegna “Il teatro del reale”).  “Nel 2007 siamo stati a Sarajevo e ci siamo subito innamorati di queste storie così coinvolgenti, che non ti lasciano più”, mi diceva (cito sempre a memoria) uno degli organizzatori della serata, Mauro Cecili. Lo spettacolo è stato preceduto da una breve performance dei ragazzi dell’Agesci, dedicata all’Albania del 1991 e agli esuli della Vlora, la nave dolce.  

Il registratore acceso è quello di Svetlana Broz, autrice del libro “I giusti al tempo del male”, dal quale sono tratte (“folgorati dalle storie di Svetlana”), le quattro storie messe in scena e raccontate al pubblico, per lo più giovanile, che i due attori hanno saputo coinvolgere con vera passione, non solo sulle quattro storie in quanto tali: la prima su Srebrenica quasi terribile per il suo impatto, poi le altre, su diversi fronti e situazioni, in ciascuna delle quali l’elemento centrale è la scelta sulla cosa giusta da fare nel momento terribile in cui si presenta la necessità di aiutare qualcuno rischiando anche la vita.

Tu cosa avresti fatto? E’ questa la domanda su cui riflettere e che ci portiamo dentro, e non è per nulla facile rispondere. In una delle storie, l’amico “croato” lo spiega così, parlando tra i denti per la tensione  del momento drammatico, all’amico medico “musulmano” che sta aiutando e che gli dice “vai via, lasciami qui, non rischiare, pensa alla tua famiglia e alle tue bambine”: “lo faccio proprio perché penso alle mie bambine – risponde – se ti lasciassi qui non potrei più guardarle in faccia finché vivo!”
Ma non è facile, la scelta non somiglia mai al “bel gesto”, è qualcosa d’altro e anche di più intimo e profondo.

picture_04Dicevo che lo spettacolo è interessante non solo per le storie raccontate in quanto tali, tratte da una guerra che bene o male è già finita oltre quindici anni fa, ma perché partendo dal loro significato si allarga ad una riflessione più ampia sulla guerra, sulla violenza, e aggiungerei anche sulla stoltezza umana, che ad ogni giro della storia ripete sempre gli stessi orrori, allargandoli.
“Chi non conosce il passato è destinato a ripeterlo” citava Marco Cortesi nell’introduzione, ricordando anche i primati della guerra di ex-Jugoslavia, con la più alta percentuale di morti civili – stimata nel 95% – mai avuta in una guerra o l’assedio più lungo mai avuto, quello di Sarajevo. Su questa linea di riflessione, un’altra cosa che ho apprezzato è stata l’insistenza su questo concetto: a noi interessa sapere che cosa è accaduto prima, che cosa di solito accade prima, per poterlo riconoscere in tempo. E quindi un elenco della situazione che ha preceduto la tragedia (la grave crisi economica, la ricetta del FMI, il governo tecnico, il razzismo e l’illegalità crescenti eccetera, solo per limitarsi ad alcune delle questioni interne).

Per analogia col nostro lavoro, mi viene in mente questo brano del nostro Jugoschegge, tratto dal racconto di Ennio Remondino:
“Le guerre nascono sempre orfane e muoiono senza figli. Non c’è mai un racconto del “prima della crisi”. Se invece le crisi fossero raccontate da quando cominciano, magari si riuscirebbe ad evitare di arrivare a conseguenze tragiche. Poi arriva la guerra con la sua grande enfasi televisiva, uno spettacolo gratuito per la tivù che la trasmette, dai colori vividi… La guerra è sempre colorata, ed emotiva, suscita paura e curiosità. Perché si vuole sapere come va a finire e per questo la si porta al massimo della spettacolarizzazione possibile. Ad un certo punto i combattimenti finiscono e il vero problema diventa “il dopo”, perché la guerra non lascia figli, conseguenze. Durante il conflitto si fanno tanti racconti iperbolici mentre dopo non si dice più nulla. Perché se si andasse ad approfondire, magari si scoprirebbero le bugie di prima, della “Idealpolitik”… e se ti accorgi che non hai risolto nulla allora ti chiedi perché l’hai fatto, tutto questo.”

Oppure, mi viene in mente questo brano tratto dal precente libro curato da me e Giacomo, Izbjeglice, tratto da questo brano del racconto di Siniša “Scusi, ha dimenticato il Kalašnikov”:
“Poi, oltre alle liti hanno iniziato anche a scambiarsi vere minacce. Già nel 1990 era diffusa la sensazione che qualcosa stava cambiando. La legge veniva rispettata sempre di meno. La stessa Polizia non entrava più in certi quartieri se non era ben organizzata. Gli arresti e le sparatorie fra polizia e criminali aumentarono vertiginosamente. In gran parte riguardavano trafficanti di armi e di droga e la politica non c’entrava assolutamente nulla. Erano invece i resoconti della polizia o le cronache delle televisioni che tendevano a riferire soltanto l’appartenenza etnica degli arrestati. Ad esempio, se un criminale ne uccideva un altro in un regolamento di conti, la notizia principale era che un musulmano aveva ucciso un serbo, o viceversa. Tutti quelli che potevano vendevano armi, per soldi e senza badare ad altro. I serbi ai musulmani, i croati ai serbi e così via, e la gente si domandava: “Come mai vendono le armi ai nostri nemici?” Tutto si confondeva. Nonostante questo non riuscivano a vedere che dietro a quelle persone che trafficavano “con i nemici” c’erano dei criminali che guadagnavano soldi, gente dalle mani sporche. Si iniziava invece sempre di più a parlare di serbi o di musulmani o di croati. Più tardi ci furono anche assalti presso i magazzini dell’esercito ma non si sapeva chi fossero e dove finissero quelle armi.”

Ringrazio chi ha lavorato allo spettacolo e chi lo ha organizzato, per la capacità di coinvolgere ancora tante persone su queste vicende così importanti, e anche per avermi offerto l’opportunità di unirmi a loro con queste poche note che ho scritto qui sopra.
Concludo nel modo in cui ha chiuso la serata Marco Cortesi, ricordando che una delle più diffuse espressioni usate nel mondo, ciascuno nella propria lingua, è “Non posso, mi dispiace ma non posso, perché…”: “Se sostituite quei verbi con “non voglio”, vi renderete conto che il motivo è dentro di voi: è la vostra volontà. Svetlana ci insegna che, solo orientandola verso la giustizia nel piccolo, è possibile esser giusti nel molto”.

Informazioni su Tullio Bugari

https://tulliobugari.wordpress.com/
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